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Resti: del passato
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Resti: del passato
E-book216 pagine2 ore

Resti: del passato

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Info su questo ebook

Un nuovo appassionante romanzo giallo della scrittrice sarda Giuliana Carta.
LinguaItaliano
Data di uscita1 set 2023
ISBN9791221321562
Resti: del passato

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    Anteprima del libro

    Resti - carta giuliana

    L'autrice

    Giuliana Carta è nata a Domusnovas nel 1977. È laureata in medicina e chirurgia e specialista in Psichiatria. Lavora presso il Dipartimento di Salute Mentale di Carbonia.

    È sposata con Fabrizio e ha due figli: Gloria Rita e Filippo.

    Nel 2017 ha pubblicato (tramite self publishing) il romanzo giallo Il convegno degli orrori, in cui per la prima volta compaiono i due protagonisti, il detective Riccardo Conte e la psichiatra Stella Ferranti.

    I due personaggi compaiono anche nei romanzi L’ultima corsa, 2018, Vacanze ad Arbatax 2019, e Addio per sempre 2020, tutti pubblicati con la casa editrice AmicoLibro.

    Con Resti del passato introduce come nuovi protagonisti il commissario Lorenzo Barolo e la psichiatria Dalia De Roma.

    Tra gli autori preferiti di Giuliana Carta figurano Agatha Christie, Stephen King, Alessia Gazzola, Joel Dicker.

    Prefazione

    Giuliana Carta, la psichiatra con la passione del giallo, dopo la fortunata serie di Riccardo Conte e Stella Ferranti, ci propone una nuova opera con nuovi protagonisti che non ci faranno rimpiangere i precedenti.

    In Resti del passato incontriamo il commissario di polizia Lorenzo Barolo, piemontese, che si trova a dover districare il mistero di uno scheletro murato dentro a uno sgabuzzino. L’indagine si svolge dentro la struttura sanitaria Oleandro Giallo, dove tredici anni prima (quando si chiamava Thelvetia) era nata l’inchiesta scandalo Angeli e Diavoli relativa a maltrattamenti e abusi sui minori.

    Coadivato da un’insolita aiutante, la giovane psichiatra Dalia De Roma, il commissario Barolo dovrà ricostruire una fitta trama di intrighi, gelosie e tradimenti.

    A chi appartiene il misterioso scheletro? A Manolo Rivano, padre di Cristian o a Raul Uselli, padre di Sofia, due dei piccoli ospiti della struttura? Oppure a Vincenzo Moffa detto Vinny, marito di Luana Cifelli?

    Non manca nel libro una profonda indagine psicologica dei personaggi, nelle loro vicende umane e nelle passioni. Lo stile è descrittivo, piacevole e fluido, come ci ha ben abituati l’autrice.

    Con l’amato stile da giallo classico alla Agatha Christie, Giuliana Carta ci conduce per mano in una storia appassionante, ricca di misteri e colpi di scena, che ci terrà incollati alla lettura dalla prima all’ultima pagina.

    Roberto Sanna

    Alla splendida equipe del CSM di Carbonia

    Nella quale ho il piacere di lavorare

    "Sono le persone che incontriamo

    A rendere la vita degna di essere vissuta"

    Guy de Maupassant

    "Ahi serva Italia, di dolore ostello,

    nave senza nocchiere in gran tempesta,

    non donna di provincie, ma bordello!"

    Purgatorio, canto VI, vv. 76-78"

    Rare sono le persone che usano la mente, poche coloro che usano il cuore e uniche coloro che usano entrambi".

    Rita Levi Montalcini"

    A volte s’incontra il proprio destino sulla strada presa per evitarlo".

    Jean De La Fontaine

    Prologo

    La bambina con gli occhi grandi e scuri spiava il cortile esterno attraverso i vetri decorati con gli adesivi raffiguranti Babbo Natale, gli alberi e le renne; inginocchiata sopra la panca in legno, da sola nell’andito piccolo e oscuro, dalle pareti tappezzate con le immagini dei bambini ospiti della struttura, guardava i suoi coetanei che giocavano sul cemento e sopra i sedili in gesso.

