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Sogni su Misura: Come rendere inevitabile l'impossibile
Sogni su Misura: Come rendere inevitabile l'impossibile
Sogni su Misura: Come rendere inevitabile l'impossibile
E-book602 pagine13 ore

Sogni su Misura: Come rendere inevitabile l'impossibile

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Info su questo ebook

Il tema centrale di Sogni su misura è il diritto alla felicità e quella via certa perseguibile da chiunque desideri davvero vivere felice. «Per accedervi basta essere in possesso di un sogno su misura emozionato ed un motivo giusto. Oppure di tre motivi sbagliati per entrare in azione».

«Il libro è rivolto ai giovani disorientati, confusi e indecisi sulla scelta giusta da fare nel tentativo di individuare ciò che amano fare per dare senso alla propria vita. Intende semplificare al massimo il compito di poter sfogliare il menu cosmico a chi desidera far parte di questo mondo meraviglioso da vero protagonista».
Il nostro attore principale è un bambino determinato a rimanere tale e, ad accompagnarlo, sua nonna analfabeta, nel ruolo però di  mentore d’eccezione. Proprio lei lo invita a fare la scelta più significativa della sua vita: «esistere, vivere o vivere felice?»
LinguaItaliano
EditoreDr.Nessvno
Data di uscita16 giu 2017
ISBN9788826456140
Sogni su Misura: Come rendere inevitabile l'impossibile

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    Anteprima del libro

    Sogni su Misura - Dr.Nessvno

    Dr. NESSUNO

    SOGNI SU MISURA

    Come rendere inevitabile l'impossibile

    A Maria Cristina

    Che mi ha suggerito di diventare Dr. NESSVNO,

    e seguire le orme di Ulisse.

    INDICE

    0 Turista per caso, studente per vocazione

    1 Un New Yorker insolito approda nella Città Eterna

    1.1 (Ανάγκη) necessità, quella divinità onnipotente

    1.2 Al Celio tra i figli di papà

    1.3 La corsa nel Circo Massimo

    1.4 Una bella abitudine finire tutti gli esami a Giugno

    2 New York, un set cinematografico permanente

    2.1 CORNELL, in forma irregolarmente irregolare

    2.2 A Olin Hall tra i prescelti del globo

    2.3 La grande nevicata a New York

    2.4 Al Metropolitan Club con due tycoon ottantenni

    2.5 Le favole si raccontano dopo averle vissute

    2.6 "Semeiotica medica", l'anello mancare

    3 La caccia al tesoro conduce a Roma

    3.1 Il pezzo del puzzle si nasconde dentro il Palatino

    3.2 Vivere in clausura nel cuore di Roma Imperiale

    3.3 La vista mozzafiato sul Colosseo

    3.4 L'Arco di Costantino rischia di crollare

    3.5 L' illusione di avere un monaco per amante

    3.6 La rivincita del frate minore grazie ai crostini del giovedì

    3.7 Il Console sfidò Dio e Dio rovinò le sue vacanze

    3.8 Il terzo anno terminò a Giugno come da manuale

    4 New York e le magie di DANIEL Alonso

    4.1 Evitare l'ostacolo di Washington D.C. è possibile?

    4.2 In attesa del "dodicesimo Apostolo"

    4.3 Consiglio di Facoltà per scoprire Who is Nick?

    4.4 Per ogni grande cambiamento serve un'ostacolo piu grande

    4.5 Le favole migliori seguono percorsi irregolari

    5 Roma è per sempre

    5.1 La Sapienza continua a nutrire il sogno

    5.2 La bottiglia con il messaggio affidato agli Oceani

    5.3 Dr. George Canellos, in attesa dello studente dei due mondi

    5.4 Dalla CORNELL alla HARVARD: un passaggio legendatio

    6 Apollo paga il suo debito a Boston

    6.1 Il 4o anno alla Harvard

    6.2 I miracoli avvengono solo se ci credi

    6.3 Disperazione creativa: catalizzatore di sogni utopici

    6.4 George Sarris e Costas Kalias, i due geni di Harvard

    6.5 Dr. Marcello Siniscalco, chiama in causa un certo DAVID

    6.6 Dr. Nathan che trasformò la soluzione, in problema da esportare

    6.7 La miglior terapia è la prevenzione

    6.8 I Neociti, un concetto fantascientifico, tutto da scoprire

    6.9 DAVID era il grande ricercatore Nathan

    6.10 DAVID manda a Roma Nick per riaverlo come ricercatore

    6.11 TESEO nasce nella Grotta di Polifemo a Roma

    6.12 La realtà sconvolge la fantasia del Professore

    6.13 Anche il 5o anno finisce a Giugno per aprire le danze di Boston

    7 I sognatori volano solo in CONCORDE

    7.1 I 99 (+ UNO) passeggeri speciali raggiungono "al volo l'aeroporto JFK

    7.2 L'uomo che mi indicò come eradicare la talassemia

    7.3 Nathan, un ricercatore grande che ha fatto la differenza

    7.4 Scoprire i Neociti, il primato dagli effetti turbolenti

    7.5 Camillo: l'amico che voleva vedere per credere

    7.6 L'incontro con lo Zio tra le nuvole

    7.7 Lo yurgot greco con data di scadenza luglio 1981

    7.8 International Congress of Hematology di Atene

    7.9 Da eroe Omerico a eroe classico per fare la differenza

    8 Gratitudine, la più grande delle virtù e madre di tutte le altre

    8.1 La terapia con i Neociti inizia a Roma

    8.2 Il Centro Panllenico Alessandro Onasis per la cura e la prevenzione della Talassemia

    8.3 Eliminare la Talassemia in 12 mesi è possibile ma... non conviene

    8.4 Le grandi verità sembrano grandi bestemmie, se dette dai non autorizzati

    8.5 TESEO sfugge alla Grotta di Polifemo

    8.6 Parigi, Ville Lumiere per fortificareTESEO

    8.7 Dopo Parigi, inizia il tunnel della solitudine

    8.8 Passion beyond reason per stupire ed essere stupiti

    8.9 Diventare Dentista per salvaguardare TESEO

    8.10 Bill Gates, più profeta che innovatore

    8.11 TESEO sale sul ring dell'ONU

    8.12 TESEO approda in India

    8.13 Steve Jobs, cerca un "Decorator of Life e trova un sostituto di Dio"

    8.14 TESEO rivela i segreti per diventare "Decorators of Life"

    8.15 Il paradosso Ellenico

    8.16 La cena deludente a Washington D.C. con Hillary

    9 Sogni paralleli

    9.1 Il fattore umano di Nikos e di Naresh come catalizzatore di eventi

    9.2 "The Gate of India" indica la via per la realizzazione dell'applicazione TESEO

