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Le persone della mia città
Le persone della mia città
Le persone della mia città
E-book323 pagine4 ore

Le persone della mia città

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Info su questo ebook

Si chiama empatia. È la capacità di capire i sentimenti dell’altro e sentirli insieme a lui per sentire e fargli sentire la tua vicinanza. Le persone della mia città non coltivano questa qualità, anzi non sanno neanche cosa sia. Le persone della mia città vivono in una società basata sull’etica, non sull’empatia. Il rispetto della vita degli altri è un diritto e un dovere etico, ma emozionalmente si vive a distanza dagli altri. [...] Le persone della mia città non hanno tempo per provare empatia per gli altri, sono troppo occupate a lavorare per salvaguardare la loro indipendenza. Per le persone della mia città la parola indipendenza non si riferisce al pensiero libero, ma a ciò che si può fare con il denaro. [...]Per le persone della mia città il razionalismo è veramente indispensabile, così indispensabile da sentire che senza di esso l’unica alternativa sarebbe il medioevo religioso, dal quale pensano sinceramente di essere usciti grazie alla rivoluzione tecnologica. [...] se l’Europa è razionale, l’America Latina è magica e la differenza fondamentale è che la magia non possiede logica, è illogica, senza senso. La magia emoziona, è misteriosa, affascinante, seducente e suggestiva; può farci anche innamorare. Si sente, ma non si spiega. Non si può spiegare, non si deve spiegare, basta sentire. Spiegare per capire, significa smettere di sentire. Nel momento in cui la magia viene spiegata, non è più magia. Questo, le persone della mia città, non lo sanno.
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2017
ISBN9788876066740
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    Le persone della mia città - Andrea Alì

    @micheleponte

    Andrea Alì

    LE PERSONE

    DELLA MIA CITTÀ

    Edizioni Il Foglio

    P R I M A P A R T E

    1

    Il problema della mia città è la gente che ci abita. E questo è un fatto abbastanza preoccupante, infatti le città le costruiscono gli uomini, anzi si potrebbe dire che proprio come decine di altre manifestazioni dello spirito e dell’ingegno umano come la letteratura, la scultura, la moda, la cucina, la musica e il teatro le città sono l’espressione del modo di essere delle persone che ci vivono o che ci sono vissute e che per questo hanno modificato il paesaggio, lasciando un’impronta del loro passaggio.

    Quando penso alla mia città, alla relazione fra l’uomo che costruisce e l’oggetto costruito, vado in bestia; quando mi sveglio la mattina e vado sotto la doccia una delle cose che mi mandano in tilt per tutta la giornata, ma che non posso evitare di domandarmi, è come sia possibile che la mia città mi sembri un posto tanto bello e i suoi abitanti tanto brutti. Quegli stessi abitanti che insieme a me, anche se a dire il vero io ho partecipato finora in piccolissima parte, hanno contribuito a costruirla e a darle la forma che attualmente ha.

    Io non vivo nel centro storico né nella seconda cerchia del centro, quella più moderna costituita da tanti piccoli condomini residenziali con balcone e veranda, costruiti negli anni Sessanta e Settanta; anzi, non vivo proprio in città, vivo fuori solo pochi chilometri, diciamo in provincia, ma insomma, quando dico la mia città, io mi riferisco a tutto, città e provincia perché questa città e la sua provincia si assomigliano proprio tanto; certo, forse i cittadini sono un po’ più urbanizzati o forse loro pensano di essere un po’ più eleganti dei provincialotti di paese e magari lo sono pure, ma alla fine c’è un denominatore comune che si percepisce sulla pelle, è nell’aria quando si cammina per strada, si sente.

    Certamente le città hanno un carattere proprio, anzi si potrebbe pure dire che le città, benché siano un pasticcio di difetti e qualità, quasi sempre possiedono una fisionomia dominante che è proprio quel pasticcio, cioè il risultato di difetti e qualità, una immagine dominante di quel posto, in breve, la loro cera che si vede, si respira, si può anche toccare con le mani, uno a volte se la sente addosso. Pertanto, se dovessi assegnare una serie di aggettivi alla gente della mia città, quelli che mi vengono in mente sono: operosa, industriosa, ricca, parsimoniosa, austera, introversa e un po’ scorbutica.

