Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Petrarca e l'idea di poesia: Una monografia inedita
Petrarca e l'idea di poesia: Una monografia inedita
Petrarca e l'idea di poesia: Una monografia inedita
E-book324 pagine4 ore

Petrarca e l'idea di poesia: Una monografia inedita

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Pochi sanno che Mario Pomilio, narratore-pensatore autore di veri e propri romanzi-saggio quali "Il quinto evangelico" o "Il Natale del 1833", negli anni giovanili intraprese la carriera accademica. Allievo della Normale di Pisa, dove si era laureato con una tesi su Pirandello, fu borsista a Bruxelles e a Parigi, dove tra il 1950 e il 1952 si dedicò a un’ambiziosa ricerca sull'estetica del furor e sulla natura divina dell’ispirazione poetica dal Medioevo all'età moderna. All'interno di questo vasto progetto nacque lo studio su Petrarca che qui si pubblica: non del tutto rifinito, ma ampio e solido, raggiunse la misura di una robusta monografia. Il saggio sorprende per l’originalità e la lungimiranza con cui il trentenne autore esplorava l’estetica di un poeta-pensatore. Negli scritti latini Petrarca realizzò un’originale sintesi di valori classici e cristiani, conciliando Cicerone con Lattanzio: la poesia, prima riduttivamente intesa come ornamentazione retorica, diventava così strumento privilegiato per svelare la verità e accedere a una superiore sapienza. Polemizzando con lo scientismo tomista e la cultura monastica, che attribuivano alle lettere una funzione ancillare, Petrarca proclamava la dignità etica e la potenza speculativa della poesia, inaugurando precocemente la luminosa stagione dell’umanesimo cristiano. Il saggio rimase inedito, ma la riflessione sull'estetica petrarchesca, e più in generale sul senso della letteratura e sulla sua intrinseca serietà, fu determinante nella “conversione” di Pomilio: fu anche in virtù di questa esperienza che egli riconobbe la propria vocazione, nascendo a sé stesso come scrittore senza dismettere mai l’abito dello studioso e del pensatore.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2017
ISBN9788838246166
Petrarca e l'idea di poesia: Una monografia inedita

Correlato a Petrarca e l'idea di poesia

Ebook correlati

Critica letteraria per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Petrarca e l'idea di poesia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Petrarca e l'idea di poesia - Mario Pomilio

    Gibellini

    ​INTRODUZIONE

    CECILIA GIBELLINI

    1. Ragioni di un recupero

    Perché pubblicare uno studio inedito di Mario Pomilio, rimasto nel cassetto per oltre sessant’anni? Alla domanda, più che legittima, si può dare più di una risposta. Innanzitutto perché si tratta dell’opera di uno dei maggiori narratori del Novecento italiano, che fu anche una figura luminosa di intellettuale controcorrente, poi perché arricchisce il mosaico della sua saggistica letteraria colmando il vuoto che curiosamente ha lasciato nei suoi scritti editi tra Dante e Boccaccio. Ma questo scritto di Pomilio merita considerazione anche per l’originale interpretazione del pensiero estetico di Petrarca e per il metodo seguìto dal giovane studioso, che fonda l’intero discorso su concreti riscontri testuali e riesce a far lievitare una sintesi critica di ampio respiro. Ultima ma non meno significativa ragione che rende opportuno il recupero di questo studio petrarchesco è il suo ruotare intorno al riconoscimento del valore conoscitivo della poesia, della capacità del poeta di cogliere la verità e di dialogare spiritualmente con il lettore, idee che favorirono la conversione di Pomilio dall’attività di studioso a quella di narratore animato da una forte tensione etico-conoscitiva. Egli non mancherà di mettere a frutto l’esperienza di lettura e interpretazione dei documenti del passato nei suoi romanzi misti di storia e invenzione, come Il quinto evangelio e Il Natale del 1833. Insomma, cimentandosi con Petrarca, ingaggiando con lui una lotta disperata, come Giacobbe con l’angelo, Pomilio usciva sconfitto come accademico, ma nasceva a se stesso riconoscendo la propria vocazione di scrittore.

