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Semi di guerriglia
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E-book643 pagine9 ore

Semi di guerriglia

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Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (551 pagine) - In un futuro post apocalittico le piante, manipolate geneticamente, possono diventare la armi più letali

Dal giorno del colpo di stato poche cose hanno girato per il verso giusto, per il sergente della Milizia Dead Daisy: la carriera nella brutale élite poliziesca del sadico comandante Poppy Killer, per la quale ha commesso una quantità di abusi che riesce sempre meno a giustificare con sé stesso; il rapporto con Fleur du Mal, ben più che una semplice concubina, complicato e rischioso per entrambi; la sua innata insubordinazione, che gli costa dolorose punizioni ma che lo porta anche a ficcare il naso dove non dovrebbe e a finire in galera come traditore.
Per riscattarsi Dead Daisy sarà obbligato a raggiungere la base dei ribelli della Rivoluzione Verde, allo scopo di carpirne i segreti e annientare la Rivoluzione, ma la missione non seguirà il percorso previsto: il sergente della Milizia non avrà vita facile, tra l'ostilità dei ribelli e i crescenti dubbi sulla fazione con cui schierarsi, fino a quando fantasmi del passato lo costringeranno a scegliere da che parte stare

Classe 1968, nata a Milano ma ligure di adozione, Camilla Ferroni vive in provincia di Genova, dove lavora. Appassionata fin da bambina di lettura e scrittura, ama dedicarvi il tempo libero dagli impegni professionali. Dopo un diploma di liceo linguistico e una laurea in lingue, nel 2014 corona un sogno: frequenta il liceo artistico, consegue il diploma in Arti Visive e continua a studiare pittura. Accanita divoratrice di libri, incantata dalla magia della parola scritta che apre la mente e regala emozioni e ali per volare lontano, dal rifugio della sua casa affacciata sul mare ha deciso di tradurre sulla carta i sogni, e gli incubi, che ha in testa. Semi di Guerriglia è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2018
ISBN9788825405330
Semi di guerriglia

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    Anteprima del libro

    Semi di guerriglia - Camilla Ferroni

    romanzo.

    Capitolo I

    – Sergente Dead Daisy.

    Apro gli occhi.

    – Si è addormentato in servizio – la voce riecheggia nella mia mente – si è reso necessario il mio intervento, signore; le ricordo che il regolamento della Milizia prevede…

    Torture. Rispondo ad alta voce: – Va bene, Angel, ho capito.

    – Dobbiamo avviare la procedura di scarico dati e poi prepararci per il cambio della guardia.

    In silenzio mi slaccio il colletto della divisa. Una serie di clic segnalano l’imbarazzo del mio compagno artificiale, incuneato tra i muscoli dell’avambraccio destro, per quella infrazione all’etichetta.

    – Sergente – riprende – è opportuno che le segnali come il regolamento…

    – Sì, lo so – sbotto – contempla sanzioni disciplinari per tutto… Me ne farò una ragione.

    La poltroncina della postazione di sorveglianza in sala controllo mi ha nel suo abbraccio da ore; ho il visore calato sugli occhi e il casco con i terminali di collegamento alla console mi stringe le tempie. Sfioro il pannello di controllo sotto le dita ed eseguo un’ultima rotazione completa di trecentossesanta gradi.

    Gli schermi mi circondano da ogni lato. Sospeso nel cielo della città, posso scrutare ovunque attraverso le centinaia di occhi elettronici di cui è disseminata, librarmi tra le immagini e catalogare come fossi una mente onnisciente tutto quello che accade per le strade del mio settore di competenza, il C20. Per fortuna niente, almeno stasera.

    – Computer, avviare download e procedura di backup dati – ristabilisco il contatto con Angel. – Parla il sottufficiale responsabile del turno di guardia sergente Dead Daisy; nulla da segnalare.

    Chiudo gli occhi, rilasso la mente per completare il rapporto e lascio spazio al mio innesto cibernetico perché possa cogliere la sintesi e trasferire le informazioni al computer centrale attraverso i terminali di collegamento.

    – Nessuna violazione di coprifuoco rilevata nel quadrante, operatività ribelle non pervenuta, proliferazioni vegetali assenti.

    Non vedo l’ora che il processo sia terminato per sfilarmi l’apparecchiatura dalla testa. Una luce verde nel visore segnala che l’operazione è andata a buon fine e che mi posso scollegare. Ripongo il casco nell’alloggiamento sotto la poltroncina e digito con rapidità la sequenza che completa la registrazione automatica.

    Richiamo Angel.

    – Agli ordini, signore.

    – Attendiamo l’arrivo del cambio, smontiamo e leviamo le tende. Verifica nel database se il centro di addestramento nel settore C19 ha sedute di allenamento in corso.

    Qualche secondo di silenzio, poi la risposta che speravo di ricevere: – Affermativo, il poligono è operativo; sono possibili anche allenamenti in palestra e simulazioni di combattimento antiguerriglia full contact e con droni.