    Nel Medioevo i banchieri di questa parte di Italia indebitavano i re di mezza Europa dilatando le loro ricchezze. Ancora oggi a Parigi esiste una rue de Lombards e a Londra la Lombard street si trova nel cuore della City.

    A scuola, la mia città assomiglierebbe al secchione della classe, ma un secchione un po’ musone e burbero. Non sarebbe certo il secchione che ti aiuta a fare i compiti a casa: fatteli tu i tuoi compiti. Non sarebbe quello che ti presta gomma, riga e temperino: portati i tuoi se ti servono; ma soprattutto non sarebbe quel genere di secchione che durante il compito in classe ti passa le risposte: dovevi pensarci prima a studiare.

    Per le persone della mia città l’importante è organizzare e organizzarsi. Non lasciare nulla al caso. Tutta la società deve essere organizzata perché l’organizzazione porta benefici economici per tutti. E l’arte? Certo, l’arte richiede metodo e disciplina, ma richiede anche menti eclettiche, poliedriche, versatili, e questo non è proprio il caso della persona ingranaggio prodotto finito della mia città.

    A volte quando scendo in strada, mi viene quella che io chiamo l’ansia del tronco, sento lo stomaco irrigidirsi e diventare duro come un tronco. Cresce rapidamente nella pancia, verso l’alto e verso il basso, mette le radici nell’intestino e allunga i rami afferrando i polmoni, si attorciglia alle budella e mi stringe la gola; quando mi succede, non posso fare altro che correre all’impazzata, scalpito per liberarmi di questo feto troppo cresciuto, salto in sella alla bicicletta e raggiungo la campagna, mi perdo per tutto il giorno nella campagna, nei boschi, sulle montagne. A volte un giorno non basta per liberarmene e così mi allontano, mi allontano, mi allontano assente. Altre volte mentre cammino per le strade del centro e incrocio la gente, mi volto a guardarla. Nessuno si volta a guardarmi. Io continuo per la mia strada e continuo a voltarmi perché mi sento catturato dai corpi delle persone da quell’energia che emanano e che si vede nelle pettinature, nel modo di vestire e di camminare, dai loro sguardi. Ma nessuno si volta a guardare me. Dopo qualche minuto mi passo una mano sulla fronte e provo a pizzicarmi una guancia. A volte faccio qualche boccaccia diretta a qualche signore o signorina di passaggio. A quel punto la malcapitata gira appena gli occhi verso di me e ci allontaniamo in fretta l’uno dall’altra, lei con la coda fra le gambe e io contento di sapere che esisto.

    Sono le cinque. Mi alzo per andare a lavorare; nella mia città in agosto gli acquazzoni sono frequenti e rinfrescano l’aria ma ieri non ha piovuto. Mi affaccio alla finestra e guardo fuori, vedo le due piccole palazzine a due piani sulla montagna di fronte, non troppo distante. Sono minutamente incastonate nella montagna, la montagna le protegge e le coccola, hanno i tetti rossi e l’intonaco pastello giallo e verde, un bel giardino tutto intorno. Le guardi e ti danno, se non proprio la pace, una certa tranquillità estetica, ti rassicurano sulla presenza e sulle capacità artistiche del genere umano.

    In fondo potrei pensare che la materia, essendo inerte, trattiene solo le forme ma non gli umori di chi gliele ha date. Voglio dire che se un artista soffre, quando vuole imprimere alla sua opera un sentimento, può anche succedere che alla fine nessuno si accorgerà del suo sforzo creativo e allo stesso modo deduco che, se il muratore che ha costruito le due belle palazzine che vedo dalla finestra di casa mia, costruendole le ha odiate; comunque, quell’odio non è sopravvissuto nella materia o se fosse sopravvissuto, sarebbe mascherato dall’eleganza estetica impostagli dal suo capomastro.