    9.3 New York 23 Settembre 2016, alla Cornell dove tutto ebbe inizio

    9.4 La sfida finale tra i miti viventi della medicina moderna

    10 Appendice

    10.1 Conviene avere un Angelo per amico

    10.2 La Grecia tutta, l'Accademia di studi classici dell'Europea e non solo

    10.3 "Olimpiadi per tutti", disabili inclusi: il youth UN model per sfidare i grandi

    11 Costruire un mondo migliore, un compito da bambini

    PROLOGO

    SOGNI su MISURA è un racconto, tuttora in evoluzione, dedicato a tutti i giovani che, com’è successo a me, ricevono solo un no come risposta a qualsiasi richiesta facciano per poter realizzare il loro sogno. Questo racconto si rivolge a chi ha scoperto che il è offerto volentieri solo ai migliori, ai raccomandati, ai prediletti, ai prescelti. A chi detesta vedere la scritta "RISERVATO". A chi non osa pretendere il proprio diritto allafelicità. A quelli che si credono falliti, ultimi, afoni.E, ancora, ai genitori disperati che non riescono ad aiutare i loro figli a scoprire ciò che amano fare nella vita; che non riescono a spronarli ad entrare in azione per seguire i propri sogni o, ancora peggio, che con la scusa del proprio amore indicano ai figli ciò che credono sia "meglio"per loro. Perché non basta amare e donare ma bisogna saper amare e saper donare.

    Rivolgo il racconto agli educatori di ogni grado che desiderano scoprire il modo più efficace per aiutare gli studenti a sfogliare il menù cosmico dei desideri possibili, per costruire insieme il "sogno su misura" di ciascun giovane, come segno tangibile di rispetto e amore nei loro confronti. Perché oggi più che mai il lavoro più arduo è proprio questo: riuscire a individuare ciò che ci renderà felici, lo smeraldo verde che si nasconde in mezzo ad una miriade di pietre insignificanti che si spacciano per preziose. Come ci si riesce, considerando che tutti i sogni sono desideri modificati ad arte? Serve conoscere bene le differenze che intercorrono tra desideri e sogni. Mia nonna, nell'osservarmi mentre seguivo una bellissima farfalla un giorno mi disse:

    "I sogni sono come le farfalle: all’inizio sono desideri, così come le farfalle sono bruchi".

    È la metamorfosi quel fenomeno meraviglioso che sfugge ai nostri occhi, a trasformare il bruco in farfalla, donandogli le ali della libertà.

    I sogni, ricorrono allo stesso fenomeno misterioso della metamorfosi che dona loro la libertà e la felicità, come premio speciale.

    Nel caso delle farfalle la metamorfosi avviene naturalmente, invece per i sogni serve l’intervento del loro sognatore per trasformarli dallo stato di desiderio a sogni, dopo aver individuato quel desiderio scatenante, compulsivo, la cui intensità si può misurare attraverso l'irrazionalità e la fantasia affinata.

    È l’emozione poi, (la fede incrollabile e l’amore puro)ad attivare questo misterioso fenomeno dagli effetti spettacolari. Ecco perché i sogni, come i gioielli, non crescono sugli alberi ma serve costruirli.

    Quo vadis?.

    Saper indicare la nostra destinazione finale con precisione maniacale è il nostro primo dovere verso noistessi, se non vogliamo accusare ingiustamente il tassista di turno peraverci condotto nel posto sbagliato.

    Se non consideri importanti nessuno di questi concetti, questo libro non fa per te.

    Se invece ritieni che la felicità e la libertà siano i doni più preziosi in possesso di ogni individuo nonché il proprio innegabile diritto, ti invito a intraprendere questa via infallibile, per rendere inevitabile l’impossibile, realizzando il tuo sogno su misura malgrado tutto e contro tutto.

    Se non sai nemmeno da dove iniziare e come sfogliare il menù cosmico per costruire un sogno su misura, in queste pagine scoprirai un modo semplice per farlo.

    Questo è il regalo più bello e significativo che io possa fare per te.

    Prefazione

    «E se io fossi Zeus?»

    «Se io fossi il sommo dio ellenico e, come nella leggenda, ti chiedessi qual è il tuo più grande desiderio, me lo sapresti esprimere senza esitazione alcuna?».

    Era il mese di Ottobre del 1994 e quest’uomo, venuto da un villaggio alle pendici dell’Olimpo, mi sfidò. Voleva darmi una prova di quella grande verità su cui si fonda tutto il suo libro: come rendere inevitabile, un sogno impossibile.

    Nikos venne a trovarmi nel mio studio di Roma, spinto da una generosa riconoscenza nei miei confronti per aver divulgato in Italia e nel mondo la cultura del suo popolo, l’amore per la bellezza e per il sapere nato nella sua terra. Lo sorprese apprendere che nessuna autorità greca mi avesse mai espresso gratitudine per questo. Lui sapeva che la gratitudine non era solo una grande virtù, ma la madre di tutte le altre. La sua richiesta mi trovò impreparato e mi fu difficile scegliere un desiderio, uno soltanto su cui concentrare le speranze di una vita. Per questo motivo gli chiesi:

    «Posso chiederne due?»

    «No, è ammessa una sola richiesta, questa è la regola per poter realizzare un grande desiderio» mi rispose lui in modo austero.

    A quel punto gli dissi che mi sarebbe piaciuto "diventare un cittadino onorario di Atene, come lo erano stati Socrate, Platone e Pericle". Lui non si scompose, come avrebbe fatto Zeus. Detto, fatto: pochi giorni dopo ci trovammo all'ombra del Partenone. Mi tolsi le scarpe.

    Nikos sorpreso mi chiese: «Cosa stai facendo con i piedi nudi?»

    «Voglio sentire le stesse pietre sulle quali hanno camminato Socrate e Pericle», risposi soddisfatto.

    La mia richiesta fu esaudita in pieno. Scendendo per le scale del Comune di Atene gli domandai:

    «Quando scenderà la scritta Siete su scherzi a parte?» chiesi incredulo.

    «No, non siamo su scherzi a parte» replicò lui con serenità.

    Fui il primo italiano nominato cittadino onorario di Atene e Nikos non mi chiese mai nulla in cambio. Del resto, cosa vale di più di un frammento di felicità?