    – Perfetto, prepara la moto.

    – Signore, le rammento che dovrebbe ritirarsi negli alloggi al quartiere della Milizia per le ore di riposo regolamentari.

    – Andiamo, computer, nessuno ci aspetta e ho bisogno di un po’ di movimento, ho avuto una giornata di merda sdraiato in quella poltrona.

    Dopo qualche attimo di silenzio Angel conferma: – La moto è pronta al terminale Uno.

    I passi del mio sostituto si avvicinano. Mi riabbottono il colletto della divisa, riappunto la spilla sul basco e me lo calco in testa.

    Con uno sbuffo la porta scivola di lato e un ragazzotto pieno di brufoli compare sulla soglia: – Soldato Pain Dahlia a rapporto! – abbaia mentre lo sguardo perverso fissa un punto alle mie spalle.

    – Sei autorizzato a sostituirmi. Non ci sono consegne particolari.

    Il miliziano rimane impalato sull’attenti mentre afferro il cinturone con la pistola a impulsi e me lo stringo in vita. Raccolgo la mazza d’ordinanza, liscia e brunita come se l’avessi appena ricevuta, e la infilo nella custodia tra le spalle.

    – Buon lavoro, Pain Dahlia, la postazione è tutta tua.

    Infilo la porta con passo deciso, irrequietezza e insofferenza le mie uniche compagne per la serata. Non vedo l’ora di essere fuori di lì, inforcare la moto e raggiungere il centro di addestramento dove spero di trovare qualche recluta ad allenarsi. Ho bisogno di un combattimento: full contact, niente armi, niente protezioni, solo calci e pugni fino a quando uno dei due lottatori non stramazzi sul tatami.

    Angel rileva l’alterazione dei parametri vitali mentre sfilo nei corridoi, il fiato corto, diretto al terminale Uno per recuperare il mio cavallo d’acciaio.

    – Signore, il suo stato psicofisico non è ottimale. In base a quanto previsto dal regolamento, è tenuto a osservare le ore di riposo stabilite.

    Digito il codice d’accesso all’hangar e interrompo l’intrusione del mio compagno. La moto è lì che aspetta: si avvia da sola mentre mi avvicino, grazie alla connessione con il mio innesto. La stringo fra le cosce, accarezzo il metallo nero e freddo delle sue forme e mi sdraio su di lei coprendola con il petto. Assunta la posizione ergonomica di guida, infilo le mani negli alloggiamenti sul manubrio: i cavi di controllo si avvinghiano alle dita. Sento un formicolio percorrermi il corpo mentre il campo di forza protettivo mi avvolge.

    – Distacco dal terminale – ordino.

    Angel completa la procedura di scollegamento dall’area di parcheggio. Per una frazione di secondo galleggio nell’aria. Compio un giro su me stesso di centottanta gradi, inquadro il portellone dell’hangar e sfreccio nella notte.

    Il settore C20 è deserto e silenzioso. Sorvolo a bassa quota tutti gli incroci, gli ingressi ai tunnel sotterranei, i ponti, mentre controllo che Angel comunichi per tempo alla centrale i codici di riconoscimento ogni volta che incrocio una telecamera di sorveglianza e il grappolo di droni armati che la circonda come uno scudo.

    – Rilevo qualcosa, signore.

    – Cristo – sospiro – mostrami le coordinate. – Sono stanco e non provo neanche a nascondere il fastidio nella mia reazione

    – Intersezione settori C20-C19, quadrante cinque, direzione nord.

    Fermo la moto a un incrocio di condotti che si perdono nei bassifondi senza notare nulla di strano. Il mezzo ondeggia a mezz’aria: mi sollevo dalla posizione e abbasso il campo di forza per dare un’occhiata in giro.

    – Secondo il manuale, signore, sarebbe opportuno che…

    – Angel, la regola di ingaggio della Milizia è nessuna regola, e poi non c’è anima viva. È probabile che si tratti di un’interferenza.

    Mentre il terminale elabora la nuova situazione, con la coda dell’occhio colgo un movimento all’imboccatura del tunnel alla mia destra. Con un balzo sono a terra, arma in pugno. La tengo puntata davanti a me, il fascio di luce emesso dal mirino mi illumina la traiettoria: – Guarda guarda chi abbiamo qui…

    Una donna seminuda, senza età, la pelle sporca, il corpo scheletrico: esce dall’ombra e avanza verso di me.

    – Cittadina, stai violando il coprifuoco, rientra nel tuo alloggio o sarò costretto ad arrestarti.

    Come se non mi avesse nemmeno sentito, continua ad avvicinarsi, fino ad appoggiare lo sterno contro la canna della pistola.

    Avverto il cambio di passo di Angel che amplifica le mie scariche di adrenalina perché possa reagire come sono stato addestrato a fare dalla Milizia. Con violenza.

