Attraverso giorni fragili
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Anteprima del libro
Attraverso giorni fragili - Andrea Foresta
LASCIATEMI STARE
«Ci stendiamo qui?» chiese lei.
«Sì» rispose lui. «Meglio non allontanarsi troppo.»
Non allontanarsi da cosa? Si domandò Carlo, uomo sulla settantina sdraiato a pancia sotto a un metro dalla coppia.
Era arrivato verso le sette del mattino. Aveva fatto una passeggiata sulla battigia priva di chiacchiere, per poi sciacquarsi il primo caldo nel mare fresco, non ancora opacizzato da chiazze di solari waterproof.
Nella speranza che la coppia rimanesse in silenzio credendolo addormentato, tenne gli occhi ben chiusi.
Di quale incontrastabile magnetismo, pensò, era sfortunatamente dotato? Talmente irresistibile da attirare accanto a lui due bagnanti mattutini (erano solamente le otto) quasi fosse l’unico palo in spiaggia a disposizione per la pipì di un cane.
Era così difficile, si chiese, compartecipare al desiderio di solitudine altrui, sistemandosi a debita stanza?
Eppure, il libro poggiato sull’angolo del telo era un chiaro messaggio per tutti coloro che avrebbero occupato, a breve, la superficie davanti al mare. Cinquecentoventi pagine di biografia storica equivalevano a un ALTOLÀ rivolto verso famiglie con bambini, racchettisti da bagnasciuga, maniaci del wellness e bagnanti cellularizzati. Sancivano una ferma richiesta di tranquillità, sicuramente condivisa da quei pacati lettori che, come lui, bramavano il silenzio pur preferendo il mare alla montagna.
Non gli restò che trattenere un sospiro e socchiudere gli occhi per cogliere un segno utile a decidere se rimanere lì o spostarsi.
La coppia oscillava dai trenta ai quarant’anni, forse amici, forse sposi o amanti. Entrambi erano ricoperti da tatuaggi disegnati per fissare un’originalità ormai banalizzata dall’incisione di massa.
Gli rammentarono quando, tempo addietro, mosso ancora da curiosità, chiese a un giovane il significato di certi segni. «Sono simboli di guerra» rispose il tizio, ricollegandoli ad antichi guerrieri Maori e lotte tribali, mentre gli amici schiamazzavano di calcio, rimarcando erronee scelte arbitrali vendicabili alla sfida successiva.
A indicare la volontà di soffermarsi per l’intera giornata, la coppia aveva ammonticchiato sulla sabbia: zaino, borsa da spiaggia, borsa frigo, sedie pieghevoli e ombrellone.
L’uomo si levò la maglietta mostrando un torso sovrascritto, come gli arti, da segni geometrici simili alle cornicette che un tempo si disegnavano a scuola per abbellire i compiti a casa.
La donna tolse il copricostume e iniziò a ungersi così abbondantemente da far risaltare ancora di più i colori sulla pelle.
Il suo corpo faceva da tela a cuori trafitti, fiori, sirene e piante, mescolati a frasi, numeri – forse date – quasi fosse un lunario con incisi dei promemoria. I calendari, a fine anno, si gettano via, pensò Carlo. Questa si trascinerà disegni e appunti sino all’ultimo dei suoi giorni, incatenandosi al passato.
Si ricordò di quanto fossero divertenti quei finti tatuaggi che ci si applicava da piccoli con una spugnetta bagnata: duravano giusto il tempo di stancarsene per poi cambiare soggetto. Forse oggi, rifletté, chi è così freneticamente sollecitato da preoccupazioni e impegni sente di doversi ricordare, con un segno sulla pelle, chi è, cosa ha vissuto o come vorrebbe essere. O forse è semplicemente edonismo distorto.
Preparavano la loro postazione in un silenzio troppo mesto per un luogo così accogliente e naturale. Anche un operaio cassaintegrato con sette figli a carico avrebbe recuperato entusiasmo grazie a quel mare così azzurro, quel cielo così terso.
Che siano una coppia o no, pensò mentre il sole iniziava ad accaldargli la schiena, c’è del rancore tra loro. Troppo zitti.