    Nikos lo sa bene e fra le sue pagine si scopre quella che personalmente definirei "l’ingegneria del sogno": una combinazione di fiducia cieca ed ostinato rigore.

    Un desiderio irrisolto, inespresso, inascoltato che diventa l'ossessione di una vita.

    Il segreto per vivere felici è individuare bene quel desiderio incommensurabile, senza prendere sul serio gli altri che vengono relegati nella sfera dell’Utopia.

    La felicità è nel sogno stesso.

    Luciano De Crescenzo

    Roma, Foro Romano

    Tra esistere oppure vivere

    ho scelto il mio sogno per vivere felice,

    quel nulla che contiene tutto.

    Prepararsi per la grande fuga

    Atene, aeroporto Internazionale.

    Era il 16 febbraio 1974. La data me la ricordo come se fosse ieri.

    Finalmente ero sulla linea di partenza per spiccare il volo sognato da sempre.

    Erano le 10 passate. Aspettavo la chiamata per l’imbarco sul volo non stop diretto a New York. Il biglietto era di sola andata. Contavo i momenti che mi avrebbero permesso di andare lontano, verso un mondo che ignoravo del tutto.

    Mi sentivo come un astronauta nella sua navicella in attesa di essere sparato fra le stelle.

    Davanti a me c’era il vuoto, la possibilità di trovare tutto o niente. Mi accompagnavano una voglia bruciante di futuro ed una promessa pronunciata all’età di 8 anni.

    Dall’altra parte dell’oceano ad attendermi avevo New York, anche se la tappa finale doveva essere Roma. Era l’unica via di fuga da un mondo di sofferenza e di limiti dove qualsiasi domanda aveva una sola risposta: "Non è possibile, non si può". Il mio universo era costellato di NO, eppure io speravo di trovare qualche angolo del mondo dove potessi sentirmi dire anche un SÌ.

    Ma andiamo con ordine.

    Il punto d’inizio del mio viaggio era un villaggio arroccato sul monte Olimpo.

    Avevo ventitré anni e un "sogno su misura del tutto utopico secondo i saggi locali: Studiare Medicina in modo unico e vivere felice a Roma". Niente male come prospettiva, sebbene più di qualcuno mi ricordasse che non avevo nessuno dei requisiti necessari alla sua realizzazione. Nemmeno uno.

    Sulle ragioni della mia scelta tornerò più avanti. Diciamo intanto che ero un full time dreamer in incognito, ignaro di esserlo. Un sognatore istigato dall’Odissea e dai miti raccontati da una nonna analfabeta.

    Il 25 Gennaio 1974 tornai al mio villaggio sul Monte Olimpo dopo ventisette interminabili mesi di servizio militare. Credevo di essere un uomo libero, avendo saldato il mio debito con lo Stato e nulla avrebbe più potuto impedirmi di spiccare il volo. Compresi però, come mai prima di allora, che nel mio Paese avrei trovato soltanto porte ermeticamente chiuse. Per sei anni avevo tentato l’ingresso alla facoltà di Medicina: ero stato sempre respinto. Mi ero arreso alle pressioni di mio padre e avevo deciso di provare a entrare nel corpo dei carabinieri: non ero idoneo neppure in quel ruolo. Era giunto il momento di andarmene sul serio, certo come ero di non avere nessuna alternativa alla fuga dal mondo conosciuto fino a quel momento.

    Provavo una fretta pari solo all’angoscia che mi avrebbe dato fermarmi in quel paesino dimenticato da Dio e dove i miei fallimenti degli ultimi anni avevano avuto un’eco in tutte le case, le valli, le stalle. La vergogna era insostenibile e il disprezzo dell’opinione pubblica mi schiacciava senza pietà: questa era la fine che facevano i falliti, i nullatenenti e tutti gli esclusi dalle feste del paese. Decisi perciò che sarei ripartito entro due giorni. Dovevo solo trovare il modo di dirlo alla mia famiglia, che amavo più di qualunque cosa al mondo e che mi aspettava da troppo tempo.

    L’indomani notai che mia madre, per pranzo, aveva apparecchiato un tavolo normale, con tanto di quattro sedie coordinate. Sorrisi di quell’unica innovazione dal giorno della mia partenza per il servizio di leva. Avevamo sempre mangiato sedendoci con attenzione su sgabelli un po' precari, attorno a un tavolino di legno basso e scomodo. Pranzammo in silenzio: io, mia madre, mio padre e la mia nonna paterna. Mio fratello e mia sorella ci avevano già lasciato, per cercare un lavoro di fortuna che li facesse vivere o sopravvivere. Ho sempre pensato che per loro non esistesse troppa differenza fra le due opzioni.

    La più eccitata nel rivedermi fu senza dubbio mia madre. Dopo una lunga serie di baci e di abbracci, non tardò a cogliere l’occasione del mio rientro per darsi da fare ai fornelli e prepararmi qualcosa di buono. In tanti anni non le avevo mai confessato che trovavo pessima la sua cucina e di certo non lo avrei fatto in quella occasione, ma guardai con ansia il contenuto della pentola. I suoi famosi spaghetti - quelli che languivano per tre ore nell’acqua bollente e che mio padre testava gettandoli sul muretto in pietra della casa per vedere se restassero incollati come bava di lumaca - ecco, quegli spaghetti, non li avrei proprio potuti sopportare, specialmente in un incontro tanto solenne.

    Il giorno seguente ci riunimmo di nuovo a tavola per il pranzo. Ritenni che quello fosse il momento migliore per dare loro il grande annuncio: «Partirò per Cape Town, in Sudafrica».

    Quello che avvenne nei minuti successivi fu una messa in scena. A fin di bene recitai la parte di chi aveva studiato il proprio piano di fuga nei minimi dettagli: ero l’eroe coraggioso che non avrebbe lasciato nulla al caso. Non volevo che la mia famiglia si preoccupasse, perciò indicai loro un punto preciso sulla mappa ed una strategia con circostanziati obiettivi . Intuivo che in ogni caso i miei genitori non avrebbero fatto domande, sapevano che con me portavo solo la mia grande chimera di sempre e null'altro: diventare medico.

    Non avevo praticamente nulla da sistemare nel mio bagaglio, ma questa era in fondo una sfida nei confronti di tutto e di tutti gli oppositori della mia scelta irrevocabile. Volevo presentarmi nudo con il mio sogno bene in vista, per rendere più semplice il lavoro a chi avesse voluto vestirmi da re. Rimaneva da chiedere ed ottenere la benedizione dei miei, senza la quale non avrei mai osato lasciare casa. Nelle società primitive come la nostra, questo ultimo atto era di vitale importanza per la buona riuscita della missione. Nessuno avrebbe commesso l’errore di sorvolare su un tale passaggio: sarebbe stato come abbandonarli di nascosto e fuggire da ladro.