    2. La genesi: Pomilio tra Bruxelles e Parigi

    Passato da Orsogna, in Abruzzo, dove era nato nel 1921, a Lanciano e ad Avezzano, Pomilio era stato ammesso, dopo il Liceo classico, alla Scuola Normale Superiore come studente di lettere dell’ateneo pisano. Interrotti gli studi per il servizio militare, aveva partecipato dopo l’8 settembre al movimento resistenziale, nelle file del Partito d’Azione, continuando a dedicarsi alla politica, con i socialisti, fino al 1948: dopo la sconfitta del Fronte Popolare interruppe infatti la militanza civile, pur rimanendo fedele agli ideali di un socialismo umanitario sempre più coniugato con le ritornanti «certezze cristiane» [1] . Dopo la rigorosa preparazione universitaria, si era laureato a Pisa nel 1945, discutendo con Giovanni Macchia una tesi sulla narrativa di Pirandello. Entrato presto nella scuola, si era trasferito nel 1949 a Napoli come insegnante di lettere nei licei.

    Quasi trentenne, ottiene dal Ministero degli Esteri due borse di studio che lo portano a Bruxelles, oltre che nelle biblioteche di Gand, Liegi e Lovanio, nell’anno accademico 1950-51, e in quello successivo a Parigi (1951-52). Egli ha concepito un ambizioso progetto di storia dell’estetica che si estende dal Medioevo e dall’Umanesimo italiano al Rinascimento francese, per spingersi poi fino alle soglie del Romanticismo, seguendo le piste del platonismo, del furor ispirativo, della giustificazione della poesia e della sua esaltazione come veicolo di conoscenza e strumento di civiltà [2] . Le sinopie di questo grandioso affresco sono tracciate in due dattiloscritti che Pomilio allegò alle domande per quelle borse di studio, e in due lettere inviate da Bruxelles nel maggio-giugno 1951 a Dora Caiola, sua moglie dal settembre seguente. Da questi documenti si ricava che a Bruxelles, nel 1950-51, Pomilio aveva abbozzato un lavoro sull’estetica di Petrarca, ripreso poi in seguito, probabilmente al suo rientro in patria, e comunque entro il 1952 [3] .

    Tornato a Napoli nel ’52, riprende l’insegnamento di lettere nei licei e poi quello di poetica e drammatica nel Conservatorio di San Pietro a Maiella, abbandonando progressivamente l’intenzione di mantenere qualche contatto con l’università partenopea. Viene così maturando «la sua crisi di uomo di studio, che, negli anni della letteratura come documento, del realismo socialista, nel ristagno socio-politico del momento storico, è in cerca di una personale soluzione umana e artistica, che non può appagarsi nella sola letteratura di ricerca, ma ha bisogno di un suo naturale sbocco creativo» [4] . Abbandonate le ricerche accademiche, Pomilio si applica a un’attività pure volta a traguardi conoscitivi e spirituali, tanto attraverso la scrittura narrativa, quanto attraverso la riflessione sulle opere altrui. Manifesta così, secondo le parole di Carmine Di Biase, il bisogno «di costruirsi un’estetica, convinto che uno scrittore dev’essere presente a se stesso, operando anche criticamente, e considerando un grosso limite dei nostri letterati il non avere una coscienza e un’attività anche critica». Agli studi saggistici in senso lato, dei quali raccoglie i risultati in Contestazioni (1967) e Scritti cristiani (1979), affianca in varie sedi studi specificamente letterari che si stanno ora riunendo in un volume a cura di Mirko Volpi.

    3. L’autografo

    Il presente volume rende noti, per la prima volta e nella loro interezza, i risultati di quella lontana ricerca sulla poetica di Petrarca, robusta seppure mai completata. Come precisato dalla Nota filologica, i manoscritti relativi a quel lavoro furono riuniti in sei fascicoli dalla signora Dora, non si sa se prima o dopo la morte del marito, la quale ne trasse delle fotocopie cui appose numeri romani progressivi. Ho tratto il testo da quei plichi, che solo per comodità ho chiamato capitoli, rispettandone la successione, che potrebbe essere stata suggerita dall’autore, testo che ho riscontrato sugli autografi oggi conservati nel Fondo manoscritti dell’Università di Pavia, nel quale sono riuniti e disposti in altro modo.

