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La certezza dell'Immortalità: Veronica Palermo
La certezza dell'Immortalità: Veronica Palermo
La certezza dell'Immortalità: Veronica Palermo
E-book173 pagine2 ore

La certezza dell'Immortalità: Veronica Palermo

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Info su questo ebook

Nella Sicilia contadina dell’Unità d’Italia due esistenze molto diverse si legheranno per sempre. Nica è una ragazza forte, indipendente, ribelle, nata in una famiglia di braccianti, non ha paura di fatiche e difficoltà. Giorgio, ben più maturo di lei, è il figlio del padrone dell’azienda agricola la Quercia dei viceré, per la quale lavora la famiglia di Nica. La strada per la felicità è irta di ostacoli e i due saranno costretti a separarsi. Il vero amore può superare il tempo, il denaro, le resistenze della famiglia, la malinconia. La loro storia è la prova che l’amore tenuto costantemente acceso conduce con certezza all’immortalità, perché solo amare ed essere amati ci farà ricordare per sempre. Fedele alla sua terra, Francesca Buzzotta ci racconta la bellezza e la meschinità di una Sicilia che è un immenso teatro di macerie, una meravigliosa creatura ferita, il palcoscenico sul quale grandezza e miseria delle passioni umane prendono vita nel canto di una donna alla ricerca della propria libertà.
LinguaItaliano
EditoreBuzzy
Data di uscita17 set 2017
ISBN9788826489100
La certezza dell'Immortalità: Veronica Palermo

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    La certezza dell'Immortalità - Francesca Buzzotta

    Francesca Buzzotta

    La certezza dell'Immortalità

    Veronica Palermo

    UUID: 3b0337c2-9bb6-11e7-9532-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Primo Capitolo

    Piana Archiepiscopatus Montis Regalis Piana dei Greci La Quercia dei viceré

    __________________________

    E’ la festa dell’uva, è la festa del vino! Il rosso in tutte le sue sfumature, il verde intenso, misto al giallo miele dei pampini e il blu nero, rilucente e luminoso degli acini, velato dalla rugiada cristallina, colorano questa giornata dalle tinte e dai forti sapori. Le grandi tinozze piene d’uva sono esposte all’aria di questa quiet a e calda giornata d’autunno e tutt’intorno il vociare di uomini e donne, affaccendati nel trasporto di ceste, ricolme di grappoli da travasare con esperienza, perché la spremitura inizi e vada avanti.

    Sembra proprio di guardare una vecchia stampa in bianco e nero. In primo piano un paesino tardo-medievale con schizzi barocchi, arroccato sul versante sud-est di Palermo, nell’alto Belice, situato negli ex feudi di Mercu e Ayindingli, territori-appannaggio dell’ arcivescovo di Monreale Cardinale Borgia fin dal 1485. Da Piana Archiepiscopatus Montis Regalis, era diventata poi Piana dell'Arcivescovo, poi Piana dei Greci ed infine Pian a degli Albanesi dal 1941 , sotto il regime fascista.

    E’ tempo di vendemmia, uno dei periodi più allegri e vivaci dell’anno. Q ua giù, la vita è scandita dai tempi dei campi, l’aratura, la semina, il raccolto e la vendemmia.

    La bellezza di questo luogo si rispecchia sui volti e nella vita dei suoi abitanti, fortemente legati a questa terra che li ha accolti all’indomani dell ’invasione della penisola balcanica da parte dei Turchi Ottomani quando, costretti a fuggire e lasciare la loro patria, trovarono riparo sicuro sulle vicine coste dell’Italia meridionale in Sicilia dove nacque Piana degli Albanesi.

    Sebbene gli arbëreshë pianesi avessero contratto con gli ospitanti le C apitolazioni, strumenti legali e giuridici per la salvaguardia delle loro tradizioni e della loro autonomia, nutrirono forti sentimenti patriottici per la terra che li aveva accolti. Diedero pertanto un decisivo e significativo sostegno politico e militare ai moti risorgimentali siciliani e nazionali che preparavano l’unità nazionale italiana. Ospitarono nel 1860 Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, giunti in Sicilia con il compito di preparare lo sbarco garibaldino e offrirono ai garibaldini sostegno logistico e un sicuro riparo strategico. Molti arbëreshë seguirono le campagne militari contro i Borboni, infine, diedero voce al movimento dei Fasci siciliani che, verso la fine del XIX secolo, interessò la Sicilia e più in generale, le vicende della politica nazionale.

    Nell’autunno del 1903, all’imbrunire di una calda domenica di ottobre, finita la vendemmia , come da tradizione, i proprietari feudatari avevano comandato ai loro massari di riunire tutti i contadini con le loro famiglie per festeggiare. Tutto sembrava seguire con lentezza gli eventi con le tradizioni immutate nel tempo, così come le gerarchie sociali. In una comunità locale qual era quella pianese, mantenere le differenze sociali serviva a dare il giusto equilibrio alla situazione territoriale, ma l’adolescenza, la fanciullezza e la giovinezza sono fasi della vita che tendono a stravolgere le gerarchie e le differenze di classe arrivando anche a superare difficili ostacoli .