    Prendete un siciliano e vi dirà che il posto più bello del mondo è la Sicilia, prendete un napoletano e vi dirà che la pizza come a Napoli non si mangia da nessuna parte, prendete un francese, un arabo, uno statunitense, chi volete; sicuramente vi diranno che la loro lingua, la loro arte, la loro vita sono le più interessanti e variegate e ineguagliabili del mondo.

    Le persone che vivono nella mia città sanno bene che il loro stile di vita è il migliore possibile nel mondo e ne sono così sicure e contente che te lo dicono in continuazione; voglio dire, non si sforzano di vivere contente la loro vita e basta..., no, al contrario dedicano l’energia di un gigante per convincerti di come dovresti vivere la tua. E in effetti, come spiega la canzone, la brava gente non ama le persone che vogliono vivere in un modo diverso dal loro, e questo, per qualcuno può diventare un problema.

    La gente di questa città è molto elegante, possiede stabilità economica e apparentemente emotiva, non alza la voce per strada, guida con prudenza belle automobili che danno la precedenza ai pedoni, ha lavori interessanti e vive in belle casette con i muri chiari, adatti a catturare la poca luce disponibile nei giorni invernali. Quando viaggia lo fa utilizzando comode macchine e prenota stanze in comodi alberghi provvisti di bar, ristorante, palestra e sauna. Per loro il viaggio non è un’occasione di conoscenza, piuttosto di riposo. Quando è a tavola non mangia tanto perchè non sta bene mangiare tanto e perché mangiare tanto sciupa la grazia delle curve del corpo che devono essere sempre perfette, poi dove non ci arriva la dieta ci pensa la chirurgia. Quando la gente di questa città parla, ha un modo tutto suo di farlo; se da una parte rifiuta ed etichetta come volgari gli atteggiamenti linguistici di abitanti di altre città non altrettanto eleganti, non disdegna e anzi si considera investita di eccelse capacità linguistiche, nell’usare espressioni apertamente scurrili quando qualche imprevisto turba la sua quiete giornaliera.

