Protocollo Genesys
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Anteprima del libro
Protocollo Genesys - Mauro Barbarito
IX
I
La sveglia era impostata alle 7.00, come tutte le mattine del resto. Ma anche questa volta venne anticipata dalla voce del piccolo, che lo chiamava dalla culla accanto al letto, ricordandogli che una nuova settimana era iniziata. Seguendo distrattamente un copione che si riproponeva infinitamente uguale, quasi avesse memoria di quella sola routine, Max prese il bambino tra le braccia, sorrise al suo sguardo ancora assonnato e lo adagiò nel letto accanto alla madre, prima di andare in bagno.
Accese il telefono, lesse distrattamente qualche notizia, diede, sbuffando, una rapida occhiata alle mail, quindi si diresse verso il lavabo. Ancora una volta rivide quegli stanchi occhi nocciola allo specchio, si lisciò la barba arruffata, si passò una mano tra i capelli, quasi ad assicurarsi che fossero ancora lì, fece un profondo respiro e si spogliò.
Anche la doccia calda non era altro che una parte dell’automatismo che governava quegli ultimi mesi della sua vita, lo scroscio dell’acqua accompagnava i suoi pensieri, ben lontani da quella cabina, rapiti da un’angoscia sottile, fredda, inesorabile. Assuefatto a quella sensazione di impotenza, come una tigre da troppo tempo in gabbia, sbuffò profondamente, con lo sguardo fisso sulla parete, mentre con la mano cercava l’accappatoio accanto al termosifone. Asciugatosi, si rivestì e tornò in camera da letto, al buio prese il cronografo e l’anello sul comodino e li indossò, diede un bacio a sua moglie, accarezzò il bambino, prese la sua borsa ed uscì.
Accostò l’auto davanti al bar, prese il portafoglio dal sedile del passeggero e si diresse all'interno. In quel locale grigio e smorto, un paio di avventori consumavano in silenzio la colazione. 《 Il solito, Marlboro e un gratta e vinci》 .
Il commesso gli allungò il pacchetto e un biglietto e prese le monete, senza mai guardarlo, mentre era intento ad avviare i terminali che di lì a poco sarebbero stati presi d’assalto da una schiera di pensionati alla ricerca di un modo per passare la giornata, magari giocando qualche biglietto alla lotteria istantanea, nella speranza di vedere la vecchiaia con colori diversi, con qualche gioia e qualche sicurezza in più. Max poggiò il biglietto sul bancone, cominciò a grattare con una moneta lo spazio da gioco, si concesse qualche istante per imprecare, quindi lo gettò.
Uscì dal bar, scartò distrattamente il pacchetto, prese una sigaretta e la accese, appoggiandosi al tronco del salice che cresceva ozioso al lato del marciapiede e, come ogni mattina, fissò le linee della sua auto. Gli piaceva, aveva fatto tanti sacrifici per acquistarla, ovviamente di seconda mano, era il suo vanto, uno dei pochi in verità, ma il compiacimento lasciava subito spazio all’angoscia, quando sistematicamente cominciava a pensare a quante rate doveva ancora pagare, e a quanta parte del suo stipendio prendeva il volo ogni mese. Era un brutto periodo, ma ogni giorno si diceva che sarebbe andata meglio, che avrebbe saldato tutti i debiti e che avrebbe potuto permettersi la casa al mare che la moglie tanto desiderava. Dopotutto doveva farcela, doveva far felice quella donna che gli era accanto da una vita, doveva dare a suo figlio quello che lui non aveva potuto avere, avrebbe trovato il modo.
Rientrò in auto, poggiò il portafoglio sul sedile del passeggero, quando sentì un rombo roco, corposo. Non aveva bisogno di guardare per sapere cosa fosse, riconosceva perfettamente lo scalpitio di quei cavalli, il borbottio di quel quattro cilindri che gli aveva regalato un paio d’anni di emozioni. Ripercorse rapidamente le curve della costiera, ricordò la sensazione di libertà che gli pervadeva ogni fibra dell’essere quando calava la visiera, chiudendo fuori un mondo da attraversare di piega in piega. Ricordò i lavori necessari per la casa, i preparativi per il matrimonio, la scelta sofferta ed infine il furgone a noleggio che venne a caricare la sua moto. Rivisse tutto in quei pochi istanti durante i quali il centauro gli passò a fianco, sparendo oltre la curva che portava fuori città. Forse un giorno, pensò, sarebbe tornato in sella, nel frattempo doveva sbrigarsi, aveva un cartellino da timbrare.
