Ultime lettere di Jacopo Ortis
Di Ugo Foscolo
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Ultime lettere di Jacopo Ortis - Ugo Foscolo
Ugo Foscolo
Ultime lettere di Jacopo Ortis
560 - Timeless
Giovane Holden Edizioni
www.giovaneholden.it
Titolo originale: Ultime lettere di Jacopo Ortis
© 2016 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu)
I edizione cartacea settembre 2016
ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-937-5
I edizione e-book gennaio 2017
ISBN edizione e-book: 978-88-6396-975-7
ISBN: 9788863969757
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Jacopo Ortis, profeta disarmato
Al Lettore
Prima parte
Frammento della Storia di Lauretta
Lorenzo
Seconda parte
Jacopo Ortis, profeta disarmato
L’azione del romanzo, che occupa lo spazio di circa un anno e mezzo – dall’ottobre 1797 al marzo 1799 – viene narrata attraverso le lettere che il Foscolo finge inviate da Jacopo Ortis all’amico Lorenzo Alderani. L’opera è dunque un romanzo epistolare. Solo di quando in quando la serie delle lettere viene interrotta per qualche pagina o per qualche riga, nelle quali Lorenzo Alderani – e cioè il Foscolo stesso – informa il lettore intorno ad avvenimenti che non avrebbero potuto trovare posto nelle lettere.
Qualche giorno prima del trattato di Campoformio, con cui Napoleone cede Venezia all’Austria, Jacopo si rifugia sui Colli Euganei. Qui si innamora di Teresa, la quale corrisponde al suo amore; fin dal primo momento però il giovane sente che è vana e fatale la sua passione poiché ella è promossa sposa al ricco Odoardo. Costretto ad allontanarsi visita varie città d’Italia e dappertutto vede spettacoli di sventure, causate dalle dominazioni straniere, e di viltà. Il suo animo si esaspera sempre di più. Di nuovo sui Colli Euganei, rivede Teresa che, obbedendo alla volontà del padre, si è sposata. Abbandonata l’idea di esulare in Francia, si reca a Venezia per salutare la madre e quindi torna sui colli: disperatamente deluso nei suoi ideali di patria e di amore, si toglie la vita.
La trama del romanzo ha un’importanza relativa, l’interesse vero e proprio è accentrato nel protagonista che sfoga il suo animo nelle lettere all’amico. Sono sfoghi violenti contro gli Italiani perché vili, contro gli stranieri perché traditori e oppressori; contro la natura che impone le sue tiranniche leggi immutabili pure all’uomo, al quale ha concesso la ragione per fargli capire quanto sia grande la sua infelicità.
Quanto l’argomento è semplice e lineare, altrettanto complessa – né sempre ricostruibile con assoluta sicurezza in ogni suo particolare – è la storia della genesi e della composizione del romanzo.
Nel 1796 Foscolo nel suo Piano di studi accenna, tra le opere che allora stava componendo o si proponeva di comporre, a un romanzo epistolare intitolato Laura, lettere. Di tale opera niente ci è rimasto, ma non è difficile farci un’idea approssimativa: doveva trattarsi di un romanzo epistolare a sfondo sentimentale simile per forma e ispirazione a molte opere di grande successo del secondo Settecento fra cui Giulia o la nuova Eloisa. Lettere di due amanti di Jean-Jacques Rousseau. È assai probabile che alcune parti della Laura passassero nell’Ortis, del quale avrebbero poi costituito, se non la prima redazione, almeno il primo nucleo.
Nel 1798 Foscolo propone la pubblicazione dell’Ortis all’editore Marsigli di Bologna, ma arruolatosi nella Guardia Nazionale lasciò la città prima che la stampa fosse conclusa, pertanto l’editore non volendo restare danneggiato da quel lavoro incompiuto e costretto anche a fare i conti con la censura austriaca, fece terminare il romanzo a un giovane letterato bolognese, Angelo Sassoli. Nel 1799 il libro fu messo in vendita con il titolo di Vera storia d due amanti infelici ossia Ultime lettere di Jacopo Ortis. Poiché è probabile che il Foscolo avesse già composto quasi per intero il romanzo e che esso fosse già nelle mani dell’editore, il Sassoli non si sarebbe dunque limitato a intervenire sulle parti strettamente politiche ma avrebbe profondamente rimaneggiato la seconda parte della storia accentuandone i caratteri sentimentali e lacrimosi. Un simile rimaneggiamento doveva corrispondere al desiderio dell’editore poiché in questo modo non solo l’amore diventava argomento principale relegando la politica in secondo piano, ma si veniva anche incontro ai gusti del pubblico.