    2

    Sono le cinque e un quarto, entro nella cucina gialla, sposto la tendina della porta finestra, il sole sornione si è già aggrappato alla montagna e ne sta scalando la cima. In alto nel cielo ci sono poche righe di nuvole biancastre. Mi faccio un caffè. Mi devo sbrigare. Oggi ho il turno delle sei. Prendo il caffè con due biscotti e sono già in strada. Ci saranno diciotto gradi, salgo in macchina e parto. Il sole attacca al lavoro prima di me. Un anno fa, quando ho smesso di fare il postino a tempo determinato e ho trovato questo lavoro in fabbrica, mi sono comprato la macchina. È un maggiolone dell’ottantasei. Forse pochi ricordano che nell’ottantasei la Volkwagen ha prodotto in America Latina questo modello in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita della vettura. Serie limitata. Un vero gioiellino. Questo viene da Guadalajara, in Messico. L’ha fatto importare un appassionato della provincia. Se l’è tenuto per qualche anno e poi l’ha venduto, guarda caso, al papà di Jenny, una mia ex compagna di scuola con cui ho fatto le medie e che vive proprio qui in paese. Dopo un paio d’anni anche lui si è stancato e io non me lo sono fatto scappare. Tanto più che essendo un conoscente mi ha fatto anche il prezzo buono. In compagnia lo chiamiamo tutti la cucaracha, perché è di un rosso scuro scuro tendente al marrone, come la corazza dei celebri scarafaggi e come loro ha il corpo bombato. Prendo la solita statale. I raggi gialli del sole partono di sbieco dall’alto della montagna e mi accecano. Si sono già posati sulle colline più vicine rinverdite dai temporali estivi e sulle vette di pietra delle montagne all’orizzonte. Mi sento in piena forma e mi accendo una sigaretta. Il rumore del traffico silenzioso e ordinato è attutito dalle ultime tracce di sonno che ancora mi porto dietro. La strada si apre un varco nella frescura del mattino. Parcheggio l’auto e scendo. Vedo il solito cartello: Cartontex. Sembra che i proprietari siano texani, forse hanno inventato loro questo nome. Sono in perfetto orario e ho una certa tranquillità nello stomaco. Il mio stomaco è forte e con il mio lavoro che prevede un giusto equilibrio fra movimento e attesa, posso permettermi più libertà culinarie di quello che normalmente farebbe un impiegato. Non farei l’impiegato nemmeno se mi pagassero il triplo del mio non povero stipendio. La schiena non è d’accordo, lei accetterebbe volentieri di fare l’impiegata, in fondo è lei che si prende in spalla tutto il peso dei bancali di cartone. Vedo in lontananza arrivare a piedi Mariolino, si porta appresso sullo sfondo uno stuolo di nuvole rosa e azzurre; è come se fosse dentro a un quadro e camminasse verso di me per uscirne, lo aspetto. Si è fatto una specie di cresta da mohicano che non è proprio di moda, è uno stecco di un metro e sessanta, ha la bocca storta e un dente davanti scheggiato. Ci salutiamo ed entriamo insieme. Ci dirigiamo verso gli spogliatoi. Mariolino è ai bancali, significa che porta i bancali con i fogli di cartoncino alle macchine, se ne va in giro per tutto il reparto con il muletto a distribuire alle macchine i bancali su cui stampiamo i colori, le immagini, le marche del cliente di turno; tonno e yougurt i prodotti più frequenti. La fabbrica è un ambiente abbastanza ampio, io sono alla macchina cinque con Tiralongo, Donati e Fumagalli; siamo in quattro per macchina. In tre sui colori e un capomacchina. Le macchine sono dei pachidermi grigi lunghi una ventina di metri e divisi su quattro tronchi. Su ogni tronco è incastrato un rumoroso rullo di caucciù che girando ti tiene compagnia. Nei tronchi della macchina ci sono i colori basici: giallo, rosso e blu. I fogli di cartoncino invece si infilano dal fondo della macchina. Fumagalli è il nostro capomacchina, mi piace lavorare con lui, non grida mai, è tranquillo. Ieri ho scoperto per caso che ha cinquantaquattro anni. Io gliene davo una quindicina in piú. Ha pochi capelli grigi, pettinati col riporto e le rughe dappertutto. È contento, fra un anno va in pensione. È entrato a lavorare in fabbrica a quindici anni. Anche mio padre fa l’operaio, ma ancora la pensione non gliela danno. Beato il Fumagalli che se ne va in pensione a cinquantacinque anni.

    Quelli che smontano dalla notte ci lasciano i loro posti e se ne vanno contenti, si intravedono già le lenzuola tirate sui loro corpi assonnati, noi che arriviamo siamo pallidi e gialli come il riso in bianco con una cucchiaiata d’olio. Io sono quarto di macchina, sono l’ultimo arrivato, sto in fondo alla macchina con Tiralongo che è terzo. Anche con Tiralongo vado d’accordo. A noi piace leggere. È l’unico che conosco qui dentro che legge. Lui legge letteratura e io poesia. È un po’ più alto di me, ha la barba e i capelli castani lunghi sugli occhi, il naso a virgola perché se l’è rotto da bambino e mastica sempre la cicca, ha due tatuaggi sulle braccia, non rappresentano una scena, un personaggio, una donna nuda, sono dei ghirigori ricamati sugli avambracci. Un giorno mi ha spiegato il significato di quei tatuaggi, ma non me lo ricordo. È un po’ più grande di me, sua moglie fa la segretaria e ha un figlio di pochi mesi.

    Hai letto Rimbaud? Gli chiedo, tagliando verticalmente la plastica che avvolge il bancale.

    Chi è?

    Un poeta francese del milleottocento.

    E che cosa ha fatto?

    Niente. Ha cambiato la poesia da classica a moderna. È un rivoluzionario.