    La diversa disposizione della materia nei tanti schemi tematici lasciati da Pomilio, alcuni dei quali qui trascritti nella Nota al testo, che prevedono anche la trattazione di temi non sviluppati nelle pagine a noi pervenute, rende evidente che il saggio configurato nei sei faldoni ha una forma provvisoria e una struttura in divenire. Nella Nota al testo segnalo che il sesto capitolo, quello di maggiore entità materiale, differisce fortemente dagli altri nell’aspetto, perché rimasto a uno stadio di elaborazione più arretrato, e anche nell’esposizione dei concetti, più densa e serrata – in questa sezione sono molte e più brevi le unità concettuali in cui ho diviso il labirintico saggio per orientare il lettore. Si può dunque pensare che il sesto faldone racchiuda una redazione precedente e sintetica dell’intero saggio, dalla quale Pomilio potrebbe avere attinto i motivi trattati più distesamente nelle altre parti. Ma questa ipotesi sembra contrastare con il fatto che vi siano toccati temi appena sfiorati altrove – tali il confronto di Petrarca con Boccaccio e Mussato, e il richiamo dei Trionfi –, temi menzionati anche nell’indice e negli schemi dell’opera complessiva stilati da Pomilio. Sull’ultima carta del faldone vi è poi una serie di appunti disordinati che sembrano preludere a una continuazione non realizzata; e l’ampia riflessione sull’ Africa, essenziale nell’economia dell’intero saggio, è affidata da Pomilio a un gruppo di carte, stese evidentemente in precedenza, che inserisce circa alla metà del capitolo con chiari segni di penna, dimenticando di correggere l’incongruenza cronologica dell’ incipit: «Se ci siamo così a lungo fermati sull’ Africa».

    Costruita su una ricca inventio di dati e di idee, la monografia petrarchesca non è rifinita e neppure finita, bisognosa di un perfezionamento dell’ elocutio che l’autore aveva iniziato a fare qua e là, riscrivendo alcune parti. Egli lascia indefinita la dispositio, ponendo un problema ecdoticamente spinoso, che ho superato seguendo l’ordine numerico dato ai fascicoli dalla signora Dora, forse realizzando o ricordando le intenzioni del marito.

    Le singole parti del saggio si presentano dunque come pannelli di un polittico ancora da comporre, ampie tessere di un mosaico in sé compiute, che sarebbero combinabili in disegni diversi e comunque sensati. Ben calza a questo lavoro su Petrarca l’immagine di un edificio esagonale al quale si può accedere da uno qualunque dei sei ingressi, senza che il risultato complessivo della visita sia compromesso. Sicché si addice perfettamente al tragitto mentale dell’autore quanto egli scrive di Petrarca, che non procede linearmente ma per intrecci tra grandi nuclei problematici e concettuali, mano a mano ampliati e fortemente interrelati. Nel paragrafo 2.6, Pomilio ribadisce che per ricostruire l’estetica del poeta conviene «isolare i grandi temi» per «esaminarli separatamente» perché egli non cercò mai «di ridurre a unità i motivi sparsi delle sue pagine», e perché la diversità delle fonti cui «volta a volta si riferiva» lo spingeva «ora in una direzione ora nell’altra»; infine, perché l’umanesimo che fece propri quasi tutti i risultati della speculazione petrarchesca «li lasciò vivere e svilupparsi separatamente, senza tentare se non dall’esterno una sistemazione». Pomilio ripete il concetto in 6.1:

    I motivi del Petrarca si inseriscono sempre l’uno nell’altro, s’addizionano l’uno all’altro in un processo assai vario, e il voler dedurre, da esigenze isolate, tutt’intero un sistema, porterebbe a falsare interamente il significato del suo pensiero.

    Petrarca avanza, insiste Pomilio, «per via di addizioni successive», senza preoccuparsi «di riordinare e sistemare quanto era già acquisito», ma allargando man mano «gli orizzonti e gli interessi culturali». Ogni tentativo di esporre schematicamente il suo pensiero urta contro la sua difficoltà di armonizzare quanto resta «apparentemente contraddittorio», che «si spiega soltanto tenendo presente la doppia tradizione, quella classica e quella patristica, che in lui confluisce e tenta di fondersi». E conclude:

    Tuttavia com’è possibile ritrovare presso di lui un problema dominante, quello della giustificazione della poesia, e un tono predominante, quello polemico, così è possibile isolare alcuni motivi fondamentali, sui quali e attorno ai quali il suo edificio si costruisce.

    Sono affermazioni che illustrano alla perfezione l’ accessus ad auctorem praticato da Pomilio, e danno ragione della struttura costitutivamente mobile del suo saggio: quella più confacente all’oggetto trattato.

