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La ninnananna di Auschwitz
La ninnananna di Auschwitz
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E-book230 pagine3 ore

La ninnananna di Auschwitz

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Info su questo ebook

Ispirato a una storia vera

In una mattina come tante del 1943, Helene Hannemann sta accompagnando i suoi figli a scuola, quando la polizia tedesca la intercetta e la costringe a tornare sui propri passi. Prende corpo così la sua paura più oscura: gli agenti delle ss intendono infatti prelevare i suoi cinque bambini e suo marito, di etnia rom. Anche se è tedesca, Helene si rifiuta di essere separata dalla famiglia e decide di affrontare insieme ai suoi cari un destino che non avrebbe potuto immaginare nemmeno negli incubi più spaventosi. Dopo una terribile marcia attraverso il continente, Helene e la sua famiglia arrivano ad Auschwitz e si ritrovano a essere diretti testimoni degli orrori nel campo di concentramento nazista. Suo marito Johann viene portato via, lei e i figli invece vengono assegnati alla sezione del campo destinata ai rom. Helene, in quanto tedesca e infermiera, ha però un trattamento privilegiato e lo spietato dottor Mengele le propone di gestire un asilo per i piccoli prigionieri. Fisicamente ed emotivamente provata, Helene diventerà per loro un rifugio: con la sua vita darà una straordinaria prova di gentilezza e altruismo in grado di illuminare il momento più buio della storia dell’umanità. 

Ispirato alla storia vera di una donna che ha sacrificato tutto per salvare le vite innocenti dei bambini di Auschwitz

Quando ogni speranza sembra vana un singolo gesto può cambiare il mondo

«Questo romanzo sulla vita di Helene Hannemann ci fornisce un altro punto di vista attraverso cui guardare agli orrori dell’Olocausto.»
Booklist

«Un autore che piacerà ai lettori di Carlos Ruíz Zafón, Ildefonso Falcones e Matilde Asensi.»
Con ojo de lector

«Un libro che merita di dominare le classifiche.»
ABC Cultural

Mario Escobar
è nato a Madrid, in Spagna. Si è laureato in Storia e specializzato in Storia moderna. Ha scritto numerosi libri e articoli sull’Inquisizione, sulla Riforma protestante e sulle sette religiose. È il direttore della rivista «Nueva historia para el debate», oltre a collaborare come editorialista a varie pubblicazioni. I suoi libri sono tradotti in 12 Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2019
ISBN9788822731197
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    Anteprima del libro

    La ninnananna di Auschwitz - Mario Escobar

    Capitolo 1

    Berlino, maggio 1943

    Quando mi alzai mezza addormentata dal letto, le strade erano ancora invase dal buio. Nonostante le giornate cominciassero a farsi più calde, il fresco alito del primo mattino mi fece venire la pelle d’oca. Mi misi una leggera vestaglia di raso e, senza svegliare Johann, andai direttamente in bagno. Per fortuna nel nostro appartamento c’era ancora l’acqua calda e così potei farmi una breve doccia, prima di svegliare i bambini. Quella mattina dovevano andare tutti a scuola, tranne la piccola Adalia. Pulii lo specchio asciugando il vapore che lo aveva appannato con la mano e per qualche secondo rimasi a contemplare i miei occhi azzurri, che cominciavano a rimpicciolirsi a causa delle rughe. Avevo un’aria sbattuta, ma non c’era da stupirsi, considerando che avevo cinque figli di meno di dodici anni e che facevo i doppi turni come infermiera per far sì che la famiglia tirasse avanti. Mi tamponai i capelli con l’asciugamano finché non recuperarono il loro solito color giallo paglierino e notai qualche filo bianco nella frangetta liscia. Per un po’ provai a pettinarmi cercando di renderli ondulati, ma dopo pochi minuti desistetti. I gemelli Emily ed Ernest avevano cominciato a reclamare a gran voce la mia presenza, quindi mi vestii in tutta fretta e corsi a piedi nudi nell’altra stanza.

    Quando entrai, li trovai seduti sul letto a parlare tra di loro. Gli altri fratelli erano ancora distesi, nella speranza di rubare qualche secondo di sonno. Adalia continuava a dormire con noi, quella camera era troppo piccola perché ci dormissero tutti e cinque insieme.