Tra il 1799 e il 1801 avvenimenti fondamentali e decisivi si svolgono nella vita del poeta che lo inducono a riprendere il disegno di pubblicare l’Ortis, revisionandolo nella sostanza Dopo aver litigato con l’editore Mainardi di Milano, pubblica il testo a sue spese presso la tipografia del Genio Tipografico. È questa la prima edizione completa del romanzo, rispetto alla quale le successive non subiranno differenze di rilievo. Grosse differenze invece corrono tra questa e la precedente. Il romanzo riuscì uno dei maggiori successi librai dell’epoca. Fra il 1802 e il 1814 se ne conoscono ben quattordici edizioni, ciascuna delle quali ebbe non poche ristampe. Tutte queste edizioni, a eccezione di una, sono spurie, condotte cioè senza l’autorizzazione dell’autore che pertanto non poté percepire ricompensa alcuna per il suo lavoro.
Si annotano due edizioni successive dell’Ortis, quella zurighese del 1816 e quella londinese del 1817. La prima, rispecchiata fedelmente dalla seconda, uscì con la falsa data di Londra 1814. Rispetto al secondo Ortis la prosa appare modificata e spesso migliorata. Ma l’innovazione più cospicua è rappresentata dalla soppressione dell’unica lettera che, nell’Ortis del 1802, era diretta a Teresa e dall’aggiunta di un’altra lunga lettera a Lorenzo Alderani in data 17 marzo. Viene inoltre acclusa una Notizia bibliografica in cui l’autore affrontava e trattava per esteso alcune critiche che gli erano state mosse e la questione dei suoi rapporti col Werther di Goethe.
Numerosi e particolarmente complessi sono anche i problemi intorno ai quali si è venuta articolando la discussione critica sul valore dell’Ortis.
Non pochi hanno rimproverato al libro di avere un doppio centro di ispirazione, quello amoroso e quello politico, e di presentare per questo un forte difetto di unità. L’osservazione ha indubbiamente un suo fondo di verità e può ricondursi alla duplicità di toni che si alternano nel romanzo: quello languido sentimentale e quello civile e patriottico. Si deve tuttavia aggiungere che non tutte le pagine ispirate all’amore per Teresa rientrano nel primo dei due toni che agevolmente si distinguono all’interno dell’Ortis. L’amore di Jacopo assume movenze tipiche della letteratura lacrimosa tardo-settecentesca solo nella prima parte del romanzo, fino alla definitiva partenza del protagonista dai Colli Euganei. Nella seconda parte, invece, anche le pagine ispirate all’amore si muovono nella stessa aria che si respira in tutte le altre. Per questo la seconda parte del romanzo è giudicata di gran lunga superiore alla prima e più intimamente unitaria. Tale motivo unificatore è costituito dalla drammatica contrapposizione fra l’individuo nobile – impersonificato da Jacopo – e la società corrotta e spietata, che perseguita senza sosta l’eroe disinteressato e puro, colpendolo in tutto ciò che ha di più caro e di più sacro e, specialmente, nella patria e nell’amore. In questo senso, patriottismo e amore devono essere considerati due manifestazioni di una sola e medesima condizione spirituale.
Qualcuno ha poi lamentato come limite fondamentale del libro la mancanza di un vero svolgimento di caratteri e di situazioni. L’Ortis non potrebbe pertanto definirsi un romanzo nel vero senso della parola. Il protagonista vive chiuso nel suo mondo ideale senza mai entrare in contatto con la vita che gli sta intorno e, quindi, senza esserne modificato. Da questo squilibrio fra la concezione dell’opera – una concezione eminentemente lirica, dacché dovrebbe rappresentare una condizione solo interiore – e la sua realizzazione – una realizzazione narrativa – avrebbe origine il modesto valore dell’Ortis. La storia vi si protrae artificiosamente per la durata di un anno e mezzo, senza che la situazione iniziale, già matura fin dalla sua prima lettera per la finale catastrofe, possa minimamente svilupparsi e modificarsi.
È indubbio che il libro, per quanto vi si leggano pagine pienamente realizzate sul piano estetico, non è tuttavia da considerare nel suo insieme un’opera d’arte perfettamente riuscita. Ciò che glielo impedisce è il fatto che l’autore manca della necessaria serenità e del necessario distacco, con cui il vero poeta considera le sue esperienze e i suoi dolori. La materia che il Foscolo narra nell’Ortis è troppo scottante e attuale per lui, perché possa trasfigurarla fantasticamente, riuscendo ad amarla e a renderla bella. L’Ortis è, dunque, piuttosto un’appassionata confessione autobiografica, un grido di dolore, che non la serena opera della fantasia che trasfigura e trascende il doloroso e immediato dato reale. Non per questo deve essere considerato opera insignificante o trascurabile nello svolgimento della carriera umana e artistica del Foscolo. Ciò che gli impedisce di essere una realizzata opera d’arte costituisce a un tempo la ragione stessa della sua importanza. Qui, in questo libro giovanile, il Foscolo riversa la piena del suo animo, ospitandovi tutti i sentimenti e tutti i motivi che confluivano nella sua personalità. Quei motivi e quei sentimenti sono ancora, per così dire, allo stato grezzo e vengono espressi troppo immediatamente, così come, nel momento della composizione, tumultuavano nel cuore dell’autore; ma costituiscono ugualmente la materia autentica e sincera, su cui in seguito crescerà la più alta poesia foscoliana. Sono, insomma, motivi che aspettano soltanto quell’elaborazione artistica, che le opere successive riusciranno ad assicurare loro.