    4. Struttura mobile, saldo edificio

    Pomilio costruisce un edificio solido ancorché incompleto, esponendo e ribadendo idee chiare, solidamente agganciate a passi-chiave di Petrarca e delle fonti cui questi si appoggiava. Una delle porte da cui si può entrare è quella dei classici antichi e della renovatio vagheggiata da Petrarca, ovvero quella dei patres cristiani, specialmente Lattanzio e Macrobio, quest’ultimo associato a Cicerone nella fondazione di un’estetica conciliativa e innovativa. Oppure si può seguire Petrarca nelle polemiche, da un lato, contro gli averroisti contemporanei, dall’altro contro la cultura medievale incarnata dai detrattori della poesia, ispirati a uno scientismo pragmatico.

    Si entra dunque in un poliedro di terso e solido cristallo, in cui una faccia riflette la luce dell’altra e viceversa. Così, il discorso avviato nella prima sezione con la riflessione sull’allegoria potrebbe ragionevolmente aprirsi con l’idea del ritorno ai classici della II, oppure muovere altrettanto bene dalla III, che illustra la dialettica tra sentimento cristiano e passione umanistica quale tensione tra ricerca d’interiorità e sogni di gloria. Il IV capitolo, crocevia tra il versante medievale e umanistico del pensiero petrarchesco, e compiuta illustrazione del concetto di poesia come humanitas, potrebbe figurare in apertura o in chiusura del saggio, ma ben si colloca anche nel suo centro, perché fa da ponte al discorso del V, dedicato al furor poetico, tema precipuo del progetto di ricerca sopra ricordato sulle vicende dell’estetica dell’entusiasmo dagli antichi ai moderni. Come il IV capitolo, il V offre in nota dettagliate indicazioni bibliografiche, che sono invece approssimative e abbreviate negli altri capitoli (dato che suggerirebbe di collocare questa coppia prima degli altri capitoli). Al VI, della cui peculiarità si è già detto, la posizione in coda si addice, oltre che per il carattere di non-finito, per il percorso sinuoso della trattazione, che se non contenesse ampi riferimenti a quell’ Africa la cui importanza è capitale nella definizione dell’estetica di Petrarca, potrebbe collocarsi in appendice; ma il fatto che riprenda o piuttosto anticipi motivi trattati nelle pagine precedenti, specialmente nel capitolo I, potrebbe consigliare una posizione iniziale o centrale.

    Ho invece posto in appendice (Appendice I) il contenuto di un autografo di tema petrarchesco del fondo pomiliano conservato a Pavia, che non può considerarsi un capitolo del saggio sull’estetica di Petrarca perché tratta della sua fortuna e dell’intreccio indissolubile tra i testi latini e quelli volgari. Concentrandosi sulle Rime e sui Trionfi, esso integra e illumina le pagine qui riprodotte, nelle quali Pomilio mostra più volte di volersi dedicare al Petrarca volgare. Lo scritto getta luce anche sul Pomilio scrittore là dove insiste sulla polarità tra l’amore per Laura e per il lauro poetico, da un lato, e dall’altro l’amore per Dio, prefigurando la drammatica tensione del Natale del 1833, romanzo in cui farà rivivere il doloroso sgomento del credente Manzoni, che al suo «terribile» Bambino Gesù chiede ragione della morte dell’amata Enrichetta.

    5. Sul metodo: gli appoggi testuali

    La difficoltà di una resa ecdotica inoppugnabile non pregiudica la fruibilità dello studio petrarchesco di Pomilio, cui conviene, benché frammentario, il nome di saggio per l’ampio respiro e la stringente argomentazione.