Una situazione perfetta se decidevano di tenersi il muso e non parlarsi, insopportabile se fosse virata al chiarimento.
L’uomo infilò l’ombrellone nella sabbia con una forza rabbiosa; pareva volesse scaricarsi su di un bersaglio inerme, inanimato.
Poi, quasi contemporaneamente afferrarono una sedia; lui la aprì al riparo dal sole, lei in piena luce. La distanza tra loro sembrava determinare il non volersi parlare.
Continuando a domandarsi perché in una spiaggia semideserta lunga più di duecento metri quei tizi gli si erano parcheggiati accanto, Carlo iniziò, aiutato dalla loro calma, a farsene una ragione.
Stava diventando, di pari passo, vecchio e insofferente. Trascorreva i giorni a dannarsi sull’imbruttirsi della gente, immaginandosi a sfalciar via persone come fossero erba infestante da tagliare e raccogliere in covoni, a seccare. Una macabra versione dei Les Meules di Monet.
Il silenzio proseguiva. Lei chiuse le palpebre rimanendo immobile al sole. Lui rovistò con una mano nella borsa alla ricerca di qualcosa, fino a far spuntare i manici delle maledette racchette, a presagire il forzato, prossimo spostamento per l’anziano bagnante.
Invece il tatuato afferrò un libro. Non un giornale sportivo o un fumetto o un mensile di motori, ma un vero libro in carta stampata.
Incuriosito dall’avvenimento, Carlo tentò di leggerne il titolo ma, occorrendo spostarsi, preferì accontentarsi della parziale sorpresa e rimanere in quella bolla di pace, immobile, a trattenere la tentazione di asciugarsi il sudore dalla fronte.
Quando ci si impone di rimanere fermi, il corpo reclama una scappatoia. È come se l’energia bloccata negli arti dovesse incanalarsi e sfogarsi attraverso altre vie d’uscita: un brontolio di pancia, sudorazione copiosa nonostante l’inerzia, un insistente prurito amplificato dalla momentanea fissità.
Carlo controllò temerariamente queste manifestazioni per dieci minuti buoni, arrovellandosi su come comportarsi nel momento del risveglio. Quei due erano troppo vicini per essere ignorati. Magari poteva indirizzargli un buongiorno, nella speranza che la reciproca conoscenza si cristallizzasse in quel piccolo istante di educazione. E se dovessero avviare una conversazione, rifletté, risponderò laconicamente e mi allontanerò con una scusa. Non voglio passare per un vecchio insofferente!
Comunque fosse andata, anche se era stata la coppia a piazzarsi così vicino, sarebbe risultato antipatico rimanergli accanto. Ben piantato sul suo telo, si sarebbe sentito come un terzo incomodo curioso, a prescindere dalla loro relazione. Che fare?
Una telefonata della donna posticipò la decisione.
«CIAO TESORO!!» gridò come se dovesse farsi sentire anche dalle sogliole insabbiate sul fondo marino.
Maleducata, almeno allontanati visto che sto dormendo.
«Come stai? Cosa avete fatto ieri sera?»
Ecco, ci siamo. La solita inutile, immancabile condivisione.
«Da Paola? E quanti eravate?»
Venti? Quaranta? Ottantamila?
«E siete tornati a casa tardi?»
È la figlia. Un figlio non chiamerebbe la madre al mare.
«Brava!»
Bingo.
«Sono contenta che siete rientrati in orario.»
Sì, come no. Sarà appena tornata. Ti tranquillizza per poi schiantarsi di sonno nel letto.
«Sei andata a far spese ieri?»
Ah, che domanda interessante...
«Ma sei andata da Irma o dai cinesi?»
Meglio dai cinesi, si risparmia.
«E cosa hai comprato?»
Fece fatica Carlo a non alzarsi. Voleva chiedere da dove nasceva l’urgenza di avere informazioni sullo shopping. E, certamente, non lo avrebbe chiesto con toni così educati. Per questo si trattenne.
«Bello! E avete trovato anche delle t-shirt?»
Forse è il momento giusto per svegliarmi
...
«Aha...»
La farei sentire in colpa...
«E poi?»
Forse...
«Aha...»