Parcheggiò al solito posto, percorse un paio di centinaia di metri fino ai tornelli, dove sostavano greggi di impiegati alienati, fermi con l’orologio in mano ad aspettare che suonasse la sirena. Come ogni mattina ignorò i loro sguardi, ignorò la sirena, estrasse il cartellino e lo strisciò. Attraversò una selva di tubature, manometri e comignoli, si infilò in un capannone e seguì il percorso pedonale, ascoltando distrattamente i discorsi e gli improperi degli operai del turno precedente. Vide i macchinati depositati nell’area di stoccaggio, fermi da settimane, forse da mesi, luccicare sotto i raggi di un pallido sole che iniziava a palesarsi dai finestroni dell’officina.
Si ricordò di quanto aveva ammirato quei luoghi da piccolo, quando durante gli open days suo padre glieli faceva visitare. Ricordò il fascino delle fusoliere grezze che attraversavano i capannoni, l’ammirazione per lo splendido ufficio di suo padre, che in quella fabbrica aveva avuto una brillante carriera. Ricordò di quando aveva promesso a se stesso che anche lui ce l’avrebbe fatta, avrebbe avuto un ufficio tutto suo e avrebbe avuto una vita serena ed appagante. Si trovò a rimuginare su come fosse cambiata la prospettiva da cui ora vedeva tutto quello, su quanto quelle immagini brillanti negli occhi di un bambino pieno di aspettative fossero ora sbiadite e opache, nella realtà che stava vivendo. Non aveva un suo ufficio, faceva un lavoro che odiava con persone di cui, con buona pace di qualcuno, aveva pochissima stima.
Dopo qualche minuto arrivò alla palazzina degli uffici, fece le due rampe e raggiunse la sua postazione. La sua scrivania era in fondo all’ufficio, a spalla con altre tre. Posò la borsa e accese il computer, quindi si diresse al centro della stanza, dove già da mezz’ora abbondante lavorava un collega di un’altra ditta, tutti gli altri sarebbero arrivati a breve.
Max poggiò una mano sulla spalla di Mark, lo conosceva dai tempi dell’università, un ragazzo dalla pelle olivastra, alto, capelli scuri e perennemente stressato. Era ormai schiavo di quel lavoro che non lo gratificava più da tanto, troppo tempo, ma della cui rassicurante routine non poteva fare a meno.
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Si incamminarono verso i distributori e chiacchierarono del più e del meno, sorseggiando quell'orribile caffè e discorrendo della vita familiare, del lavoro da ultimare, della salute e dei programmi per l’immediato futuro. Sostarono per pochi minuti, rispettando quel rituale quotidiano che li preparava ad affrontare il resto della giornata, per dirigersi quindi ciascuno alla propria postazione. Gli altri cominciavano ad popolare l’ufficio.
Uno alla volta arrivarono gli altri membri del team di Max. Conosceva quei ragazzi da un po’, e formavano tutto sommato una bella squadra. Paky era un ragazzo sveglio, lavorava e allo stesso tempo stava ultimando l’università. Coltivava il suo sogno di diventare un cantante famoso. Anche lui aveva ben presto capito che quel lavoro non poteva essere lo scopo della sua vita. Arrivò alla sua postazione, accanto a quella di Max, occhiali dalle lenti a specchio blu, zainetto in spalla e sul fianco l’inseparabile borsetta con tabacco e cellulare. Rob, che lo seguiva, era il più giovane. Era un patito del fitness ed un single inguaribile, era bravo nel suo lavoro, anche se aveva un po’ troppo spesso la testa altrove. Martin, che si era materializzato alla sua postazione mentre Max si intratteneva con Mark, era il