    Rivelai allora la mia intenzione di partire dal villaggio il giorno dopo. Di fronte al loro sconcerto, per una decisione così repentina, gli ricordai che anche Ulisse al suo ritorno a Itaca dopo vent’anni di assenza, su consiglio dell'indovino Tiresia, dovette andarsene nuovamente il giorno dopo, perché la sua ombra avrebbe altrimenti schiacciato il figlio Telemaco.

    Mio padre, disorientato e ignaro dell'Odissea, mi domandò: «E tu chi hai paura di schiacciare?»

    «Il mio sogno» risposi: «Dovrò seguire le sue indicazioni con fede incrollabile ovunque sulla Terra». Il tempo era scaduto.

    Ormai mi sentivo come quell’uccello dalle ali pesanti, per il quale era più facile volare che camminare. Mio padre mi chiese di provare a rimanere qualche giorno in più, ma capiva che il dado era tratto. Non aver superato neppure la selezione per diventare carabiniere era così umiliante da spingermi oltre ogni limite conosciuto. Chiedevo tempo per rendere visibile l’eroe che tenevo ben nascosto dentro di me e che solo così sarebbe potuto accorrere in mio soccorso. La vergogna può fare più dell’intelligenza, della ricchezza e della fortuna. Decisi di fare il salto nel buio senza rete di protezione, assicurando al tempo stesso ai miei genitori, che sapevo quello che stavo per compiere. Sapevo di mentire.

    Domandai a mio padre se fosse pronto a darmi qualsiasi cosa avessi voluto. Non aveva idea di cosa potessi pretendere da lui. Mi chiese di cosa si trattasse, ma io lo gelai dicendo che dovevo essere più che certo, in anticipo, di una risposta affermativa. Optò per il sì e solo allora gli chiesi la sua benedizione. Non aveva e non poteva offrirmi nulla di più. Sollevato, mi rispose: «Tutto qui? Certo che te la do».

    Mia madre si affrettò a fare lo stesso, per non essere esclusa da una simile richiesta. Non sono sicuro che potessero comprenderne il significato profondo, ma andò bene lo stesso. L’importante era partire con la loro benedizione. Mia nonna sorridendo fece altrettanto. Lei sì che poteva capire; mi ricordava spesso la ragione del sacrificio di Ifigenia, che doveva servire per agevolare il vento propizio a spingere le navi degli Achei verso Troia. L’appoggio dei miei mi avrebbe permesso di volare via libero da ogni pensiero, al riparo da possibili debolezze. Ero intatto, saldo e incolume da rimpianti o sensi di colpa, pronto ad affidarmi alle indicazioni che il mio sogno avrebbe suggerito.

    Il tempo delle riflessioni era finito, ora dovevo agire con passione, determinazione e felice di poter finalmente prendere il volo per scoprire cosa mi avrebbe riservato il viaggio da inventare. Mettevo in gioco tutta la mia vita, non mancava nessuna parte di me all’appello.

    Salutai anche il mio asino, compagno di tante avventure. Vedendomi avvicinare aveva smesso di masticare l’erba. Mi fissò negli occhi come se avesse già capito le mie intenzioni, quasi volesse chiedermi perché lo stessi abbandonando. Gli accarezzai il muso per l’ultima volta. Mi dispiaceva un po' lasciarlo solo, temevo che mio padre lo avrebbe venduto a qualche altra famiglia. La mia preghiera di non farlo non lo avrebbe salvato da questa fine. Da quelle parti, uomini e animali sono legati da vincoli fortissimi. Notai che la corda che lo legava al palo gli impediva di seguirmi. Lui non era libero di andare dove voleva.

    Poi arrivò il momento. La mattina della partenza il clima era mite e il silenzio della valle saliva verso la collina come una foschia: chi doveva andare a lavorare la terra si era incamminato ore prima. Pensavo di congedarmi da tutti a casa e di prendere la stradina in terra battuta per aspettare l’autobus che raccoglieva i disperati dei paesi limitrofi, che si disponevano come una colonna di gioielli nel versante est del monte Olimpo. I miei genitori decisero invece di accompagnarmi. Sull’uscio salutai perciò soltanto la nonna. Lei mi consegnò qualcosa, assicurandomi che con quel dono non avrei mai sofferto la fame. Lo misi in tasca senza guardare cosa fosse, ringraziandola commosso.

    Solo ore dopo mi ricordai di verificarne il contenuto. Si trattava di una banconota da cento dracme, o meglio, di ciò che ne restava. Strappata al centro, era stata incollata con un pezzo di scotch da nonna, che continuava a domandarsi perché nessuno volesse accettarla. Ai suoi occhi quel pezzo di carta malmesso era una specie di tesoro.

    «Ricordati che al tuo ritorno, a missione conclusa, devi mantenere le promesse fatte», mi ammonì con dolce autorevolezza.

    Le risposi che esistono promesse impossibili da infrangere.

    Papà si caricò il mio bagaglio. Mia madre lo seguiva in silenzio religioso, io ero il terzo della fila e insieme camminammo senza dire una parola. Non so cosa si agitasse nella testa di ognuno; so solo che quella meditazione muta fu la cosa giusta da fare.

    Io pensavo a ciò che mi aspettava là fuori. Nonostante le rassicurazioni ripetute mille volte ai miei genitori, non avevo la minima idea di dove stessi andando, né di come avrei fatto per riuscire a realizzare il mio sogno e ripresentarmi al villaggio con il premio finale. Avevo un'unica certezza: sarei tornato con il trofeo in mano o non sarei tornato affatto.

    Avevo già minato tutti i ponti fra me e il mio passato. Ero destinato a percorrere l’intero tragitto contro corrente, seguendo l’esempio dei salmoni, affrontando ogni avversità, malgrado tutto e contro tutto. Niente avrebbe fermato la mia missione.

    Il primo ponte da far saltare era lì che mi aspettava.

    Mancavano forse trecento metri alla fine del sentiero prima della strada asfaltata, quando mio padre disse a mamma di tornare verso casa, perché non si sapeva quanto sarebbe stata lunga l’attesa dell’autobus. In realtà aveva intuito che mia madre stava piangendo in silenzio e lui temeva che quelle lacrime lo avrebbero reso vulnerabile di fronte alla separazione.