    «Non fate tanto chiasso, i vostri fratelli stanno ancora dormendo. Devo preparare la colazione», dissi ai gemelli, che mi guardarono e mi sorrisero, come se il semplice fatto di vedermi fosse sufficiente a rallegrare la loro giornata.

    Presi la biancheria dalla sedia e la buttai sul letto. I gemelli avevano già sei anni e non necessitavano del mio aiuto per vestirsi. Se la famiglia è composta da ben sette membri, bisogna escogitare delle strategie affinché i compiti più semplici siano portati a termine nella maniera più rapida possibile.

    Andai nella minuscola cucina e misi su un po’ di caffè. Nel giro di pochi minuti la stanza si riempì dell’odore amaro di miscela economica. Quel succedaneo colorato di nero era l’unica maniera per dissimulare un po’ il sapore insipido del latte annacquato, che in realtà non era affatto latte. Se eravamo fortunati, riuscivamo a procurarci qualche barattolo di latte in polvere, ma dall’inizio dell’anno la situazione al fronte era peggiorata e gli alimenti avevano cominciato a essere sempre più razionati.

    I bambini giunsero in cucina correndo e spingendosi per il corridoio. Sapevano che il poco pane con burro e zucchero che c’era ogni mattina per colazione non avrebbe resistito a lungo in tavola.

    «Non fate chiasso! Papà e Adalia sono ancora a letto», li rimproverai mentre si sedevano. Nonostante avessero fame, non presero il pane finché non diedi loro le tazze e non pronunciammo una breve preghiera per ringraziare Dio di avere del cibo.

    Qualche secondo dopo, il pane era sparito, i bambini avevano finito di bere il latte, ed erano andati in bagno a lavarsi i denti. Ne approfittai per tornare in camera e mettermi le scarpe, prendere il soprabito e sistemarmi il cappellino da infermiera. Sapevo che Johann era sveglio, però gli piaceva crogiolarsi a letto finché non sentiva chiudersi la porta. Si vergognava che fosse sua moglie a portare la pagnotta a casa, ma le cose erano cambiate molto in Germania dall’inizio della guerra.

    Johann era un virtuoso del violino. Era stato per anni membro della Filarmonica di Berlino, poi dal 1936 le restrizioni nei riguardi di tutti coloro che non rispettavano in pieno i requisiti razziali del partito nazista si erano inasprite. Mio marito era rom, anche se la maggior parte dei tedeschi preferiva la parola zingaro per indicare la gente della sua etnia. Tra l’aprile e il maggio del 1940 quasi tutta la sua famiglia era stata deportata in Polonia e ormai erano tre anni che non avevamo più loro notizie. Per fortuna, secondo i nazisti io ero di razza pura, quindi ancora non erano venuti a darci fastidio. Nonostante tutto, però, ogni volta che qualcuno bussava alla nostra porta o che di notte suonava il telefono, non potevo evitare di avere un tuffo al cuore.

    Quando arrivai alla porta, i miei quattro figli più grandi mi aspettavano con il cappotto già indosso, il cappellino da scolari in testa e la cartella di cuoio marrone davanti ai piedi. Li controllai rapidamente, misi loro le sciarpe e impiegai qualche secondo a baciarli sulle guance. Blaz, il maggiore, a volte faceva resistenza alle mie effusioni, invece i gemelli e Otis si godevano quelle dimostrazioni d’affetto, prima di uscire sul pianerottolo e incamminarsi verso la scuola.

    «Forza, non voglio che facciate tardi. Tra venti minuti attacco il turno», dissi loro aprendo la porta.

    Eravamo appena usciti sul pianerottolo e avevamo acceso la luce, quando sentimmo il tonfo secco prodotto da un paio di stivali che salivano rumorosamente le scale di legno. Un brivido mi corse lungo la schiena, deglutii a vuoto, ma mi sforzai di sorridere ai miei figli, che si voltarono verso di me, come se per un attimo avessero percepito la mia inquietudine. Feci un gesto con la mano per tranquillizzarli e cominciammo a scendere. I bambini non si arrischiavano a separarsi da me. Di solito dovevo insistere perché non si mettessero a correre, invece quella volta i passi che si avvicinavano li spinsero a restare alle mie spalle, quasi che il mio leggero soprabito verde potesse renderli invisibili o fornire loro una speciale protezione.