    Tolgo la plastica che avvolge il bancale da infilare nella macchina e la porto al compressore vicino alla finestra. Lì il rumore delle macchine è meno forte e dalla finestra si infilano i raggi del sole, si sentono gli uccellini cantare.

    Gli dico, Quando l’ha fatto aveva sedici anni. Fuori, no?

    Mi guarda incuriosito. Guardo l’orologio, sono le dieci e mezza, il caldo inizia a farsi sentire, mi viene voglia di andarmene, ma ne ho per altre quattro ore.

    E che altro ha fatto?

    Leggilo, gli dico e poi ne parliamo. Io ne so ancora troppo poco, so solo che a sedici anni è partito per andare a Parigi.

    A Parigi? ripete come un pappagallo.

    Sì, gli dico a Parigi. Che c’è di strano. Ci voglio andare anch’io a Parigi. Voglio andarci a vedere i quadri degli impressionisti francesi e poi vado anche a Charleville, che è la città dove è nato Rimbaud. Ho letto che gli hanno dedicato un museo nella sua città.

    Passa Vanda con dei fogli in mano. È una specie di rituale, tutti i giorni passa Vanda, la segretaria del direttore. Vanda ha i capelli ricci e lunghi, la carnagione scura, gli occhi neri, oggi indossa una camicetta bianca senza maniche e una gonna nera sopra il ginocchio. È nei sogni erotici di più della metà degli operai della fabbrica e lo sa. Si affanna sui tacchi muovendo i fianchi con finta nonchalance. Sfila per noi tutte le mattine. Tiralongo dice che qualche giorno la ferma e la sbatte sul bancale. Mi avvicino a Tiralongo che, concentrato sulle curve di Vanda, non mi sente nemmeno, gli metto una mano sulla spalla e gli dico Andiamo a bere il caffè?

    I rulli della macchina girano da soli e ne avranno per una ventina di minuti, facciamo in tempo a berci il caffè delle macchinette e a fumarci la sigaretta. Ci avviamo all’angolo del caffè, penso a Rimbaud e penso che prima o poi bisognerà partire. Questo posto non ha niente da dire. Tutti operai a costruire famiglie con mogli e figli. Partire per non annegare nella campagna. Arriva Russo, lo chiamano il Barracuda perché quando ti parla ti pianta gli occhi nei tuoi come due chiodi, sembra sempre incazzato. Ha quarant’anni e tre figli. Ha assunto un detective privato per far seguire la moglie, ma ti parla sempre della famiglia felice. Dice che domenica scorsa è andato con moglie e figli al Parco delle Farfalle. Arriva anche Viganò: sembra il bisnonno di Asterix. È piccolo e magro, capelli gialli, naso piccolo a punta, rughe intarsiate nella pelle, paonazzo. Ride sempre. Dice che ha appena visto passare l’Antonia, è la donna delle pulizie, peserà cento chili. Una bella manza, come gli piace chiamarla. Vuole sapere se abbiamo la stessa opinione dell’Antonia. Annuiamo tutti divertiti.

    Torniamo al lavoro, il tempo gira veloce come i rulli delle macchine, ma senza rumore, fino alla fine del turno, poi arrivano i colleghi del pomeriggio.

    Adesso fuori il caldo è soffocante, distorce la realtà, entro nell’abitacolo dell’inferno, accendo la musica che si scaglia stridendo contro i quaranta gradi dell’aria, li rompe e mi raggiunge alle orecchie. Canto per non sentire il caldo, il traffico si è diradato. Il caldo e il sonno agiscono da fuori e da dentro il corpo, come anestetici. Arrivo a casa, la bistecca è già nel piatto.