    Alla Masseria La Quercia dei viceré, l’aria profumava di mosto, di fiori selvaggi, di buon formaggio, di fascelle di ricotta, di torte appena sfornate e riecheggiava di risa di fanciulle.

    I giorni di festa erano i più attesi dalle famiglie. Si ritrovavano tutti insieme per ringraziare il Signore Gesù per il buon raccolto o la buona vendemmia, a ballare, mangiare e trascorrere in allegria la serata. Le ragazze indossavano i loro abiti di festa e così anche i giovanotti, che apparivano meno spavaldi delle loro coetanee.

    Veronica o Nica, così come la chiamava suo padre, non si staccava mai dalla sua migliore amica Marianna. La famiglia di Nica non abitava all’interno del Baglio poiché suo padre era assunto solo al bisogno, quando il massaro e gli altri contadini del luogo non potevano far fronte a tutti gli impegni del fondo agricolo; allora Don Gregorio Di Giovanni, il feudatario, dava l’ordine di chiamare altra manovalanza e, dato che conosceva di persona Francesco Palermo e lo considerava persona degna di fiducia e stima, lo convocava ogni volta che lo riteneva opportuno.

    Don Francesco aveva partecipato alla vendemmia anche questa volta portandosi appresso Veronica, la sua unica figlia, che si era data tanto da fare a raccogliere l’uva pencolante dai rami. Quella sera Veronica appariva radiosa. Le giornate di sole trascorse sui campi tra i vitigni, avevano reso la pelle del suo viso e i lunghi capelli nero corvino ancora più luminosi. I suoi diciotto anni risplendevano sul suo volto mentre passeggiava con Marianna ed altre coetanee lungo l’ampio cortile ciottolato tra i tavoli imbanditi spiluccando tra un piatto e l’altro. Le risa delle ragazze insieme alle stornellate di un improvvisata orchestrina allietavano la serata e tenevano compagnia, mentre i grandi erano tutti radunati attorno al tavolo sotto la grande quercia che faceva da ombrello naturale agli ospiti, al padrone e alla sua famiglia.

    Il banchetto non poteva dirsi servito se il padrone non assaggiava per primo qualche pietanza. Questa era la più antica forma di rispetto del massaro e degli altri contadini nei confronti del loro signore. Anche le danze non potevano essere dichiarate aperte se Don Gregorio, presa sotto braccio una delle donne della sua famiglia, moglie o figlia, non ballava per primo. Da questo momento in poi tutti si davano da fare per movimentare la serata .

    Don Gregorio Di Giovanni, il feudatario aveva ereditato la Masseria dai suoi genitori che era stata fondata nel 1758, anche se l’urbanizzazione delle campagne era avvenuta già nel ‘600. Come la maggior parte delle masserie pianesi La Quercia dei viceré era un’azienda agricola padronale, ricca, vitale e florida, non di grandissime dimensioni e il podere ne occupava la maggior parte. La casa colonica e i locali per gli addetti ai servizi, abitati dai proprietari-feudatari e dei massari stessi, si sviluppavano lungo un ampio cortile lastricato di ciacato siciliano, colore bianco, grigio scuro e rossastro, che disegnava curiose figure alate. Ai lati del cortile erano posti anche i granai, i depositi e le stalle. L’abbeveratoio in pietra, snodo centrale di tutte le attività, si trovava alle spalle degli edifici. La casa padronale, posta a primo piano sopra l'arcata d'ingresso, dominava tutta la masseria e presentava un tetto a doppio cornicione. Nei soffitti che erano stati dipinti con leggiadria, troneggiavano scene di caccia, di festeggiamenti, uno sposalizio, la vendemmia o l’aratura dei campi. Questi singolari affreschi trattenevano gli ospiti con il naso all’ insù perché era come se narrassero una storia.

    Si diceva che una volta Ingrazino, uno dei figli del massaro più anziano, entrato nel saloncino della casa padronale, fosse rimasto tanto colpito e affascinato dall’affresco raffigurante una battuta di caccia da rimanere seduto per terra per ore con la testa all’insù, fino ad addormentarsi. Tutti nella masseria lo avevano cercato per un intero pomeriggio e quando Donna Paolina, la padrona, lo aveva trovato addormentato sul pavimento e lo aveva svegliato, lui le aveva detto di aver fatto un sogno bellissimo: durante la battuta di caccia aveva catturato una lepre.

    La costruzione della masseria era in muratura portante con bellissimi archi in blocchi di pietra calcarea che con il passare del tempo avevano assunto tutte le sfumature del giallo, mentre le porte delle case del massaro e degli altri contadini, come i granai, avevano architravi di legno sovrastate da grate di ferro.