    Quando arrivammo al pianerottolo del secondo piano, il rumore degli stivali rimbombava per tutta la tromba delle scale. Blaz si sporse dalla ringhiera e un secondo dopo si voltò e mi rivolse uno di quegli sguardi che sono in grado di fare solo i fratelli maggiori affinché i più piccoli non si spaventino.

    Il cuore prese a battermi all’impazzata, avevo la sensazione che mi mancasse l’aria, ma continuai a scendere le scale con la speranza che ancora una volta la sventura mi avrebbe evitata. Non sapevo che quel giorno, invece, toccava a me soffrire.

    Incontrai i poliziotti proprio a metà della seconda rampa di scale che ci avrebbe condotto al primo piano. I giovani agenti, con la divisa verde scuro, la cinta di pelle e i bottoni dorati, ci si pararono di fronte. I miei figli ammirarono per qualche secondo i loro elmetti appuntiti con l’aquila dorata, ma subito abbassarono lo sguardo all’altezza degli stivali lustri. Un sergente si fece avanti di qualche passo, ansimante, ci osservò e poi cominciò a parlare, con lunghi baffi in stile prussiano che si muovevano a ogni sua parola. Fu cortese e minaccioso allo stesso tempo.

    «Frau Hannemann, temo che debba accompagnarci di nuovo al suo appartamento».

    Prima di rispondergli, lo guardai dritto negli occhi. La fredda risposta delle sue pupille verdi mi fece tremare di paura, ma cercai di mantenere un certo contegno e sorridere.

    «Sergente, non capisco cosa stia succedendo. Devo portare i miei figli a scuola e andare al lavoro. C’è qualcosa che non va?»

    «Frau Hannemann, preferisco parlarne nel suo appartamento», disse il sergente, prendendomi per il braccio con forza.

    Quel gesto intimorì i miei figli, nonostante lui avesse cercato di farlo di nascosto. Da anni eravamo testimoni della violenza e dell’aggressività dei nazisti, ma quella era la prima volta che mi sentivo realmente minacciata. Per tutto quel tempo avevo vissuto con la speranza che non se la sarebbero presa con noi, passare inosservati era la migliore strategia per sopravvivere nella nuova Germania.

    La porta della mia vicina, Frau Wegener, si aprì e vidi il suo volto pallido, solcato da rughe profonde. Mi guardò, un po’ dispiaciuta, poi spalancò l’uscio di casa.

    «Herr Polizist, la mia vicina, Frau Hannemann, è una brava madre e una moglie devota. Lei e la sua famiglia sono un esempio di educazione e bontà, per cui spero che nessuno, in malafede, li abbia diffamati», disse.

    Quel suo atto di coraggio mi fece salire le lacrime agli occhi. Nessuno si arrischiava a esporsi pubblicamente di fronte all’autorità, in pieno conflitto. La guardai per qualche istante, le pupille appannate dalla cataratta, e le strinsi una spalla con la mano.

    «Obbediamo agli ordini e desideriamo semplicemente parlare con i suoi vicini. Per favore, rientri in casa e ci permetta di fare il nostro lavoro in pace», disse il sergente, afferrando la maniglia della porta e tirandola con forza per sbatterla.

    I bambini sussultarono ed Emily si mise a piangere. Ne approfittai per prenderla in braccio e stringermela al petto. Nella mia mente, le uniche parole che riuscivano a farsi strada, nonostante la sensazione di angoscia, erano: Non permetterò a nessuno di farvi del male.

    Pochi secondi dopo, eravamo di fronte alla porta del nostro appartamento. Cercavo di trovare la chiave nella borsa, piena di biscotti, fazzoletti, una bottiglietta d’acqua, documenti, trucchi, ma uno dei poliziotti mi fece spostare bruscamente e picchiò sull’uscio con il pugno.

    Il suono rimbombò per tutte le scale. Anche se era ancora molto presto e il silenzio non aveva abbandonato del tutto la città, la gente cominciava i suoi rituali mattutini, cercando di rifugiarsi in una normalità che aveva smesso di esistere già da molto tempo.