    Per enucleare concetti di carattere generale, Pomilio ricorre con singolare abbondanza e puntigliosità, nel testo o in nota, a citazioni di opere di Petrarca e dei suoi precursori classici e cristiani. Tra i latini domina Cicerone, richiamato una quarantina di volte, specialmente per la Pro Archia, una celebrazione del valore della poesia che aveva alimentato il pensiero di Petrarca, il quale ne aveva riscoperto un esemplare nel 1333 a Liegi, in quel Belgio in cui Pomilio risiedeva mentre lavorava al saggio. Cicerone è citato anche per altre opere: il De divinatione e il De inventione, veicoli dell’idea della soprannaturale creatività della parola, il De Oratore e l’ Orator, confacenti alla disquisizione sull’eloquenza, il De officiis funzionale al riconoscimento di un carattere etico all’attività letteraria e le Tusculanae disputationes per quello conoscitivo. Dato l’oggetto della sua ricerca, Pomilio non può prescindere dalla Poetica di Aristotele, citato mediatamente come Platone, ma anche direttamente in greco, e neppure dall’ Ars poetica di Orazio, convocato anche per le Odi e le Satire. Non possono mancare rinvii ai due auctores privilegiati dal Medioevo, Ovidio innanzitutto, e Virgilio. E se Svetonio interessa per il De poetis, richiamato nei paragrafi sul concetto di gloria presso i gentili, la riflessione di Petrarca sul potere rasserenante o consolatorio della poesia induce a richiamare più volte Seneca. Più sporadiche le menzioni di altri autori, quali Lucrezio e Persio, mentre Ennio è evocato senza appoggi ai suoi versi superstiti ma per quanto ne scrive il poeta dell’ Africa.

    Gli autori cristiani più citati sono Lattanzio e Macrobio, i pilastri su cui, secondo Pomilio, Petrarca costruisce la sua sommessa ma radicale rivoluzione estetica. Collocando Petrarca, intento a recuperare l’eredità classica al nuovo sapere cristiano, nel solco di Lattanzio, retore convertito, riporta passi delle Divinae institutiones, uno dei quali riconosce la capacità di vedere la luce divina ai poeti e ai filosofi pagani che non conobbero la verità. A questo «Cicerone cristiano» associa Macrobio – la cui adesione al cristianesimo è oggi controversa –, per il suo Commentarium al ciceroniano Somnium Scipionis, testo che deve la sua fortuna medievale all’idea pre-cristiana del premio immortale riservato ai benefattori della patria e ai campioni di virtù. Ripetuto è anche il rinvio alle Ethymologiae di Isidoro di Siviglia, che offrono il destro per riscattare le favole antiche e toccare la questione mitologica per la quale entrano in gioco anche Giovanni di Salisbury e il Boccaccio delle Genealogie. Agostino, il pensatore prediletto da Petrarca e collocato al centro del paragrafo sull’interiorità, prevale su Gerolamo, menzionato nelle righe che trattano il tema del valore letterario alla Bibbia, per il quale è richiamato anche il De schematis et tropis Sacrae Scripturae di Beda. Le fitte citazioni della Summa di Tommaso servono invece a definire la nozione egemone di allegoria medievale, contro la quale si indirizza il pensiero di Petrarca.

    Ma l’edificio di Pomilio si appoggia più massicciamente, come è ovvio, sulle parole del Petrarca latino, in prosa e in versi. Dell’opera in cui il poeta ripose la sua speranza di gloria, l’ Africa, sono riportati passi del II, III e soprattutto del IX libro, che definiscono un’estetica in divenire. Legato a questo poema incompiuto – messo in stretto rapporto con il Bucolicum carmen, specialmente (ma non solo) per l’egloga Dedalus –, è il rinvio alle Historiae di Tito Livio, che vi sono rielaborate e ampliate.

    Pomilio non manca di citare la Collatio laureationis, chiave di volta nella crescita dell’autocoscienza poetica di Petrarca, e di rinviare al Privilegium laureae, che lui considera erroneamente di diretta paternità petrarchesca. E a corroborare l’idea che la fama poetica è garantita dal ricordo dei posteri, sono evocati i Rerum memorandarum libri, specie il II e il IV, e la Praefatio del De viris illustribus.

    Per documentare la maturata consapevolezza di un’estetica umanistica da parte di Petrarca, Pomilio rinvia anche ai suoi interventi polemici, cui attribuisce un ruolo decisivo. Si pensi alle citazioni dal De sui ipsius et multorum ignorantia (in particolare di IV, 32), e soprattutto delle Invective contra medicum, richiamate ripetutamente nel ventaglio dei primi quattro capitoli e con maggiore insistenza nel III. Segnalate sono anche le parti polemiche delle Epystole metrice, le più citate quella diretta al cardinal Bernardo (II, 3) e ancor più quella contro Zoilo (II, 11 nell’edizione da lui usata, II 10 in quella corrente). Abbondanti sono pure i rinvii alle Familiares, specialmente alla X, 4 e alla X, 5 dirette al fratello Gherardo; più raro il ricorso alle Seniles, tra le quali spiccano la I, 5 e la II, 1, indirizzate a Boccaccio. Il De remediis utriusque fortune è richiamato per un solo passo (I, 9), e generici sono i pochi cenni al Secretum. Il De vita solitaria, opera assegnata convenzionalmente al versante medievale della cultura petrarchesca, viene interpretato da Pomilio in chiave personale, per cui la predilezione per la vita solitaria rappresenterebbe una strategia conoscitiva connessa all’idea che la letteratura persegua la sapienza.