    Ciò che rendeva ricca La Masseria La Quercia dei viceré non erano tanto le dimensioni del podere su cui si estendeva, bensì il tipo di terra che produceva un vino ricco di personalità La Rubinia, dal colore rosso rubino carico, misto di profumi fruttati, floreali e speziati e con un gusto corposo, equilibrato ed armonico.

    Non meno importante era la storia stessa della grande quercia, che dominava all’interno del baglio e da cui la masseria aveva preso il nome. I cantastorie di un tempo raccontavano che questa quercia intorno ai primi anni del’600 era stata motivo di disputa tra due viceré, proprietari di due grandi appezzamenti di terreni adiacenti: la quercia era proprio a confine tra l’uno e l’altro ed entrambi la consideravano facente parte della proprio possedimento. Non fu mai stabilito a chi appartenesse e, comunque, dopo alcuni anni trascorsi a reclamare il loro personale diritto, anche nelle aule del tribunale, le terre furono abbandonate. Si disse che entrambi i viceré erano stati richiamati alla ragione e all’ordine perché i tentativi fatti per far valere i propri diritti erano stati così goffi da suscitare ilarità anche tra ceti più abbienti, nei salotti più esclusivi della Palermo bene dell’epoca. La grande quercia, nel frattempo, era cresciuta in tutta la sua possanza, aprendo le sue braccia ad ombrello ed irradiandosi in tutte le direzioni.

    La masseria era nata proprio intorno alla grande quercia e gli avi di Don Gregorio, memori della storia di questa Quercus Rubra, avevano deciso di chiamare loro masseria La Quercia dei viceré. La quercia era il fulcro di tutte le attività, così come dei momenti di riposo e di festa; per il rispetto che tutti le portavano era la Don dei viceré e nessuno trascurava mai di riposarsi alla sua ombra o consumare lì un pasto.

    Secondo Capitolo

    Veronica Palermo Donna Paolina Sclafani

    __________________________

    Era una serata di festa, di grande allegria, leggerezza e goliardia, di primi amori e di grandi o piccole passioni. Certo le fanciulle in cui era appena sbocciata la bellezza che rende leggiadra la loro età non passavano inosservate e Veronica Palermo era fra queste.

    Sin dal suo arrivo alla masseria, durante la raccolta dell’uva lungo i filari del vitigno, si era fatta notare per la maestria che dimostrava nella raccolta dei grappoli che pencolavano tra i colorati pampini. Tutta suo padre! Buon sangue non mente. Così l’apostrofavano gli altri contadini nel vederla andare avanti e indietro.

    Veronica Palermo mostrava più dei suoi diciotto anni, era più alta della media, aveva quei tratti tipicamente siculi che mostravano tutta la mediterraneità: grandi occhi neri con le pupille che brillavano per il colore intenso, folte sopracciglia nere scolpite, una fronte spaziosa, il naso aquilino, le labbra carnose e ben definite, bei lineamenti rifiniti ma non marcati, i lunghi capelli nero corvino raccolti in trecce e le dita delle mani sottili e tornite, come se fossero fusi per la lana.

    Quella sera i ndossava una camicia di lino bianco (linja) a maniche lunghe ed ampie, il cui merletto (petini) le ricopriva la parte superiore del seno, un corpetto (krahët) rosso ricamato senza maniche (xhipuni) che le sagomava il busto e che disegnava le sue linee sinuose, il seno rigoglioso, le spalle ben dritte ed un bel collo lungo. Le caviglie erano sottili e si intravedevano le gambe slanciate e tornite dall’ ampia gonna, lunga fino alle caviglie, di raso rossa arricciata in vita e con una fascia, ncilona, lavorata a fusello, ricamata con motivi floreali. Era il suo vestito della festa, quello buono e più di questo la sua famiglia non poteva permettersi. Glielo aveva cucito sua madre, Donna Caterina, proprio in vista della festa per la fine della vendemmia: era rimasta serate intere, seduta alla luce del lume per ricamarle quella gonna e quel corpetto, certo non con dell’oro (kurorë) o dell’argento, come era usanza, ma con del cotone comprato a scomputo, così come la stoffa della gonna e del corpetto, presi presso l’unica bottega del paese che mandava a ritirare le stoffe, le matassine di cotone e tutti gli altri strumenti utili al ricamo direttamente da Palermo. Sulle spalle indossava con eleganza una mantellina di velluto bordata da un nastro bianco e un fiocco sul capo (shkoka te kryet) con pochi petali ma perfettamente intonato al suo vestito.

    Vedo, proprio, che vi state divertendo Don Francesco! Sono felice di conoscere vostra moglie disse Don Gregorio Di Giovanni prendendo con delicatezza la mano della signora e inchinandosi per il saluto. Dopo una breve pausa aggiunse: Devo anche complimentami con voi per la vostra bellissima figlia! E’, già, in età da marito. Sicuramente, farà felice uno dei nostri paesani. Badate bene a chi la donerete! Scegliete bene! Un simile fiore non può che essere apprezzato e rispettato.

    Don Francesco Palermo era rimasto senza parole. Lusingato dall’ interessamento mostrato

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