    Sentimmo dei passi frettolosi avvicinarsi e poi la porta si aprì, illuminando in parte il pianerottolo. Johann sembrava un po’ stordito, con i capelli neri e ricci che gli nascondevano in parte gli occhi castani. Prima guardò i poliziotti, poi noi, che in qualche modo gli stavamo chiedendo protezione con lo sguardo; lui, tuttavia, si limitò a spalancare la porta di legno e farci entrare.

    «Lei è Johann Hanstein?», chiese il sergente.

    «Sì, Herr Polizist», rispose mio marito con voce tremante.

    «Per ordine del Reichsführer-SS Heinrich Himmler, tutti i sinti e i rom del Reich devono essere internati in campi speciali», recitò il sergente, che sicuramente in quegli ultimi giorni aveva ripetuto la stessa frase decine di volte.

    «Ma…», provò a replicare mio marito. I suoi occhi grandi e scuri sembravano divorare quel momento che pareva eterno, finché il poliziotto non fece un segnale ai suoi colleghi, che lo circondarono e lo presero per le braccia.

    «No, per favore. I bambini si stanno innervosendo», dissi, posando una mano sulla spalla del sergente.

    Per qualche istante sentii il peso del suo sguardo su di me. Le idee non soffocano mai del tutto i sentimenti e le emozioni. Quella che gli stava parlando era una donna tedesca che avrebbe potuto essere sua sorella o sua figlia, non una pericolosa delinquente che voleva ingannarlo.

    «Lasci che mio marito si vesta, io porto i bambini in un’altra stanza», gli chiesi con un tono di voce dolce, sforzandomi di rendere la situazione meno violenta di quanto fosse.

    «Anche i bambini vengono con noi», rispose il sergente, mentre faceva cenno ai suoi uomini di lasciar andare mio marito.

    Quelle parole mi si squarciarono le viscere come un coltello. Mi venne da vomitare, mi piegai in avanti e mi sforzai di pensare che avevo sentito male. Dove volevano portare la mia famiglia?

    «Anche i bambini sono rom. L’ordinanza riguarda pure loro. Non si preoccupi, lei può restare», disse il sergente, per spiegarmi di nuovo la situazione. Di sicuro il mio volto a quel punto rivelava la disperazione che mi attanagliava già da un bel po’.

    «La loro madre è tedesca», provai ad argomentare.

    «Temo che in questo momento non abbia importanza. Manca un bambino, a me ne risultano cinque più il padre», replicò il sergente, serissimo.

    Non reagii. Mi sentivo paralizzata dalla paura, ma riuscii a inghiottire le lacrime. I miei figli continuavano a fissarmi, dovevo mostrarmi forte.

    «Li preparo in un attimo. Verremo tutti con lei. La piccolina è ancora a letto», mi sorpresi a dire. Mi sembrava di non essere io a parlare, come se le parole uscissero dalle labbra di qualcun altro.

    «Lei non viene, Frau Hannemann, vengono solo le persone di razza rom, gli zingari», disse seccamente il sergente.

    «Herr Polizist, io seguirò la mia famiglia. Adesso mi lasci preparare le valigie e vestire la piccola».

    Il poliziotto si accigliò, ma mi permise con un cenno di uscire dalla stanza insieme ai bambini. Ci dirigemmo verso la stanza principale. Salii su una sedia e presi due grandi valigie di cartone che tenevamo sopra l’armadio. Le misi sul letto e cominciai a riempirle di vestiti. I miei figli mi stavano attorno, silenziosi. Non piangevano, anche se avevano un’espressione inquieta e non riuscivano a dissimulare la preoccupazione.

    «Dove andiamo, mamma?», chiese Blaz, il più grande.

    «Ci portano in un campeggio come quelli in cui ti mandavo da piccolo in estate. Te lo ricordi?», gli risposi, sforzandomi di sorridere.

    «Andiamo in campeggio?», chiese un po’ più sollevato Otis, il secondo.

    «Sì, amore. Passeremo lì un po’ di tempo. Vi ricordate che vi ho detto che ci sono andati anche i vostri cugini qualche anno fa? Forse li incontreremo», dissi, in tono più lieve.

    I gemelli sembravano emozionati, come se le mie parole avessero fatto loro dimenticare quel che avevano appena visto.

    «Possiamo portarci la palla? Anche i pattini e qualche gioco», chiese Ernest, che era sempre pronto a organizzarsi per mettersi a giocare.

