Un fiume per amico
Di L'Angelino
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Anteprima del libro
Un fiume per amico - L'Angelino
Prologo
Il sole, in ottemperanza alla sua comanda, aveva fatto ciò che doveva fin dal primo mattino, e l’aveva fatto con diligenza e agostana prepotenza scacciando con decisione quelle nuvole bianche che di tanto in tanto facevano capolino. Ora però gli era toccato timbrare il cartellino e accompagnare la propria uscita di scena con l’ausilio di uno scenografico tramonto, tra l’altro responsabile di un persistente chiarore ostacolante quel naturale subentro della sera che in quel cambio della guardia pareva quasi intimorita e in soggezione, nonostante fosse un suo legittimo diritto.
Rico aveva fatto di corsa quei quattro chilometri che separavano il fiume dal paese, anche se, a ben vedere, non avrebbe avuto alcun motivo di affrettarsi, tanto nessuno lo aspettava, e di conseguenza nessuno si sarebbe preoccupato di quel ritardo. Quasi certamente suo padre non ci sarebbe stato, perché altrettanto quasi certamente lui sarebbe stato all’osteria, la sua seconda casa. O forse, da un po’ di tempo, addirittura la prima.
’Nesto non era un cattivo padre, nonostante quel riprovevole, se pur recente, vizio del bere. Era soltanto un uomo incapace di accettare la sua recente condizione di vedovo, che per la gestione del relativo e inevitabile dolore successivo la perdita dell’amata aveva fatto ricorso all’alcool, quel distillato d’uva capace di alterare i sensi e fargli ritrovare una, se pur illusoria, momentanea pace. Fortunatamente aveva quel che si dice il vino buono
, e questo non lo rendeva sgradito a Rino, e nemmeno alla comunità del paese, che lo riteneva, nonostante tutto, persona seria e gran lavoratore.
Rico, giunto a casa, aveva aperto la madia alla ricerca di un po’ di pane, ma lo aveva fatto senza convinzione, già sapeva che quella madia raramente recuperava la sua identità funzionale, e che ora avrebbe al massimo conservato i resti di qualche panino raffermo. Poco male, pensò, avrebbe fatto una capatina all’osteria, e avrebbe mangiato qualcuna di quelle uova sode che Ceschin, l’oste, proponeva in bella vista sul bancone di mescita, poi avrebbe approfittato dell’occasione per accompagnare a casa il padre, prevedendone la sua totale mancanza di autonomia.
Come sempre il viaggio di ritorno era stato un faticoso calvario, perché il ’Nesto non si reggeva in piedi, e se a tratti gli riusciva, per mantenere una linea retta era indispensabile l’aiuto del figlio. E cantava il ’Nesto, cantava a squarciagola, e poi piangeva e rideva, e cammin facendo raccontava qualcuno dei suoi aneddoti di guerra che Rico conosceva a memoria e che dubitava riguardassero il padre in prima persona, visto l’incarico di cuoco che il ’Nesto aveva ricoperto sotto le armi, e che la trincea non l’aveva mai vista.
Accompagnare il padre nella sua camera da letto era sempre un momento di sconforto per Rico, la Madonnina in plastica con il lumino e la gondola veneziana sul comò gli ricordavano la madre e il tempo in cui quella casa odorava di pulito e profumava di fiori. Anche i mobili e le suppellettili parevano in lutto, quasi consapevoli dell’assenza di chi ne aveva avuto da sempre amorevole cura.
Infine, dopo aver tolto le scarpe al genitore, e solo quelle per salvaguardarne la dignità, il ragazzo si ritirava, non prima però di aver dato un ultimo sguardo al congiunto addormentato, ed era uno sguardo amorevole, perché Rico conosceva la ragione di quella necessità di bere, e poi perché sapeva che al mattino successivo quell’uomo avrebbe ritrovato il giusto equilibrio e avrebbe aperto la falegnameria in perfetto orario, e insieme avrebbero costruito sedie e sgabelli come sempre, onorando gli impegni come si conviene.