    Si chiedeva come facessero a essere così felici e spensierati in un posto che con la felicità non aveva nulla a che spartire. Lei non aveva nessuna voglia di giocare o di uscire a respirare l’aria fredda di dicembre, quando sapeva che la sua mamma e il suo papà erano così lontani. E che forse non li avrebbe più rivisti.

    Sentì le lacrime stringersi come una fune attorno alla sua gola, sentì quel dolore ormai noto che sapeva come contrastare. Deglutì e il dolore si dissolse. Perlomeno, quello che attanagliava la gola. L’altro invece, quello dentro il cuore, non si allontanava mai. Era lì, impegnato a scavare una ferita, col sangue che sgorgava copioso, eppure nessuno lo vedeva. Nemmeno lei, ma sapeva che c’era. Sapeva che sarebbe stato il suo compagno per sempre, per il resto dei suoi giorni; quindi era ora di iniziare ad accettarlo.

    Sentì qualcosa che strisciava sopra la manica del golfino azzurro e si girò di scatto, salutando i pensieri.

    C’era una bambina vicina a lei. Aveva i capelli castano scuri raccolti in una treccia, indossava una salopette in jeans e un paio di scarpe da tennis rosa.

    La bambina con la treccia guardava la bambina dagli occhi grandi e scuri con uno sguardo strano, pieno di mistero. Le aveva sfiorato il braccio con la mano destra, mentre quella sinistra era stretta a pugno.

    Porse il pugno verso la compagnetta, il dorso era rivolto verso il pavimento. La bambina dagli occhi grandi e scuri la fissava, ma nessuna curiosità trapelava dall’espressione ermetica scolpita sul suo viso.

    L’altra bambina aprì il pugno e ne svelò il contenuto. Due gomme da masticare, di quelle rettangolari e lunghe. Un piccolo tesoro che a molti avrebbe fatto gola là dentro.

    Ne vuoi una? domandò.

    La bambina dagli occhi grandi e scuri non rispose con la voce, ma annuì. Con cautela prese una gomma, la scartò senza staccare gli occhi di dosso dalla compagnetta, la infilò in bocca e iniziò a masticarla.

    Vieni? le disse l’altra bambina.

    La bambina dagli occhi grandi e scuri fece scivolare i piedi per terra e con molta diffidenza si alzò. Seguì la seconda bimba in cortile ma, giunta fuori, si bloccò.

    Io resto qui, disse ferma, immobile, appena davanti alla porta.

    Capitolo I

    La Nuova Sardegna - 16 ottobre 2007

    Angeli e diavoli

    Il binomio Angeli e diavoli, che dà il titolo all’agghiacciante inchiesta condotta attorno alla struttura per minori Thevetia, è senz’ombra di dubbio l’espressione più efficace per descrivere una realtà inquietante. Una realtà che si dispiegava quotidianamente all’interno di una struttura il cui nome Oleandro giallo è in realtà un inganno, in quanto niente del bellissimo fiore sudamericano dai petali giallo oro può assimilarsi ai fatti che narriamo quest’oggi. Così come ingannevoli sono state le promesse di aiuto fatte ai piccoli angeli ospitati nella comunità, bimbi di età compresa fra zero e sedici anni verso i quali tendere una mano è un obbligo civile oltreché morale.

    Gli operatori di Thevetia non tendevano mani se non per arrecare dolore e sofferenza, come è emerso dalle indagini condotte dai carabinieri di Carbonia. Secondo quanto rilevato, il personale operante nella struttura si occupava non tanto di intervenire in situazioni in cui veniva appurato un deficit delle capacità genitoriali, quanto di strappare i figli a mamme e papà che di deficitario non avevano proprio nulla, se non la provenienza da situazioni di disagio sociale.

    Il ribrezzo suscitato dalla situazione vigente presso la struttura in questione è tale da portare alla mente le parole di Dante Alighieri: Ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello. E provare, accanto ad una grande amarezza, la necessità di porsi una domanda e pretendere una risposta dalle istituzioni: riusciranno questi piccoli angeli a dimenticare e a tornare ad una vita normale con le loro mamme e i loro papà, che li hanno sempre amati?

