Un clone in valigia
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Quando parte per gli Stati Uniti, Alessandra, ricercatrice, porta con sé solo qualche indumento, una coperta, come Linus, e la speranza di diventare un biologo molecolare. Tra supermercati senza confini e scarafaggi altrettanto giganti, automobili di fortuna e baseball improvvisato, trova pian piano se stessa, l’amicizia, una famiglia, e la realizzazione del suo sogno scientifico. Isolerà un “clone”, il DNA di una proteina nuova, forse importante per un tumore infantile. Dopo tre anni in USA deciderà di far rientro in Italia, portandosi dietro anche il suo “clone”. Il gene in valigia sarà al tempo stesso il suo portafortuna e la base per un progetto scientifico e umano da completare in patria.
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Anteprima del libro
Un clone in valigia - Adriana Albini
INTRODUZIONE
"Gli Stati Uniti allora e per molti anni a venire apparivano
agli europei la Mecca della Scienza…".
Rita Levi Montalcini, Elogio dell’Imperfezione.
Perché scrivere un libro sulla mia esperienza di ricercatrice negli Stati Uniti? Tirare fuori dal cassetto il diario di una biologa molecolare allora agli esordi e piena di insicurezze? Una volta mi consigliarono di lasciare ai premi Nobel l’onore e l’onere di raccontare brani della loro vita. Le persone famose possiedono un particolare fascino, che trasmettono nelle loro biografie, ma gli individui normali, come me, in cui ci si può riconoscere, sono molti più numerosi.
Dunque, discutendo con il mio editore, è nata la decisione di raccontare un’esperienza che qualunque laureato in materie scientifiche potrebbe aver vissuto.
Lavorando al testo durante le vacanze estive, mi sono rivista non ancora trentenne, quando trasvolai l’oceano all’inseguimento di un sogno e forse di me stessa. Potevo diventare uno dei tanti giovani laureati che partivano con un biglietto di solo andata, per sfuggire alle logiche troppo spesso nepotistiche e antimeritocratiche in voga nell’ambiente accademico italiano.
I numerosi articoli sulle fughe
dei ricercatori, editi da giornali e riviste in questi ultimi mesi, mi hanno fatto pensare che il round-trip non è sempre ovvio. Secondo il Time Magazine
sono 400.000 i ricercatori europei all’estero e di questi solo il 10% riesce a tornare a casa.
La prima fuga
la vissi all’età di venticinque anni. Borsista della Lega per il Malato Reumatico guadagnavo 200.000 vecchie lire al mese e mi compravo coi risparmi l’essenziale per far funzionare il laboratorio. Fu un miracolo inatteso vincere una fellowship e poter lavorare per tre anni all’Istituto Max-Planck di Biochimica di Monaco di Baviera, dove mi feci le ossa poco dopo la laurea. A ventinove anni, concluso l’appuntamento tedesco, tornai in Italia per pochi mesi. Ma i tempi non erano ancora maturi per un rientro definitivo. Riempii di nuovo la valigia per addentrarmi nella realtà americana.
Fu una stagione straordinaria, nella sua semplice quotidianità. Ho pensato di restare lì per sempre, ma poi ha vinto il desiderio di riportare conoscenze e risorse nel mio paese natale.
Grazie all’opportunità offertami dall’IST di Genova, all’età di trentatré anni rientrai in qualità di Aiuto, presso l’unità operativa di Oncologia Sperimentale. Per opera dei primi finanziamenti ricevuti, in particolare da AIRC e CNR, potei metter su un gruppo autonomo ed avviare un’attività di ricerca personalizzata.
Mentirei se affermassi che germogliare sia risultato semplice, un giardino di rose. Non lo è stato, è costato molta fatica, anche se i momenti belli hanno sempre cancellato quelli difficili.
Emergere in un mondo prevalentemente maschile, come quello scientifico, e per un outsider (mio padre è professore di greco), non è stata un’impresa da poco.
Ripenso ora a tutte le incertezze, lo scoramento, ma anche alla passione e all’entusiasmo di quegli anni.