    «Porteremo solo l’indispensabile, di sicuro lì dove andiamo ci saranno un sacco di cose per voi bambini», mentii, anche se in un certo senso avrei voluto credere anche io a quel che stavo dicendo.

    Sapevo che i nazisti avevano portato via dalle loro case gli ebrei, i dissidenti politici e i traditori. Si diceva che tutti i nemici del Reich fossero internati nei campi di concentramento, ma noi non eravamo un pericolo per i nazisti. Sicuramente ci avrebbero tenuti prigionieri in un qualche tipo di campo improvvisato, finché non fosse finita la guerra.

    Adalia si svegliò proprio in quel momento e, vedendo tutta quella confusione sul letto, si spaventò. La presi in braccio. Era una bimba magrolina per i suoi tre anni, aveva i lineamenti delicati e la pelle bianchissima. Era molto diversa dai fratelli maggiori, che invece assomigliavano più al padre.

    «Tranquilla. Va tutto bene. Stiamo partendo per un viaggio», le dissi, stringendomela al petto.

    Fu allora che mi sentii un nodo alla gola. Fui nuovamente pervasa da un senso di inquietudine. Pensai che avrei dovuto telefonare ai miei genitori, così almeno avrebbero saputo che mi stavano portando via, ma dubitavo che i poliziotti mi avrebbero permesso di fare una telefonata.

    Dopo aver vestito Adalia, finii di fare le valigie e mi diressi in cucina. Presi alcuni barattoli, il poco latte che ci era rimasto, del pane, degli insaccati e qualche biscotto. Non avevo idea di quanto sarebbe stato lungo il viaggio, meglio essere pronti.

    Quando tornai nel salottino, mi accorsi che mio marito era ancora in pigiama. Lasciai lì le due pesanti valigie e tornai in camera a cercare i suoi abiti. Presi il suo vestito migliore, una cravatta viola, il cappello e il soprabito. Mentre lui si cambiava davanti agli agenti, io andai di nuovo nella nostra stanza e mi tolsi la divisa da infermiera. I bambini mi aspettavano incollati alla porta del bagno, come se stessero cercando di confondersi con la mia anima per non separarsi da me. Scelsi una giacca marrone e una camicetta azzurra. Quando uscii, tutti e cinque mi guardarono impazienti.

    Andammo di nuovo in salone e osservai Johann per qualche secondo. Vestito elegante sembrava un principe rom. Quando entrai, si mise il cappello e i tre agenti si voltarono.

    «Non serve che venga anche lei, Frau Hannemann», tornò a insistere il sergente.

    «Lei crede che una madre in una situazione come questa si separerebbe dai suoi figli?», gli chiesi, guardandolo dritto negli occhi.

    «Resterebbe sorpresa se le raccontassi tutto quello a cui ho dovuto assistere in questi anni. Sarà meglio sbrigarci, dobbiamo portarvi alla stazione prima delle dieci», rispose il poliziotto.

    Quella semplice osservazione mi fece pensare che il viaggio sarebbe stato più lungo di quel che all’inizio avevo immaginato. La famiglia di mio marito era stata deportata al Nord, ma per qualche strana ragione mi ero convinta che ci avrebbero condotto a un campo di prigionia per zingari che era stato costruito vicino Berlino.

    Percorremmo il corridoio, verso l’ingresso. Mio marito era il primo della fila, con le valigie, i due agenti più giovani, subito alle calcagna. Seguivano i miei due figli maggiori, mentre i gemelli mi stavano attaccati alle falde del soprabito. La piccola la tenevo in braccio. Quando arrivammo alla porta e uscimmo sul pianerottolo, mi girai un’ultima volta a guardare casa mia. Quella mattina mi ero svegliata con la certezza che sarebbe stato un giorno come un altro. Blaz era un po’ nervoso per via di una verifica che aveva prima della ricreazione; Otis si era svegliato con un forte mal d’orecchio, segnale che stava per ammalarsi; i gemelli erano in buona salute, però ancora costava loro molta fatica alzarsi presto per andare a scuola; Adalia era un angioletto che si comportava sempre bene e cercava di giocare insieme ai suoi fratelli. Niente lasciava presagire che tutto ciò avrebbe avuto ben poca importanza poche ore più tardi.

    Il corridoio non era molto illuminato, ma in fondo si distingueva il salone che

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