    Gualtiero Salvini interruppe la lettura e sbatté le pagine odorose di inchiostro del quotidiano sulla superficie della scrivania. Poi si sfilò gli occhiali scoprendo due occhi azzurro cielo che in quel momento erano tali e quali il dipinto di un mare in tempesta. Si avvicinò con passo nervoso alla finestra dello studio, scostò la tenda e si mise a osservare il giardino circondato da siepi, alberi di agrumi e piante di rosmarino dal colore verde intenso.

    Non era mai stato un uomo che si faceva prendere dal panico. Non lo era stato quando era studente di medicina, sebbene la mole e la quantità degli esami fosse stata tale da far vacillare la calma e la pazienza della stragrande maggioranza degli allievi; non lo era stato, a differenza di molti uomini, quando aveva deciso di sposarsi con sua moglie Anita e nemmeno lo era stato quando casualmente aveva scoperto sul cellulare di quest’ultima una serie di messaggi a sfondo sessuale scambiati con uno sconosciuto.

    E infine non lo era stato quando Anita aveva preparato le valigie e gli aveva annunciato che se ne andava.

    Ormai sai tutto, Gualtiero, per cui non voglio che tu soffra pensando che amo un altro, perché purtroppo, come avrai capito, è così. Tanto non abbiamo figli, quindi sarà tutto più facile.

    Puttana, aveva pensato lui; eppure il panico non l’aveva colto.

    Ma adesso, leggendo quelle pagine in cui, nero su bianco, si tracciava un quadro che faceva somigliare la struttura da lui diretta in qualcosa di deplorevole al pari dei lager nazisti, si sentiva in trappola.

    La cosa più urgente da fare era chiudere la struttura. Collocare i bambini presso altre strutture, comunicare la propria decisione al Comune, nonché al magistrato, e chiudere. Per sempre.

    Sprofondò le mani nelle tasche dei calzoni mentre si voltava e lasciava andare la tendina bianca. Scosse la testa nervosamente.

    Avrebbe chiuso la struttura certo. Ma dopo? Come avrebbe fatto a camminare tranquillo per strada incrociando gli sguardi della gente che sapeva che lui era il dottor Salvini, il direttore di una struttura protetta per minori la cui cattiva reputazione era ormai alla mercé di tutti? Un modo c’era, a dire il vero. Un modo c’era.

    A mezzanotte in punto un boato echeggiò nelle strade di Carbonia, proveniente dalla villa del dottor Salvini. Qualcuno, spaventato, chiamò la polizia.

    Ma quando la polizia arrivò, l’unica cosa che trovò fu il corpo senza vita di Gualtiero, con la tempia destra sfracellata: ossa e materia cerebrale immerse in una schiuma biancastra e il sangue ormai rappreso gocciolato sul pavimento e sul caldo tessuto del tappeto bordeaux.

    Capitolo II

    8 aprile 2020

    Dalia premette a fondo l’acceleratore e partì a bordo della sua Fiesta color blu navy; le sagome delle case dalle mura fatiscenti, gli alberi allineati lungo i viali e i balconi adornati da fioriere colorate si trasformarono in ombre fugaci dalle tinte multicolori che costellavano il cammino verso l’Oleandro giallo. Era il suo primo giorno di lavoro presso quella comunità per pazienti psichiatrici e, se due settimane prima non fosse stata contattata dalla direttrice Camilla Franchi, dottoressa in Scienze dell’Educazione per un contratto libero professionale, quello sarebbe stato in assoluto e senza riserve il periodo peggiore della sua vita.

    Dalia De Roma aveva trentadue anni, una laurea in medicina e chirurgia e una specializzazione in psichiatria racchiuse nel proprio zainetto. In aggiunta - non sapeva se dire purtroppo o per fortuna - un marito di nome Nicola che faceva il chirurgo.

    Aveva venticinque anni quando aveva sposato Nicola. Lui era bello, forte, coraggioso. Aveva gli occhi azzurri e i capelli chiari, che contrastavano deliziosamente con i capelli e gli occhi di lei, neri come pece. Poi era alto e aveva un fisico poderoso, mentre lei era minuta come una libellula. Ciò che l’aveva colpita era stato l’atteggiamento da leader di Nicola. Erano colleghi e si erano conosciuti all’università. Lui godeva di un carisma e di un fascino tale da riuscire a ottenere sempre, o quasi, ciò che voleva. Che fossero libri in prestito, appunti e lezioni sbobinate, o colleghe carine com’era Dalia.