No. Mi sto illudendo.
«Senti, allora salutami la nonna, dalle un abbraccio e dille che ci vediamo domani sera.»
La sinteticità della telefonata non gli apportò sollievo. Il fastidio che i due gli procuravano lo indusse a qualificarli come una coppia di stronzi che andavano al mare lasciando a casa la figlia.
«Come sta?» chiese l’uomo senza alzare lo sguardo dal libro.
«Bene. Mi sembra tutto tranquillo.»
«E tu sei più calma, adesso?»
«Sì. Scusami per prima. Mi sono preoccupata inutilmente.»
Questo fazzoletto di conversazione confermò al vecchio l’ipotesi di una discussione avvenuta precedentemente.
«Grazie per avermi convinta a venire al mare.»
Mostri. Spendono centinaia di euro per imbrattarsi a vita la pelle e abbandonano la figlia a casa.
«Gli amici servono per questo.»
Non è il marito e l’ha portata via dalla figlia. Avrà delle mire.
«Poteva venire anche Lorenzo» fece lei.
Lorenzo?
«No» disse l’uomo. «È stato proprio lui a suggerire di trascorrere questo weekend io e te da soli, come ai vecchi tempi.»
«È proprio un tesoro. Sono felice per te. Ti vedo proprio innamorato.»
Frocio. Come ho fatto a non arrivarci...Con tutti quei tatuaggi... Meglio andar via prima che sciorinino nefandezze.
«Senti, non si sarà mica sentito male...» ipotizzò lei.
«Ma no, non vedi che respira? Sta dormendo.»
Parlano di me?
«Sì, ma non possiamo mica aspettare tutta la mattina... Lo svegliamo?»
Ce l’hanno con me.
«Non si è svegliato nemmeno con la telefonata...» insistette lei.
«Scusi...» fece l’uomo avvicinandosi, sfiorando il telo con un piede.
Cosa vogliono da me questi due? Meglio non rispondere. Magari desistono.
«Signor Castelli, mi scusi...»
Carlo, allarmato, si chiese come facevano a sapere il suo nome. Lo conoscevano? Lo avevano seguito? Che intenzioni avevano in quella spiaggia ancora vuota?
«Guarda che non sta bene. Non ha mai mosso un dito» sostenne apprensiva la donna, mentre a Carlo, chissà perché, venne di trattenere anche il respiro. Quando l’uomo, per esaminargli le condizioni fisiche, avvicinando un dito al naso non sentì uscire fiato, lo girò supino così repentinamente che a Carlo caddero le braccia come fossero tentacoli di un cefalopode esanime. Immediatamente dopo, due dita gli chiusero con decisione le narici, obbligandolo a spalancare la bocca e a ricevere il soffio vigoroso dell’uomo nei polmoni. Azione che finalmente lo spinse ad alzarsi di scatto per spinger via il soccorritore nella sabbia.
«Che cazzo fai!?» gli gridò.
«Pensavamo stesse male...» rispose il tatuato mettendosi in ginocchio.
«Ma fatevi i cazzi vostri, per Dio! Io cerco solo di dormire e starmene in pace, e voi vi attaccate al mio asciugamano in una spiaggia lunga un chilometro a rompere i coglioni!»
«Non volevamo darle fastidio» intervenne lei, piccata.
«Se non volete dar fastidio alla gente statevene lontani, invece che gridare al telefono! Ma un minimo di educazione non ve l’hanno insegnata?»
Tutto ciò che aveva trattenuto sino a quel momento esplose, rendendo ininfluente il domandarsi perché conoscessero il suo nome.
«Scommetto che tra un po’ avreste iniziato a racchettare qui davanti, vero? Ce le avete le racchette, no? Toc, toc, toc... Non rispondete? Non è così?»
I due si guardarono.
«Non bastano le chiacchiere, i cellulari», continuò Carlo iniziando a raccogliere libro e asciugamano, «il fumo, i mozziconi nella sabbia... No! Anche le racchette.»
Soddisfatto dello sfogo, infilò i piedi ossuti nelle ciabatte di plastica prima di allontanarsi.