Tra una provetta, un’analisi ed un congresso scientifico, è cresciuto il nucleo familiare. Il ragazzo del laboratorio accanto è diventato mio marito, sono nati due figli straordinari e ho ritrovato genitori comprensivi, che mi hanno circondata di affetto e serenità. L’esistenza dei miei cari mi ricorda ogni giorno che, prima di essere una scienziata, sono un essere umano, una donna.
Oggi in Italia, è possibile fare ricerca ad alto livello, oggi è consentito ai giovani ricercatori, scienziati, medici, di seguire le proprie aspirazioni. Ma la battaglia per la ricerca iniziata anni fa non è finita. Il nostro paese è afflitto dalla carenza di fondi e da una discontinua considerazione per la cultura scientifica. C’è ancora molta strada da fare. In un mondo dove i fatti di sangue, la guerra, il terrorismo affollano le pagine di cronaca è difficile coltivare queste speranze, ma rinunciare sarebbe ancora peggio.
Questo libro è nato per lanciare un messaggio: studiare, viaggiare, vivere da cervelli all’estero
è un’esperienza impagabile, ma è essenziale possedere la ferma consapevolezza che tornare in Italia è importante e possibile, che si può condurre ricerca a pieno ritmo anche qui, lavorando in rete, e soprattutto credendoci.
Chiedo venia per il fatto, un po’ curioso che, mentre molti nomi dei protagonisti sono reali, alcuni personaggi, compreso l’io narrante, compaiono sotto pseudonimo. Mi sembrava fosse più facile, per chi mi leggesse, immedesimarsi in una figura in parte romanzata
: Alessandra Anselmi, ricercatrice.
Su alcuni protagonisti ho voluto riportare il mio punto di vista, molto personale, e pertanto ho preferito lasciarli ai confini della realtà, con nomi di fantasia.
Questa storia non è solo la mia, ma appartiene ad un’Alessandra qualsiasi, una persona che semplicemente mi assomiglia un po’. Là fuori ci sono tante Alessandre – o Alessandri – che aspettano solo un’opportunità per contribuire alla cultura e alla conoscenza scientifica, che sognano di crescere e affermarsi, per farci progredire assieme a loro.
Prima parte
FUGA
Da questo laboratorio
di porcellana e vetro,
oltre i confini
del quotidiano.
Tra due versi di poesia
e un pomeriggio passato al microscopio
più della luce negli occhi
che si spegne
la risposta attesa
dall’elica svolta.
Come l’oceano stesso di pensieri.
Da questo palazzo di rame
tra bottiglie d’alcool
incolore
oltre l’angoscia del tempo
che scorrendo
attanaglia nella morsa.
Tra due righe d’appunti
e i vapori dell’incubatore
più del silenzio
di voci incrinate
il segreto dell’unica legge.
Mentre il liquido rosso
nutre cellule sopite,
distilla ancora
qualche goccia pura.
La bilancia e lo spettro
emettono sentenze
che gli oracoli
non sanno interpretare.
Tra la pioggia e l’acqua
parla la vita,
dipana le quattro lettere
del suo antico alfabeto
di DNA.
E tra le pieghe dell’elica
noi
parentesi stellata
nell’universo in fuga.
A. A.
PROLOGO
Uscii dalla cella frigorifera trasportando maldestramente una pila di piastre di plastica trasparente. Erano circa le undici di sera e il ticchettio degli strumenti scandiva il tempo. Una notte serena come nessun’altra.
Udivo i colleghi giapponesi parlare in fondo al corridoio. Qualcuno si accomiatava. Hiroshi invece era arrivato in quel momento e quasi mi urtò per entrare nella stanza fredda
, da cui ero appena sbucata. Salve
lo salutai mentre riportavo all’equilibrio la mia piccola torre di Pisa. Salve, salve
rispose. E poi, indicando il mio bottino: Hai un clone?
Non lo so ancora se ho un clone, Hiro – mi schermii – ma lo spero tanto...
. Lui sorrise, s’inchinò leggermente e sparì nella cella.
Raggiunto il mio laboratorio, affastellato e disordinato, pieno di residui di esperimenti iniziati, quasi terminati o in transizione, posai la piastra numero ventiquattro sul bancone e la pila delle restanti ventitré la seguì docilmente.