    Da queste parti l'uomo di casa non doveva mai mostrare segni di debolezza. Piangere per una partenza era una cosa da donne. Mia madre comprese la difficoltà del marito, si arrese e decise di fare ritorno. Del resto anche lei, forse, preferiva vivere un’emozione tanto grande da sola, a modo suo. Non avrebbe potuto comunque fare nulla per cambiare i venti che soffiavano violentemente spingendomi non si sapeva bene dove.

    Mi strinse forte senza dire neppure una parola.

    La voce non era in grado di trasmettere l’immensità dell’amore, la disperazione dell’impotenza nel vedere il proprio figlio partire senza poterlo aiutare. Scelse dignitosamente di censurarsi, piuttosto che rischiare di ferirmi. Iniziò a camminare verso casa. I suoi passi erano lenti, non tanto per la salita, quanto per la reticenza che nasceva dal desiderio di condividere con me quest’ultimo atto fino in fondo. Ogni tanto si fermava e si girava per guardarmi.

    Il mio cuore si spezzò nel vederla asciugare le lacrime che le bagnavano il viso. Era la prima volta che la vedevo piangere in silenzio per disperazione. La osservai fino a quando il suo corpo minuscolo sparì.

    Vidi lo scontro di due emozioni primitive esprimersi in modo naturale e senza filtri: il desiderio di sacrificarsi per aiutare il proprio figlio e l’impotenza di fronte al suo gesto eroico per far arrivare un aiuto dal cielo. Fu un momento straziante che era destinato a imprimersi nel mio subconscio per sempre.

    Mio padre, invece, tirò dritto verso la strada asfaltata. Da solo credette di poter nascondere bene il suo disagio, l’impotenza nel dominare gli eventi. Come avrebbe potuto nascondere la sua disperazione, causata dal dolore per non potermi aiutare? Non aveva mezzi per sostenere suo figlio, che si accingeva a intraprendere un viaggio senza fine.

    Fu terribile rispettare quel codice di comportamento arcaico, per cui qualunque tipo di sentimento doveva essere serbato nel più assoluto silenzio.

    Questo ultimo atto che stavo vivendo fu il più crudele, soprattutto per me. Avevo assunto il ruolo dell’eroe classico senza esserlo e dovevo reggere la parte con dignità. Non ero l’unico ad andarsene dal villaggio. Altri disperati partivano, per le fabbriche della Germania o per le miniere di carbone del Belgio, ma per loro in qualche modo era tutto più semplice. Sapevano che qualcuno li aspettava per dargli una sistemazione. Avrebbero continuato a lavorare da subordinati, fedeli alla condizione pur involontaria di schiavi, in cambio di qualche briciolo di certezza. In genere queste persone la sera prima del viaggio invitavano amici e parenti all’unico caffè del paese, per l’ultima volta, prima di addentrarsi nel cammino verso il futuro promesso. Il confronto tra l’inferno da cui partivano e quello verso cui erano diretti, era facile. Quello all’estero si prospettava migliore anche perché, da lontano, nessuno sarebbe stato testimone dei loro sacrifici o delle condizioni in cui si sarebbero trovati a vivere. Quando tornavano per le vacanze in Agosto, sembravano diversi, felici, ben vestiti e ci raccontavano solo cose belle. Nessuno osava raccontare la vera tragedia vissuta.

    La mia partenza si prospettava difficile perché del tutto inedita. Nessuno sapeva definirmi, non rientravo in alcuna categoria conosciuta. Non ero operaio, né studente, né turista. Non ero altro che un sognatore in incognito e senza sapere di esserlo. Nella mia situazione non si poteva brindare a nulla di specifico perché mancavano i requisiti essenziali per farlo. Gli emigranti, nel peggiore dei casi, potevano tornare indietro. Per me questa eventualità era più che remota, del tutto inesistente. Erano pensieri come questi a tormentare la mia mente, mentre aspettavamo l’arrivo dell’autobus di fortuna che non decideva a farsi vivo.

    Il silenzio e la calma apparente erano carichi di tensione.

    Un rumore lontano, all’improvviso, fece sperare nella fine del nostro martirio. Non potevo recitare la parte ancora per molto. Giunse l’autobus: era strapieno di gente seduta e in piedi, tutte persone semplici che andavano in città per sbrigare faccende di casa. Si fermò vicino a me. La frenata rumorosa rivelava l’età del mezzo di fortuna. I bagagli erano stati accatastati ovunque: dovevo inventarmi uno spazio ma era comunque meglio di niente. Mio padre aprì lo sportello e caricò il mio bagaglio.

    Mi abbracciò forte come non aveva mai fatto e mi sussurrò con voce tremante, che comunque non tradiva la sua immagine di uomo duro: «Che la Madonna ti possa accompagnare e proteggere». Mio padre era ateo, ma come mai prima di allora, era disperato. Non sapendo a chi appellarsi, si era convinto che la Madonna fosse l’unica alla quale poter affidare suo figlio.

    Di fronte a una novità del genere mi resi conto che la faccenda fosse molto più seria di quanto non pensassi. Non ebbi il tempo di formulare un ragionamento più articolato per spiegarmi l’improvvisa conversione di mio padre: partimmo. Guardandomi intorno notai molte facce avvilite.

    Cercai di rubare la vista dei campi e del manto bianco che copriva il capo del monte Olimpo. Il cielo era blu elettrico e le casette del villaggio decoravano il paesaggio in modo incantevole.

    Era il palcoscenico del mio primo atto nella fuga verso l’ignoto. Da quel momento avrei iniziato ad accorciare la distanza che mi separava dalla mia meta irrinunciabile: Roma, quella sconosciuta.

    Certo che non sarebbe stato un viaggio diretto e lineare. Ero curioso di scoprire cosa sarebbe accaduto nel frattempo e quali tappe intermedie mi attendessero.

    A tutti avevo detto che per ora la prima tappa del viaggio sarebbe stata il Sud Africa.

    Ero immerso nei miei pensieri quando l’autobus raggiunse la minuscola stazione di Elassona, dove avrei cambiato mezzo per arrivare a Larisa, e da lì, ad Atene.