    Il numero consistente dei testi latini citati rende ancor più sorprendente la rarità dei riferimenti alle opere volgari di Petrarca, in un saggio inteso a ricostruirne la concezione estetica. Non bastano a giustificare l’esiguità il carattere inventivo e la forma verseggiata, comune al Bucolicum carmen, alle Metrice e specialmente all’ Africa, testi dai quali Pomilio trae spunti utili per enucleare la poetica petrarchesca, spunti che avrebbe potuto rinvenire anche nelle Rime, a partire da quella proemiale, «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono». Marginali restano le osservazioni sul sonetto «Passa la nave mia colma d’oblio» ( RVF, 189), che servono a indicare il carattere metaforico del vascello, per contrapporlo a quello realistico o visionario del Purgatorio dantesco. Ancora più corsive sono le menzioni di altri quattro sonetti e di una canzone: «La gola e ’l sonno et l’otïose piume», richiamato ad attestare l’identificazione, frequente in Petrarca, tra poesia e filosofia ( RVF, 7); «Arbor victorïosa triumphale», collegato all’orazione per la laurea in Campidoglio nella comune celebrazione del potere glorificante dell’alloro ( RVF, 263); «S’i’ fussi stato fermo a la spelunca», citato come esempio di platonismo in chiave cristiana ( RVF, 166); infine «Spirto gentil», canzone cui Pomilio accenna in nota, a proposito di un analogo passo dell’ Africa sul destino di Roma ( RVF, 53).

    Ma poteva Pomilio scordarsi dell’opera volgare di Petrarca, mentre studiava nel latino la sua concezione di poesia? Certamente no. In un indice da lui stilato, riferibile a una prima stesura del saggio [5] , figura una sezione dedicata ai versi italiani, «Sonetto La gola e il sonno. Trionfo della Fama. Sapienza e ispirazione», un motivo che ricompare in un’altra sua scaletta tematica, «I Trionfi come duplicato dell’atteggiamento delle Rime», nonché nel sommario posto in capo al capitolo IV: «I sapienti nel Trionfo della Fama». Delle Rime e dei Trionfi l’autore parla anche in un appunto steso sul verso di due fogli del saggio, paragonando il simbolismo di Petrarca a quello di Dante e di Cavalcanti [6] . Da questo si ricava che l’esiguità dei cenni ai versi volgari nel saggio sull’estetica petrarchesca è attribuibile alla sua incompiutezza. D’altra parte anche nel ricordato scritto qui posto in appendice – perché volto a definire il mondo affettivo e mentale di Petrarca e non a circoscrivere la sua idea di poesia –, Pomilio insiste sull’inscindibilità delle sue opere latine e volgari. Nel Fondo manoscritti pavese una serie di carte testimonia l’intenzione pomiliana di procurare un’antologia commentata, composta da ventitré testi del Canzoniere e da un passo dei Trionfi, per cui aveva già

    steso il commento di tre sonetti e due canzoni [7] .