    3

    Dopo pranzo ho dormito un paio d’ore. Mio padre è già tornato, lui non fa i turni, orario giornaliero. È seduto in sala a guardare la tv. Lui non legge, non legge mai, nemmeno una rivista, cronaca nera, cronaca rosa, niente. Guarda solo la tv, tutti i giorni. Quando gli chiedi cosa guarda ti risponde sempre, Programmi interessanti. Mica come tua madre che guarda quelle cazzate sulla vita della gente dello spettacolo. Sono tutto sudato, mi alzo, il bagno è accanto alla mia camera, non devo passare dalla sala, mi rinfresco con l’acqua tiepida del rubinetto, ne bevo un po’. Torno in camera e chiudo accuratamente la porta che mi separa da quel mondo estraneo, mi corico sul letto, prendo in mano Le Illuminazioni e comincio a leggere. Dove dormono le stelle, nell’onda calma e nera/ la bianca Ofelia ondeggia come un grande giglio. Mi piace, Ofelia. Mi accomodo meglio sui cuscini e accavallo le gambe. Domani è sabato e voglio andare in città, in centro c’è una grande libreria, è la più grande della città. Per qualsiasi libro bisogna andare almeno in città, qua nel paesino non si trova niente, solo libri scolastici e i titoli più commerciali. Ma perché è partito Rimbaud? Perché è andato da Verlaine? Che cosa stava cercando? Che cosa voleva essere in questa vita? L’ansia del viaggio è un’immagine astratta, mi parte dalla testa, mi fa un po’ il solletico nello stomaco e poi va giù nelle gambe. La storia occidentale è sempre stata piena di viaggiatori, ma oggi esistono i turisti. Il turista è colui che parte e torna a mani vuote. Il viaggiatore invece è sempre preda di un movimento vitale, vuole conoscere e capire. Quello del viaggiatore è un viaggio senza ritorno.

    Mia madre mi avvisa che la cena è pronta. Entro in sala, mi siedo a tavola, arriva anche mio padre, mi domanda,

    Tutto bene in fabbrica?

    Tutto bene.

    Cosa hai fatto oggi? mi chiede ancora.

    Ormai sono lì da quasi un anno, tutti i giorni faccio le stesse cose.

    Si accomoda sulla sedia soddisfatto,

    Cavolo che fortuna che hai avuto a trovarti quel posto, con la crisi che c’è oggi. Tienitelo stretto che non sono posti facili da trovare, soprattutto se uno non ha voglia di studiare e non gli piace la scuola.

    Lo so. Rispondo per accontentarlo.

    Avvicina gli spaghetti alla bocca e mastica con voracità, poi prende un sorso di vino e prima di ingoiarlo si sciacqua la bocca col vino. Aggiunge,

    Non hai mai voluto studiare. Ti ricordi quanto abbiamo insistito? E quante volte io e tua madre te l’abbiamo detto? Studia che voi siete fortunati che potete studiare, mica come noi che ci siamo rovinati la vita andando a lavorare a quindici anni, ma niente. E adesso ti tocca lavorare.

    Dico, È vero.

    Distoglie lo sguardo dalla televisione e mi dice,

    Fa male la schiena, eh? È vero o no che fa male la schiena?

    No. Mento.

    Non era meglio andare a scuola?

    Ho finito le superiori e poi ho sempre lavorato, no?

    Lo so che hai sempre lavorato, ma se studiavi facevi meno fatica.

    Non lo so, sai che non mi piaceva.