Accanto a questo aspetto autobiografico l’Ortis ne mostra anche uno spiccatamente letterario. Disparate sono, infatti, le fonti cui il Foscolo ha attinto per la composizione del suo romanzo: non solo e non tanto fonti costituite da autori congeniali al suo temperamento e alla sua sensibilità quali Goethe, Alfieri, Ossian e Rousseau dai quali ha ripreso o i fatti esterni o il tono o una più generica ispirazione; ma anche e soprattutto fonti particolari, la cui traduzione pressoché letterale o il cui rifacimento sono all’origine di questo o di quel frammento, di questa o di quella lettera quali Sterne, Barthelémy, Gray, Monti, Wieland e così via. Per questo rispetto, l’Ortis appare un vero e proprio mosaico composto, almeno in parte, di tessere tolte di peso dalle opere più diverse e qui incastonate in un mirabile lavoro di adattamento. Insieme con quella di opera tumultuosamente e grezzamente autobiografica, di sfogo immediato e rovente, l’Ortis svela una sua faccia di opera squisitamente letteraria. Un volto, tuttavia, non è necessariamente contrastante con l’altro, anzi è evidente che il Foscolo doveva chiedere ad altri quella bellezza poetica che egli non poteva dare alla sua materia.
Un’altra apparente contraddizione sembra a prima vista sussistere fra l’amore di libertà di Jacopo, il suo attaccamento alla patria, la sua capacità di fortemente e virilmente sentire da una parte e, dall’altra, il suicidio, che può sembrare abdicazione di fronte ai doveri che la sua stessa professione di patriota gli impone e incapacità di affrontare e di sostenere i dolori che la vita gli va somministrando. In effetti, il suicidio di Jacopo non è il gesto di un debole o di un rinunciatario, ma un atto di protesta – sia pure estrema e disperata – nei confronti di una società che nessun’altra via lascia per conservare integri i propri ideali. I giovani del Risorgimento combattevano, pativano la prigionia e l’esilio traendo conforto dalla lettura dell’Ortis. Se le anime deboli, dunque, lessero il suicidio come l’atto di un incapace, gli spiriti nobili e forti vi avvertirono un monito, un ammaestramento morale e civile nonché un incitamento a considerare la patria non un nome vano senza soggetto, ma una realtà viva e concreta.
Al Lettore
Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto.
Lorenzo Alderani
Prima parte
Da’ colli Euganei, 11 ottobre 1797
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.
13 ottobre
Ti scongiuro, Lorenzo; non ribattere più. Ho deliberato di non allontanarmi da questi colli. È vero ch’io aveva promesso a mia madre di rifuggirmi in qualche altro paese; ma non mi è bastato il cuore: e mi perdonerà, spero. Merita poi questa vita di essere conservata con la viltà, e con l’esilio? Oh quanti de’ nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case! perché, e che potremmo aspettarci noi se non se indigenza e disprezzo; o al più, breve e sterile compassione, solo conforto che le nazioni incivilite offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? in Italia? terra prostituita premio sempre della vittoria. Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi, venduti, e non piangere d’ira? Devastatori de’ popoli, si servono della libertà come i Papi si servivano delle crociate. Ahi! sovente disperando di vendicarmi mi caccerei un coltello nel cuore per versare tutto il mio sangue fra le ultime strida della mia patria.
E questi altri? – hanno comperato la nostra schiavitù, racquistando con l’oro quello che stolidamente e vilmente hanno perduto con le armi. – Davvero ch’io somiglio un di que’ malavventurati che spacciati morti furono sepolti vivi, e che poi rinvenuti, si sono trovati nel sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi di vivere, ma disperati del dolce lume della vita, e costretti a morire fra le bestemmie e la fame. E perché farci vedere e sentire la libertà, e poi ritorcerla per sempre? e infamemente!
16 ottobre
Or via, non se ne parli più: la burrasca pare abbonacciata; se tornerà il pericolo, rassicurati, tenterò ogni via di scamparne. Del resto io vivo tranquillo; per quanto si può tranquillo. Non vedo persona del mondo: vo sempre vagando per la campagna; ma a dirti il vero penso, e mi rodo. Mandami qualche libro.
Che fa Lauretta? povera fanciulla! io l’ho lasciata fuori di sé. Bella e giovine ancora, ha pur inferma la ragione; e il cuore infelice infelicissimo. Io non l’ho amata; ma fosse compassione o riconoscenza per avere ella scelto me solo consolatore del suo stato, versandomi nel petto tutta la sua anima e i suoi errori e i suoi martirj – davvero ch’io l’avrei fatta volentieri compagna di tutta la