    6. La tesi: Petrarca profeta dell’umanesimo cristiano

    Confermando la fluidità strutturale del saggio ma anche la sua solidità di prospettiva, proviamo a sintetizzarne la tesi. Riunendo le disiecta membra depositate da Petrarca negli scritti latini, Pomilio ricostruisce la sua idea di poesia che, a dispetto dell’apparente affinità con l’estetica medievale, gli fa compiere un passo pionieristico in direzione dell’umanesimo. I cenni contenuti nella parte realizzata del saggio all’eredità lasciata a Boccaccio, agli umanisti, alla cultura rinascimentale e al nuovo programma elaborato in quella stagione, sono importanti quanto le precisazioni sui rischi di confondere gli elementi di modernità di Petrarca con tratti della sensibilità moderna a lui estranei. Pomilio sottolinea che un elemento determinante del suo rinnovamento teoretico è rappresentato dalla presa di distanza dall’allegoresi medievale, anche dantesca, fino ad allora egemone, dal polisenso allegorico e dalla contrapposizione dell’allegoria in factis dei testi sacri a quella in verbis dei testi poetici, relegati su un gradino più basso. Petrarca riscatta l’allegoria verbale e la metafora, velamen che aiuta a intravedere la verità, a evidenziarla sensibilmente: di conseguenza esse non si riducono a espedienti della retorica, una delle artes pragmatiche, ma diventano consustanziali alla poesia, intesa nel senso più nobile di euresi di verità e ascesi sapienziale. Per maturare questa idea, osserva Pomilio, Petrarca risale alla patristica, in particolare a Lattanzio e a Macrobio, che lo aiutano a svincolarsi dall’allegorismo tardo-medievale e a sdoganare, per così dire, le fonti classiche del suo pensiero, tra le quali spicca Cicerone, come si è visto. Pomilio non trascura gli scritti polemici di Petrarca, le Invective contra medicum, l’epistola metrica contro Zoilo e quella al cardinal Bernardo, tappe di una consolidata consapevolezza dell’alto seggio in cui Petrarca poneva la letteratura, non più subordinata al sapere scientifico né ancella di valori estrinseci. E non dimentica l’impegno creativo e riflessivo dell’ Africa, che rappresenta, se non il culmine, un traguardo importante del tragitto petrarchesco.

    Se la renovatio della lezione classica ha offerto a Petrarca un importante sussidio alla presa di distanza dalle idee circolanti, la visione cristiana è servita a far lievitare l’ansia di immortalità che negli antichi si manifestava soprattutto attraverso la speranza di ottenere la fama imperitura della virtù consacrata dalla bellezza artistica. Evocando le figure di Orfeo e di Omero, fondative di miti di secolare durata, Pomilio fa di Petrarca l’alfiere di un riscatto del patrimonio classico e della mitologia, attraverso la distinzione delle fabulae insensate dalle finzioni sapienziali, recuperando la figura originaria del poeta come vate o profeta, che apre la strada, per intenderci, alla linea Vico-Foscolo. La visione cristiana integra e arricchisce quella classica, sostituendo la laurea sempreverde della gloria poetica, oggetto precipuo dei testi per l’incoronazione in Campidoglio, con la gloria celeste, che supera pure la caduca Fama post mortem, erosa dal Tempo. Ma Petrarca, osserva Pomilio, non manca di enucleare e potenziare la convinzione che una componente divina sia insita già nella concezione ciceroniana dell’ispirazione poetica. In questo modo egli inscrive Petrarca nella linea di umanesimo cristiano che vedeva nell’eredità classica l’altro Antico Testamento, l’altro preannuncio di verità che avrebbe raggiunto la pienezza del senso con il messaggio evangelico. Pomilio dedica alcune pagine al furor ispirativo, serpeggiante nell’estetica antica e destinato a fluire carsicamente fino all’età romantica: quello che intendeva studiare e di cui restano, tra le sue carte pavesi, materiali preparatori, che attestano un particolare interesse per il ruolo di Mussato, Salutati, Ficino, Pico, Poliziano, Bruni, delle poetiche cinquecentesche, ma anche di Vico, Monti, Foscolo, Leopardi, Manzoni. Acquista allora un rilevo particolare la valorizzazione dell’ ingenium nel senso etimologico, innatistico, e la conseguente svalutazione della poetica dell’artificio, della techne fondata su una retorica scorrettamente intesa come disciplina pratica.

    L’idea della poesia come humanitas, espressione di una verità che abita agostinianamente in interiore homine e testimonia quanto di divino c’è nell’uomo, rappresenta dunque il nucleo gravitazionale del saggio pomiliano, racchiuso nel capitolo quarto, centrale anche nella collocazione, cerniera tra il versante dei precedenti, prevalentemente orientati sulle auctoritates cristiane, e quello dei successivi, giocati sul confronto con le poetiche classiche. Lungi dal configurare un passaggio rettilineo dal polo medievale a quello umanistico e dall’universo cristiano a quello classico, Pomilio insiste sulla dialettica dei due scenari mentali: il progressivo distacco dall’allegoria non sfocia nel rifiuto delle istanze etiche a vantaggio di quelle estetiche, ma comporta una conciliazione della poesia concepita come gloria dalla cultura classica, e la poesia come interiorità, propria della dimensione cristiana. Il capitolo è proprio bipartito dall’autore nei paragrafi «A. L’interiorità» e «B. La gloria», diciture che indicano come l’opzione del modello

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1