I
La settimana era ormai finita; l’indomani, domenica, Rico l’avrebbe trascorsa al fiume, come sempre faceva a prescindere dalla stagione e dal clima, e l’avrebbe fatto in compagnia del suo inseparabile amico Cianin, un coetaneo con il quale aveva condiviso asilo, scuola dell’obbligo e ogni genere di corbellerie giovanili.
Cianin, nonostante i suoi diciassette anni, era già un pescatore di professione, e il tempo che trascorreva in barca era superiore a quello trascorso sulla terraferma, ma quella era la sua vita, e per niente al mondo avrebbe voluto rinunciarvi. Non aveva avuto una esistenza facile, il Cianin. Il padre, un pescatore di lamprede, era stato uno dei primi caduti in quella guerra di trincea terminata soltanto due anni prima, e la madre, una donna fragile, poco dopo la morte del marito aveva accettato la compagnia di Severino, un losco personaggio che avrebbe dovuto garantire a lei e al piccolo Cianin una almeno dignitosa sopravvivenza, ma così non era stato. Quell’uomo era un individuo malvagio, pescatore di frodo e bombarolo
, ubriacone e manesco, non passava giorno che non sfogasse la sua rabbia nei confronti del mondo intero a spese della vedova e di suo figlio. Questo almeno era quanto succedeva fino a qualche tempo prima, perché ultimamente l’uomo pareva sparito dalla faccia della terra, con gran sollievo di Cianin e sua madre.
Rico amava quella vita di fiume, quella dei pescatori, quella degli addetti ai mulini da fiume e sopratutto quella dei navaroli, i marinai d’acqua dolce che trasportavano materiali, animali e persone sulle grandi chiatte che discendevano e risalivano quella via d’acqua con qualsiasi tempo, eccezion fatta per le volte in cui il cambio d’umore del grande fiume non permetteva la navigazione. E poi c’erano quei punti di sosta disseminati lungo le rive, generalmente in prossimità dei porticcioli dai quali era possibile traghettare sull’altra sponda. Si trattava di costruzioni in legno, generalmente abusive, tutte affiancate da pergolati sormontati da glicini o viti da uva fragola e corredati da tavoli e panche in legno povero, e proprio sotto quelle vegetali coperture si potevano gustare le fritture di pesce appena pescato innaffiandole con il vino nuovo da poco imbottigliato. E si faceva pure musica, perché un mandolino o una fisarmonica apparivano immancabilmente come per incanto, e allora si cantava, tutti insieme, e in quel conviviale momento fatiche e preoccupazioni lasciavano il posto a piacevoli sensazioni e momentanea spensieratezza.
I passi sul selciato erano l’unico rumore percepibile nel paese ancora addormentato, ed erano quelli di Rico, che avrebbe presto intercettato la scorciatoia attraverso i campi che permetteva di raggiungere il fiume in breve tempo. Soltanto un leggero chiarore lasciava presagire che la notte fosse prossima al ritiro e che la nascita del nuovo giorno era un’inequivocabile imminenza. Quello era anche il momento in cui i pesci, ancora in preda alla stupidera da sonno, nuotavano confusi alla ricerca della colazione, giustificando così la levataccia dei pescatori che di quella confusione avrebbero approfittato.
Cianin aveva già messo la barca in acqua e sistemato gli attrezzi. Adesso era il momento della preparazione delle esche, operazione che un buon pescatore si guarda bene dal rendere di pubblico dominio, perché, come gelosamente sostengono i vecchi pescatori, ha da essere segreta
.
L’acqua del fiume scorreva nel più assoluto silenzio e con la calma di chi ha trascorso una notte tranquilla. E pareva uno specchio. Il cielo, le nuvole e gli alberi a protezione delle sponde si riflettevano sdoppiando la visione, e quella vista era per Rico l’immancabile richiamo al filosofico pensiero di Cianin, che riteneva di essere un uomo ricco, perché suoi erano quel cielo, quegli alberi e quel fiume, e lui poteva disporne a piacimento, naturalmente con il rispetto che si conviene.
La barca del Cianin, in realtà, non era di sua proprietà. Apparteneva al Mènico, un maturo pescatore ormai in pensione, e l’affitto preteso