    L’immagine di mio padre disperato e di mia madre di ritorno verso casa, che si voltava a guardarmi, mi accompagnava sempre. Promisi a me stesso che l’avrei ripagata compiendo un atto eroico, diventando medico e alleviando le sue sofferenze. Pensai a mio padre ateo, convertitosi improvvisamente per affidare il destino del figlio nelle mani di un Dio che prima aveva disprezzato. L’autobus per Atene era bello e pulito, con pochi passeggeri. Salii e presi posto dietro l’autista. Dopo qualche minuto eravamo in viaggio. Il frastuono del vociare intorno a me fu attenuato dai pensieri che vertiginosamente si affollavano nella mente e divenne, a poco a poco, nient’altro che un bisbiglio fastidioso. Appoggiai il capo all'enorme vetro del pullman, osservando il paesaggio che mi lasciavo alle spalle, chilometro dopo chilometro.

    Distolsi per un attimo lo sguardo, poiché mi accorsi di essere osservato. Dallo specchietto retrovisore gli occhi dell’autista mi squadravano incuriositi.

    «Ehi, ragazzo! Dove sei diretto?».

    «All’aeroporto di Atene, signore».

    «Aeroporto? Per andare dove?»

    «A Città del Capo, per studiare Medicina…».

    «Wow! Città del Capo! Mi sono sempre chiesto come sia...Beh, in bocca al lupo, ti ci vorrà una bella dose di coraggio! ».

    Nonostante fossi già pronto per altre domande di rito, l’uomo non aggiunse altro. Espresse il suo entusiasmo per il mio progetto e, rimettendosi alla guida, mi chiese solo di fargli un favore: non appena mi fossi sistemato in Sudafrica, gli avrei dovuto inviare una scatola di sigari. Senza conoscerne il costo, non esitai a promettergliela. Durante tutto il resto del viaggio, ogni tanto, il suo sguardo compiaciuto mi scrutava dallo specchietto. Avevo la tipica espressione di chi stava sognando a occhi aperti e la mia gioia era talmente palpabile che l’uomo riusciva forse già a vedermi nei panni di medico.

    Per quanto mi riguardava, non mi preoccupavo più di tanto delle tappe intermedie, consideravo scontato che, in qualche modo, le avrei superate tutte. La brusca frenata del pullman mi riportò alla realtà di Atene. Durante le sette ore di viaggio avevo pensato a come ottenere il visto per il Sudafrica. Volevo partire il giorno dopo. Rimanendo ad Atene più a lungo, avrei speso i risparmi di tre anni di lavoro per il biglietto aereo di sola andata e il primo periodo di permanenza fuori. Un turista greco, allora, non poteva portare fuori dal paese più di 250 dollari. Io comunque non dovevo preoccuparmi, perché anche volendo portarne di più, non li avevo. Seguendo quella che non si poteva certo definire una strategia, ma qualcosa di simile a una sua bozza provvisoria e incerta, diedi inizio alle peripezie per ottenere il visto necessario al mio viaggio. Pensavo non ci sarebbe voluto molto.

    Nessuno capiva perché avessi pianificato di raggiungere l’Africa, se il mio obiettivo era studiare Medicina a Roma.

    Ero consapevole di non poter andare direttamente in Italia perché mi mancava un documento essenziale che non mi sarebbe stato concesso: il permesso di soggiorno.

    Si trattava di un impegno ufficiale scritto che attestava il mio sostentamento economico a Roma. Nessuno me lo avrebbe mai concesso nelle mie condizioni di allora: quelle di un fallito, rimandato all’esame di maturità, su cui non avrebbe scommesso nessuno.

    Ero uno di quegli ultimi che non osano chiedere aiuto e che sanno di non avere accesso ai luoghi riservati ai migliori. L’unica volta in cui avevo osato fu quando chiesi di accedere al concorso per diventare ufficiale medico. Il preside della scuola prima si mise a ridere e poi chiamò il resto del corpo docente per schernirmi. Come avevo potuto essere tanto sfacciato da arrivare a chiedere una cosa del genere?

    In verità volevo evitare l’inevitabile: commuoverli per non rimandarmi in matematica e geometria, dinanzi ad una prospettiva più grande. Ma loro non si sono commossi affatto, rimandandomi all’esame di maturità. Fu una punizione umiliante per me.

    Avevo optato di andare a Cape Town per incontrare il Dr. Christian Barnard, primo cardiochirurgo al mondo a effettuare un trapianto di cuore. Già traboccavo di ammirazione nei confronti di questo sconosciuto, quando lessi in uno degli articoli che parlavano di lui, che Barnard nutriva una profonda stima nei confronti del popolo greco. Credo fosse per una sorta di omaggio che sentiva di dover rendere a Ippocrate.

    «Il popolo greco è mio amico», «I Greci sono i miei amici più cari»: il grande luminare ripeteva il suo affetto in ogni occasione possibile e io mi limitai a eseguire un sillogismo di logica aristotelica molto semplice:«Io sono greco, Christian Barnard è amico dei greci, quindi io sono amico di Christian Barnard». Solo che lui ancora non lo sapeva. Si trattava solo di trovarlo e comunicarglielo. Nessuno avrebbe negato sostegno ad un amico e io ero fiducioso che il Dr. Barnard non avrebbe lesinato il proprio aiuto a un giovane greco che chiedeva una mano per diventare medico come lui.

    Dunque l’unica cosa da fare era prendere il visto e raggiungerlo al più presto possibile.

    Era cosi che ragionavano i bambini primitivi come me, avvolti dall’innocenza infantile.

    Non vedevo proprio perché avrebbe dovuto negarmi il suo appoggio in un’impresa così nobile e utile per l’umanità.

    Senza perdere altro tempo il giorno dopo mi presentai all’Ambasciata del Sudafrica. Dall’altra parte di una scrivania in rovere mi attendeva un uomo tutto sommato ordinario, bassino con i baffi bianchi. Dopo un preambolo prevedibile e di cui non è importante ricordare i dettagli, mi pose una domanda per mettermi alla prova:

    «Cosa faresti se ti trovassi davanti a un’ingiustizia compiuta contro un uomo di colore?». Senza pensarci troppo risposi che avrei difeso a qualunque costo il malcapitato.

    In quegli anni le leggi razziali incendiavano il Paese e lui mi domandò allora:

    «E se il responsabile fosse un bianco?». Con la stessa sicurezza sentenziai che ciò che contava era l’ingiustizia subita e non il colore della pelle, la nazionalità e lo stato sociale di colui che la commette.

    «Non sei fatto per il Sudafrica», il burocrate mi liquidò, invitandomi a non ripresentarmi. Sono passati quarant’anni da allora e oggi sembra impossibile che qualcuno abbia potuto pensare, articolare e difendere una mostruosità come l’apartheid.