«Ma tu guarda questi» brontolò a bassa voce trascinandosi nella sabbia. «Presi dalle loro cazzate ti si piantano addosso... e se anche vedono che dormi non è che stanno zitti. Macché! Credono che stai male... Idioti...»
«Ehi, aspetti!» gridò l’uomo avvicinandosi.
Ah, per carità... Si saranno offesi... Ma col cavolo che gli do retta!
«Aspetti un po’...» La voce era più vicina, minacciosa. Al punto da far temere a Carlo di avere esagerato. In fondo era un uomo di settantadue anni, non proprio scattante. Sentiva di avere avuto tutte le ragioni per dirgliene quattro, ma se l’uomo voleva fargli del male, la spiaggia era ancora vuota.
Si rincuorò al pensiero che l’inseguitore fosse gay: mai sentito di una checca che alza le mani... Di solito le prendono...
Un’idea che lo portò ad arrestarsi e girarsi per affrontare la minaccia. Ne aveva altre di cattiverie per farsi forte. Ma gli si arrestarono in gola, bloccate dall’atterraggio del suo portafoglio a un metro di distanza.
«Questo è suo. L’abbiamo trovato in spiaggia» disse l’uomo con tono di rimprovero. «Volevamo portarlo ai carabinieri, ma l’abbiamo riconosciuta dalla carta d’identità.»
Carlo non seppe che dire. Non si chinò nemmeno a raccogliere ciò che gli era stato restituito.
«Non faccia lo sforzo di scusarsi, per favore, di giustificarsi. Non vorrei sentirmi obbligato a dirle che non importa, che è normale non fidarsi. Lasci stare.»
Quindi, a suggellare la restituzione, l’uomo si girò per tornare al suo ombrellone.
Carlo, rimasto senza parole, dopo aver raccolto il portafoglio istintivamente lo aprì per vedere se mancava qualcosa, scoprendosi sordidamente solo a ogni carta di credito ritrovata, a ogni banconota, ben stirata, al suo posto.
SUSHI
Lo studio di psicologia, al quarto piano di uno stabile dei primi del Novecento, ha soffitti alti utili a mitigare sensi di oppressione e ampie verticali finestre che, affacciandosi sugli alberi del giardino sottostante, infondono ai pazienti la leggerezza necessaria a rilassarsi e aprirsi.
«Prego, si accomodi.»
Lui si siede, senza ringraziare la dottoressa davanti a sé.
«Dunque» avvia il colloquio la donna. «Telefonicamente, lei mi ha accennato a difficoltà legate all’alimentazione.»
«Esatto» conferma lui, trent’anni circa.
«Può dirmi quale tipo di disturbo vuole risolvere?» chiede all’uomo, trovandolo fisicamente nella norma.
«Non si tratta di un disturbo» le risponde senza esitazione, osservando le foglie muoversi al di là dei vetri. «Non sono un disturbato.» Poi sposta sguardo e concentrazione sulle proprie sneakers, per chiarire: «Non mangio pesce crudo. Cosa che mi crea conflitti con gli amici».
«Vada avanti» lo esorta la dottoressa prendendo carta e penna.
«Da quando mangiano quello schifo,» riprende l’uomo senza reticenza, «non sono più quelli di prima. Credo che i cinesi mettano qualcosa dentro al sushi per rincoglionire la gente.»
Marina prende appunti. Scrive sul foglio p.pn. (nel suo gergo sta per possibile paranoia).
Aveva programmato una durata di circa quaranta minuti per questo incontro iniziale. Ma ciò che pareva, a una prima impressione telefonica, un semplice disturbo alimentare, si sta rivelando più articolato del previsto. Complesso.
Mi servirà più tempo, pensa interrompendo le note.
Presto dovrà informare Marta, la compagna, di non poter cucinare il pesce fresco acquistato in mattinata, riposto nel frigo dello studio.
Rimanderò il cacciucco a domani sera, riflette. Anzi, no! Domani c’è l’assemblea condominiale. Ci sarà tempo solo per un’insalata. E il pesce? Glielo avevo promesso... Ci teneva...
«Posso andare avanti?» fa l’uomo vedendola immobile, persa nel foglio davanti a sé. «Mi