    Dopo la laurea si erano sposati. Era stato allora, dopo che per la prima volta avevano iniziato a convivere, che erano emersi i tratti caratteriali di Nicola Manieli che col tempo lei avrebbe iniziato a detestare.

    La prima avvisaglia si era manifestata al termine di una cena in ristorante, quando suo marito aveva iniziato una disputa col cassiere riguardante il prezzo del vino. Aveva urlato in faccia al cameriere che quel vino faceva schifo, che imbottigliavano acqua sporca e la facevano passare per Monica di Sardegna, e Dalia aveva iniziato a provare disagio quando si era accorta del sudore che imperlava la fronte di Nicola e delle sue mani che venivano percorse da un lieve, ma visibile, tremolio. Sembrava che volesse strangolare il cassiere.

    Era accorso il padrone del locale, che con atteggiamento fermo e controllato aveva intimato a Nicola di pagare il vino o avrebbe chiamato i carabinieri; era libero, nei giorni a venire, di non frequentare più quel locale se non gradiva le bevande che venivano servite. Nicola aveva letteralmente schiaffato la banconota sopra il tavolo, e con tono sprezzante aveva asserito: È proprio quello che farò. Non mi farò più vedere in questa bettola!

    Si era chiesta se per caso il marito avesse esagerato col vino, e aveva aspettato il giorno dopo per domandargli, mentre facevano colazione assieme, se non pensasse di aver passato il limite, la sera prima. Nicola l’aveva guardata, gli occhi azzurri carichi di ostilità e le aveva risposto: No, per niente. Sono quelle teste di cazzo a spacciare la loro merda per buon vino.

    Dalia aveva preferito non rispondere, soprassedere su un evento così spiacevole, nella speranza che non se ne verificassero altri. Invece non fu così e nei mesi e negli anni successivi gli episodi in cui Nicola veniva colto da una furia irrazionale si moltiplicarono a dismisura. Pian piano iniziarono fra loro i primi litigi, scaturiti dal fatto che Dalia lo invitava a riflettere sulla sua impulsività e Nicola interpretava tale invito come un segnale di mancata alleanza di sua moglie.

    Ci fu un litigio con un poliziotto che l’aveva beccato parcheggiato in doppia fila, lite condita da accesi toni che spinsero Dalia a pregare che Nicola non arrivasse all’insulto a pubblico ufficiale e per fortuna non successe. Poi avvenne una rissa sfiorata col vicino di casa, scatenata da una disputa su dieci centimetri di terreno che secondo Nicola gli erano stati sottratti indebitamente. Discussioni accorate con colleghi, pazienti, amici. Amicizie finite, logorate da un’aggressività verbale che in continuazione minacciava di sfociare in quella fisica.

    E poi c’era stato il pugno sul muro.

    Mentre guidava, sguardo dritto sull’asfalto e musica dei Modà nelle orecchie, Dalia si sentiva percorrere da una sgradevole sensazione di nervosismo al ricordo di quanto accaduto due settimane prima. Erano in cucina, lei stava cucinando il roast beef per la cena e lui era seduto sul divano a guardare un programma televisivo con Paolo Bonolis. Ovviamente Nicola commentava con parole colorite quasi tutte le battute del conduttore e a Dalia era venuto da pensare che era sabato e che avrebbero cenato da soli. I loro migliori amici, infatti, non si facevano sentire dall’ultima, spiacevole cena, in cui avevano discusso animatamente con Nicola.

    Perché non chiamiamo Paolo e Anna Rosa? aveva chiesto lei, È da tanto che non mangiamo assieme, magari hanno scordato ciò che è successo un po’ di tempo fa.

    Si era ritrovata davanti il marito con un’espressione inviperita in volto. Era rimasta ferma davanti a lui, il ciuffo corvino calato sulla fronte, il collo lasciato scoperto dal taglio corto scosso da un brivido.

    Tu pensi che abbiano ragione loro, dunque? aveva domandato Nicola, col petto che si sollevava e si abbassava ritmicamente, Mi hanno offeso.

    Io penso che a volte coltivare le amicizie sia più importante che avere ra…

    Non fece in tempo a finire la frase. Nicola ripeté urlando la domanda: "Tu pensi che abbiano ragione

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