    Eppure, in quel giorno del ‘74 quell’obbrobrio era legge per milioni di persone e chi lo difendeva, vigilava con molta attenzione, per evitare l’ingresso nella nazione di individui potenzialmente pericolosi per il sistema.

    Di fronte alla mia profonda delusione, l’impiegato mi svelò la possibilità di ricorrere a un trucco: avrei potuto chiedere un visto come "shop assistant".

    Quest’espressione mi appariva come un’àncora di salvezza; per non dimenticarla lo pregai di scrivermela su un pezzo di carta, visto che non parlavo inglese.

    Lo fece e, porgendomi il foglietto, mi lanciò un’occhiata che non ho mai dimenticato. Mostrò pietà, desolazione e stupore di fronte alla mia condizione disperata.

    Non avrei dovuto perdere quel biglietto per nessun motivo al mondo. Ripetevo fra me e me «Shop assistant», mentre mi allontanavo dall’ambasciata. Credevo che si trattasse di un lasciapassare universale, invece era un lavoro umile di assistente in qualche supermercato. Non potevo però permettermi di aspettare chissà quanti mesi in attesa di un documento per partire. Sarebbe stato un disastro, perché i risparmi raccolti in tre anni si sarebbero volatilizzati, condannandomi a rimanere in Patria. Dovevo cambiare strategia e trovare un piano di fuga immediato dal Paese. Stavo scoprendo che mi illudevo di essere un uomo libero di andare dove volevo.

    Lo ero, ma a patto di non oltrepassare i confini della Grecia.

    La mia corda era più lunga di quella del mio asinello ma non meno frustrante. Entrambi avevamo un raggio d’azione limitato e deciso da altri. Ero ostaggio senza via di fuga. Era terribile scoprire che nessuno poteva liberarmi da questa condizione di schiavitù. Il solo a poterlo fare era il mio sogno che non dovevo mollare nemmeno per un attimo.

    Non tornai più in quella ambasciata e, ripensandoci, il rifiuto di allora fu provvidenziale.

    Ero un sognatore: le leggi razziali e la dignità calpestata di tutto un popolo mi avrebbero atterrito. Sarei cresciuto nel modo più violento possibile e avrei perso la mia innocenza.

    In seguito, tentai con ogni altra ambasciata presente ad Atene.

    Tutte mi negarono il visto turistico, perché non ero e non potevo essere di fatto un turista. Rimaneva un’ultima possibilità per uscire dal paese: partire in nave fingendomi marinaio e chiedere asilo politico al primo porto americano, non sapendo che i due paesi erano dalla stessa parte. La mia ignoranza era terribile ma offriva anche dei vantaggi.

    Non riconoscere i pericoli e le difficoltà di ogni tipo, mi permetteva di agire senza paura e con una determinazione invidiabile. Solo i bambini e gli eroi potevano agire in quel modo paradossale.

    Mi aggiravo per la città con vestiti consunti e senza nulla che potesse accomunarmi ai turisti, con il loro set di valigie firmate, piene di tanti vestiti e non solo.

    Non rientravo in nessuna categoria umana, oltre a quella di una persona disperata che in mente aveva solo una cosa: partire, non importa per dove. Ero disposto anche ad andare all’Inferno pur di uscire dalla Grecia. Una volta fuori, avrei trovato modo per incrociare la via sognata. Il mio amico Senofonte, l’unica persona che conoscevo ad Atene, vedendomi atterrito come mai prima di allora, mi suggerì di tentare anche con l’ambasciata Americana, l’unica alla cui porta non avevo osato bussare.

    «Tanto non hai niente da perdere» disse, poi aggiunse l’ovvio: «Ormai sai che non puoi andare da nessuna parte del mondo».

    Avevo escluso in partenza questa possibilità, visti i molteplici rifiuti subiti.

    Senofonte però su una cosa aveva ragione: non avevo assolutamente nulla da perdere. Seguii il suo consiglio e mi ci aggrappai come un naufrago alla cima di una fune lanciata dai soccorritori in alto mare.

    Il giorno dopo mi trovai a parlare con il console americano per indagare se potessi visitare il suo paese per qualche giorno, prima di andare in Canada dove mi aspettavano dei parenti benestanti.

    Non credevo alle mie orecchie. L’uomo di fronte a me, tranquillo e cordiale, mi domandò come da copione:

    «Perché vuoi visitare l’America?».

    Gli risposi raccontandogli un mito ormai ben collaudato.

    Era la prima volta che avevo deciso di incantare qualcuno mettendo alla prova il potere della mitologia. Se mia nonna aveva usato quei racconti per farmi dormire quando ero piccolo, il mio obiettivo era in questo caso un altro: volevo tranquillizzare l’uomo che avevo di fronte a me, ipnotizzarlo, sopprimere la sua volontà di porre resistenza ad ogni richiesta, per ottenere il tanto agognato visto.

    Mi improvvisai attore e la mia recita doveva incantare anche me per poter rassicurare il Console.

    La mia speranza rendeva in qualche modo reali quelle che, in teoria, non erano altro che parole e che io trasformavo dando loro concretezza emotiva.

    «Signor Console, io non voglio andare in America ma a Cape Town». «Allora perché ti trovi nell'ambasciata sbagliata?» mi domandò con stupore.

    «A Cape Town dovrò incontrare il Dr. Christian Barnard, il cardiochirurgo che ha realizzato il primo trapianto di cuore. Prima però dovrò raggiungere dei miei parenti che vivono a Hamilton in Canada. Lì rimarrò per qualche settimana e prenderò i soldi necessari per raggiungere l’Africa. Come lei sa un turista greco può portare con sé solo 250 dollari, un po' pochi per questa avventura africana. Il Capital Control non mi permette di andare direttamente dalla Grecia al Sud Africa con i soldi necessari».

    Questo aspetto della mia arringa rispondeva a verità. In quanto al Dr. Barnard e al mio presunto incontro con lui, si trattava invece solo di uno scenario verosimile. Stavo imparando un’arte che tutti avrebbero voluto apprendere: "l’ipnosi su misura"; e descrissi il piano con tanta convinzione che finii per convincermene io stesso. Infine, aggiunsi la ciliegina sulla torta:

    «Visto che sarà la prima volta che attraverserò l’Atlantico, sarebbe meraviglioso sostare qualche giorno anche a New York. Chissà quando mi capiterà nuovamente l’occasione. Vede, signor Console, il mio vero problema è che non avrò più tempo per fare un giro così lungo. Al mio ritorno, tornerò a fare il sottotenente, l’ufficiale dell’esercito». In verità quello che dicevo rispondeva al vero, ma non era ciò che desideravo fare per il resto della mia vita. Svegliarmi tutte le mattine alle 6 era qualcosa di intollerabile per me. Per quel che riguardava il tempo era forse l’unica cosa che non mi mancasse.