    Sabato, finalmente. Mi sveglio alle sei, appena un’ora più tardi del normale, ho la sveglia interna. La prossima settimana faccio il turno di notte, entro lunedì sera alle dieci, significa che ho tre giorni pieni. Finalmente piove, la pioggia mi galleggia negli occhi attraverso i vetri bagnati. Le montagne oggi non ci sono o si vedono appena. Fa ancora caldo ma la pioggerellina ha smorzato le temperature di almeno una decina di gradi. Potrei andare in città in bicicletta, c’è un discesone di due chilometri per arrivare in centro, mi preoccupa l’idea del ritorno. Non ci penso. Mi porto anche lo zainetto. Scendo in garage e prendo la bici. Passa il Mambretti su un’Audi bianca, nuova, mi fa un cenno di saluto. La pioggerella mi circonda e mi investe mentre sfreccio rapido fra le striscie di asfalto in mezzo all’erba grossa e arruffata dell’estate. Inspiro profondamente l’aria umida e pesante appena smussata dalla pioggia. Poi i prati si diradano fino ad essere sostituiti dai marciapiedi, le case, le auto parcheggiate si addossano ai bordi della strada, i semafori si moltiplicano come le persone che sotto gli ombrellini camminano veloci. Passo a fianco a un gruppo di donne, esibiscono grandi pettinature e quantità di trucco; si dirigono vocianti verso l’ingresso di un edificio pieno di uffici nei loro impermeabili leggeri; indossano scarpe coi tacchi rigorosamente abbinate alla giacca, alla camicia, al giubbetto pre-autunnale. Riprendo a pedalare, l’aroma di una pasticceria con la porta aperta mi invita a entrare, poi l’edicola, la gelateria, le boutique. Suonano le campane. Il tranquillo ottimismo della piccola città mi appaga e mi respinge. Arrivo in libreria, entro, l’odore della carta stampata mi investe. Mi aggiro per le corsie fra i muri di libri. Ho aria nello stomaco. Vado direttamente alla cassa e chiedo se hanno qualcosa su Rimbaud che non siano i soliti libri di poesie. L’uomo alla cassa avrà cinquant’anni, si alza in piedi e mi guarda bendisposto; è alto, esibisce una bella chioma nera pettinata all’indietro. Forse anche lui da giovane ha letto Rimbaud. Mi dice, Un attimo. Inserisce dei dati nel computer e dopo pochi secondi stampa una lista di una dozzina di titoli. Me la porge È tutto ciò che abbiamo su Rimbaud. Do un’occhiata veloce e gli indico due titoli. Mi mostra i due libri e mi dice C’è anche un film biografico, è recente. Mi entusiasmo, compro i due libri e il film; mi do due settimane per tornare a prendere i libri che ho lasciato lì.

    Il film lo lascio per ultimo. Leggo tutta la settimana, famelico; giorno e notte, in macchina ai semafori o nel parcheggio del lavoro, in camera, in cucina, in bagno, in piedi, seduto, coricato. Il cibo perde sapore, è un fattore accessorio. Appena esco dal lavoro salto sul maggiolino e vado in montagna, mi porto solo un panino e una bottiglia di vino rosso. Esco presto dal traffico e inizio a salire agevolmente per la strada silvestre imboccando i tornanti pensierosi, mi sento come un’ape, sola in un immenso campo di fiori che all’improvviso sente l’urgenza di appropriarsi del nettare. Lascio la macchina dove finisce la strada e al fresco mi incammino per i sentieri boscosi, cammino fra i castagni complici, con il ronzio delle api nella testa. Giungo in cima alla montagna e seguo il camminamento che calca la sommità. In fondo c’è un prato con l’erba diradata. Leggo. Nel vino che mando giù lentamente si trovano le parole che ho già fatto mie. Le primule mi guardano stupite. Rimbaud, la meteorite: il veggente, l’alchimia, la follia, la forma, il movimento, il verbo, i sensi, il tutto, Dio, la sregolatezza, la partenza, la fuga, la natura, Verlaine, la comunione, l’impossibile, la visione, la conoscenza, la libertà. Rimbaud, il viaggiatore: Roche-Charleville-Parigi-Bruxelles-Londra, poi Amburgo-Stoccarda-Milano-Genova, e ancora Alessandria-Cipro, poi ancora Roche, ancora Cipro, l’Egitto, il Mar Rosso, l’Abissinia-Aden-Harrar-Marsiglia-Roche-Marsiglia.

    4

    A venticinque anni potrebbe già essere troppo tardi per andarsene. Questa città mi piace davvero, ma non capisco la gente come fa a volerci vivere; forse qualcuno che stesse cercando di spiegare l’esistenza fisica del nulla, potrebbe soggiornarci per un annetto in attesa di qualche illuminazione, che ne so, un filosofo. Cerco il tutto, non il nulla. Voglio tutto, voglio essere tutto e qua mi sento nulla. Solo le

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