Fu in quel momento che mi venne da pensare: Ecco qui la scheda biologica del signor Rossi, o Bianchi o Smith, per quel che ne so io
. Eccolo lì, il materiale genetico amplificato, clonato
da chiunque avesse donato i suoi globuli bianchi per fabbricare la biblioteca
di DNA che stavo setacciando, frugando, alla ricerca del mio clone. Quelle placche virali rotonde e trasparenti, che si erano amplificate su un bel tappeto del batterio escherichia coli
seminato sull’agarosio giallino, contenevano ognuna un pezzettino d’informazione su chi era l’occasionale signor Smith. Quel puntino nel mezzo forse era l’azzurro dei suoi occhi, quell’altro nell’angolo magari la melanina delle sue lentiggini, e là, sulle ventitré, c’era il suo carattere scorbutico.
L’idea che ogni nostra cellula contenesse un intero patrimonio genetico l’avevo assimilata già da tanto tempo, ed era come sapere che stavo in piedi grazie alla gravità e che il ghiaccio è acqua allo stato solido. Ma vedere il signor Smith scomposto in tanti pezzettini – un milione e duecentomila, per la precisione – mi faceva un effetto strano. E tutti quei frammenti di Smith erano alloggiati in altri personaggi – dei virus derivati dal batteriofago lambda
– che si replicavano a velocità vertiginosa portandosi dietro, carpita, quella briciola d’informazione. I suoi occhi azzurri. Le sue lentiggini. La sua predilezione per la cioccolata amara. La sua tendenza alla depressione.
Di tutte le cose che Smith custodiva nel DNA delle sue cellule, a me in quel momento ne interessava una. Cercavo il gene di una proteina di trasporto della vitamina A nella retina. Perché non l’emoglobina? O gli anticorpi che lo difendevano dalle infezioni? O addirittura il recettore per gustare i gianduiotti? Semplicemente perché tutto il resto della mia vita precedente e le sue bizzarre coincidenze mi avevano portato a interessarmi alla retina, al tumore infantile retinoblastoma e al retinolo, meglio noto come vitamina A.
Probabilmente se fossi partita per gli Stati Uniti un anno dopo o anche solo un giorno più tardi, oppure fossi andata un po’ più a nord, avrei studiato qualcosa come la causa della sclerosi multipla, o mi sarei immersa nella sperimentazione di un vaccino per l’AIDS, o magari avrei fatto luce sul meccanismo biologico dell’avversione agli spinaci dell’età infantile. Invece ero là a cercare il DNA di quella particolare proteina.
Ad altri popoli sembra che il nostro alfabeto italiano di 21 lettere sia limitato. Rispetto semplicemente all’inglese, non facciamo grande uso di k, j, y, w. Ma il DNA si arrangia benissimo con molto meno, addirittura si accontenta di 4 simboli. Quattro basi, quattro lettere: a, c, g, t, sufficienti a costruire un uomo da due sole cellule germinali. Mai come allora, guardandomi attorno alle riunioni scientifiche, o semplicemente contemplando l’umanità al ristorante o sull’autobus, fui cosciente del fatto che – pur abitando la terra in miliardi – siamo tutti diversi. Mi resi conto quasi d’un tratto, come se non vi avessi mai fatto caso, di come magistralmente eppure secondo banali regole di statistica, i nostri geni si possano mescolare per produrre ogni volta qualcosa di unico. Ma se ogni essere umano è irripetibile, i suoi singoli geni – o addirittura pezzi di cromosomi – non lo sono, grazie al progresso della scienza del DNA ricombinante: l’ingegneria genetica. Lì, nelle piastre appoggiate sul bancone davanti a me, pullulavano infatti dei cloni
: entità geneticamente assolutamente identiche le une alle altre. Ogni frammento di DNA di una singola cellula di Smith si era riprodotto molteplici volte all’interno del virus in cui l’avevo inserito. Quella colonia di batteriofagi lambda che rappresentava il colore degli occhi di Smith – un puntino lucido sullo sfondo opaco dei coli – conteneva circa un