    Interpretai la parte in modo convincente. Il console si affrettò a dirmi con entusiasmo:

    «Ok, dammi il tuo passaporto, ti darò un visto turistico B-2 per entrate multiple».

    Dopo i rifiuti opposti da tutte le altre ambasciate, non potevo credere alle mie orecchie e paradossalmente quella fu l’unica volta che non avevo il passaporto con me.

    Chiesi al Console se potevo tornare il giorno successivo e lui non fece una piega. Mi disse di sì.

    Per tutta la notte non chiusi occhio. La luce dell’alba non si decideva ad arrivare e il mio cuore era preda di oscuri presagi, ansie di ogni genere fra le quali spiccava il terrore che il funzionario potesse cambiare idea. Pregai che la sua notte scorresse più serena della mia e che nessuno osasse innervosirlo fino al nostro incontro del giorno successivo. A quanto pareva gli Dei dell’Olimpo avevano deciso di cambiare la mia destinazione. Ermes aveva portato il messaggio in tempo ed Eolo era pronto a far soffiare quei venti che mi avrebbero portato nel nuovo mondo.

    L’indomani uscii di casa con largo anticipo rispetto all'orario dell’appuntamento.

    Le strade della capitale non si erano ancora riempite di traffico; insieme a me, il popolo della mattina scommetteva sul nuovo giorno.

    Arrivai in Ambasciata per primo e non fui costretto ad attendere in fila. Osservai che tutti gli altri avevano fascicoli enormi di documenti da presentare al Console per poter ottenere il visto. Dentro di me pensavo che io non avrei potuto ottenere alcuno di quei documenti. Non volevo pensare a null’altro. Dovevo guardare davanti al vuoto che mi cedeva il passo per avvicinare l’ufficio del Console.

    Tutta l’ansia della notte si risolse in pochi minuti: senza far rumore l’uomo stampò l’agognato visto sul mio passaporto. Una macchia rettangolare di colore blu scuro, un po’ obliqua, spiccava alla pagina numero sei del documento. Prima di congedarmi, l’uomo mi disse:

    «Sei fortunato a incontrare una persona tanto importante, sono invidioso di te che potrai parlare con il cardiochirurgo che aprì la strada ai trapianti sull’uomo».

    Condivisi il suo entusiasmo e per un momento ai miei occhi quella che sapevo essere soltanto un’ipotesi lontana assunse tutte le sembianze di un fatto, qualcosa che aspettava solo il visto per cominciare a prendere corpo. L’emozione che avvolgeva l’idea l’aveva trasformata in realtà da vivere.

    Non sapevo chi ringraziare per lo straordinario evento.

    Si sa che gli dei amano giocare con i comuni mortali. Eolo, il signore dei venti, non vedeva l’ora di chiuderli tutti nell’otre, lasciando libero solo quello che poteva spingermi oltre l’Oceano Atlantico.

    Con il passaporto in mano che includeva tra le sue pagine il visto prezioso decisi di allontanarmi in fretta dall’Ambasciata, temendo che il diplomatico cambiasse idea per qualche ragione imponderabile. Stavo volando, non sentivo la terra sotto i miei piedi. Era una sensazione indescrivibile.

    Ero certo che avrei potuto evitare la vergogna di chi mi avrebbe rinfacciato il fatto che, non solo non avrei potuto studiare Medicina, ma addirittura non sarei stato in grado di lasciare il Paese nemmeno come un semplice turista. Il primo traguardo era stato raggiunto e questo mi aveva reso tanto felice.

    Nelle ore successive mi sentii come quando ci si sveglia dopo aver fatto un bel sogno: cercavo di capire se ciò che mi era appena successo fosse reale o meno. La mia incredulità era tanta da spingermi a entrare in venticinque diverse agenzie di viaggi della città, mostrando a ognuna il visto appena ottenuto, per chiedere se effettivamente quel timbro colorato mi autorizzasse a partire. «Sì, certo» fu la risposta che ottenni da ognuna.

    Pensai a quanto mi aveva sempre detto mia nonna: «Chi ha un sogno nobile ed è determinato a realizzarlo deve buttarsi nel vuoto senza rete di protezione».

    Questa è la prova di Fede che deve essere superata per far sì che si inneschi quel meraviglioso meccanismo che porta alla realizzazione dei sogni.

    Solo allora Zeus affida al comune mortale di turno il dominio del caso, affinché possa gestire gli eventi e renderli appuntamenti di vita imperdibili da compiere al tempo giusto. Né prima né dopo, ma al secondo spaccato.

    Mia nonna mi aveva assicurato che mi sarebbe accaduto solo durante il salto nel buio senza rete di protezione. Lei insisteva che non potevo imbrogliare nessuno, su questo punto.

    Solo allora le stelle, tutte, sarebbero accorse a formare il paracadute per farmi atterrare salvo, sano e felice nella terra promessa.

    Lei sosteneva che gli Dei lo concedono esclusivamente ai "sognatori a tempo pieno". Sapeva, benchè fosse analfabeta, che il dominio del caso fosse un affare divino, nelle mani di Zeus in persona. Prima di comprendere l’importanza di tale insegnamento detestavo essere definito sognatore perché per i miei concittadini era sinonimo di malattia da evitare, che poteva essere trasmessa alle persone con cui si era a contatto.

    Essendo considerato un fallito e un sognatore, nel vedermi essere anche felice, credevano che il mio stato fosse inguaribile. Era come se io avessi qualche malattia infettiva da evitare ad ogni costo per non esserne esposti a contagio. Ecco perché non pronunciavo nemmeno per scherzo questa definizione.

    Era un vero peccato non rendermi conto che ero in possesso di un lasciapassare regalatomi dagli Dei. I biglietti per l’America costavano tanto, specialmente se non includevano anche il ritorno. Ma io ero consapevole che la mia partenza sarebbe stata senza ritorno.

    Senofonte mi suggerì un’idea geniale per comprare un biglietto di sola andata per New York. A Pireo esistevano agenzie di viaggio specializzate negli spostamenti dei marinai, degli ufficiali e del personale che lavorava a bordo delle grandi navi degli armatori greci. Queste agenzie avevano convenzioni con loro e offrivano biglietti aerei a prezzi stracciati. L’idea del mio amico era semplice: avrei dovuto presentarmi da

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