    – Ho detto di rientrare nel tuo buco, subito.

    Sollevo il braccio, le appoggio l’arma alla fronte, tolgo la sicura. Mi guarda con occhi torbidi: la sua passività mi esaspera.

    – Signore, ricevo le direttive dalla centrale di comando – la voce di Angel si insinua nella mente – arrestare o neutralizzare il soggetto. – All’improvviso la donna comincia a piagnucolare. La spingo a terra. La paura nel suo sguardo alimenta l’eccitazione mentre il testosterone e le droghe che Angel manipola in un cocktail esplosivo mi bruciano il sangue. La donna si trascina carponi e arretra verso il buio alle sue spalle.

    Sfilo la mazza e la incalzo: voglio che se ne vada alla svelta, prima che possa farle qualcosa di cui poi mi pentirei. La spingo con l’anfibio oltre la linea d’ombra perché i droni richiamati dai circuiti di Angel non la individuino. Rinfodero la pistola.

    All’ingresso del tunnel la sollevo come un sacco e la schiaccio contro la parete con il peso dei miei cento chili, poi la lascio cadere a terra e sollevo il braccio per colpirla.

    Ho il fiato mozzo per la sete di violenza e vedo rosso. – Arrestare, neutralizzare. – La voce di Angel mi rimbomba nel cranio. So che, dopo un primo colpo, non mi fermerei più.

    Con uno sforzo di volontà di cui, giunto a quel punto, non mi credevo più capace, spezzo l’incantesimo: – Riavvia il sistema di guida.

    Riabbasso il braccio con lentezza e la guardo: – Vattene, sparisci, considerala la tua serata fortunata: altri al posto mio ti avrebbero già ammazzato di botte e portato al Mattatoio.

    Ronzio di droni in avvicinamento; rinfodero la mazza, richiamo la moto ed esco dal tunnel quasi di corsa.

    – Computer, aggiornamento.

    – Signore, ho rilevato la sua infrazione delle regole di ingaggio della Milizia: devo fare rapporto alla sezione disciplinare.

    – Non c’era minaccia per il sistema, Angel, era solo una pazza sbandata.

    – La Milizia non tollera valutazioni personali che impediscano l’esercizio della disciplina, signore: per questi errori c’è il rieducatore neuronale.

    Sfilo la spilla dal basco e la conficco nell’avambraccio destro fino a toccare un punto preciso dell’impianto biomeccanico. Conosco la strada, ho una piccola piaga in corrispondenza del punto di inserzione che ho individuato. L’ho fatto così tante volte che non riesce a cicatrizzare.

    Il momento di silenzio che segue mi conferma che ho resettato il circuito di trasmissione dati di Angel. È un attimo, una minima interferenza nel flusso che ogni miliziano trasmette alla centrale. Nessuno si accorgerà di niente.

    – Sergente, abbiamo un codice rosso nell’area riciclaggio inerti.

    Conosco il posto: impianti di vagliatura e frantumazione automatizzati di dimensioni colossali, disposti in serie parallele che sembrano non avere fine, sorvegliati ventiquattr’ore su ventiquattro da circuiti elettronici di ultima generazione. Nastri e tramogge si intersecano e si sovrappongono. Trattano senza sosta inerti per produrre materiali da costruzione e terra, che poi contaminiamo con agenti chimici letali e spargiamo con i droni nei quadranti che pensiamo infestati dai ribelli.

    – Siamo prossimi alla zona, signore, il comando richiede il nostro intervento, potrebbe trattarsi di un’azione di guerriglia.

    – Angel, conferma alla centrale che ci muoviamo e allerta i droni in zona.

    Il tatami al centro di addestramento dovrà aspettare. La cosa mi disturba, sconvolge i miei piani. Del resto sono il miliziano più vicino all’impianto e non posso tirarmi indietro. L’alternativa è accettare di essere frustato a sangue con una corda ricoperta di polvere di quarzo. Ricordo ancora le urla dell’ultimo cadetto punito dai Killing Machine nel cortile principale della Sede Centrale. Riprendo il mio posto in sella e mi lancio verso il punto di impatto.

    – Computer, è confermata la presenza dei ribelli?

    – Signore, i dati non sono chiari: è in corso un’azione di disturbo ma i droni non riescono a inquadrare bersagli.

    – Come sarebbe a dire?

    – I sensori percepiscono qualcosa, ma all’apparenza non c’è nessuno sui nastri.

    Brucio la distanza.

    – Attiva il segnalatore di movimento e mostrami la posizione dei droni.

    – Affermativo, signore, procedo.

    – Invia al circuito di sorveglianza i nostri codici identificativi perché non ci sparino addosso e alza gli scudi.

    Indosso il visore e attivo la tacca di mira: sullo schermo già pulsano le luci di posizione degli apparecchi della sorveglianza. Sorvolo l’area di conferimento della mostruosa installazione che batterie di riflettori illuminano a giorno. Mi sembra impossibile che qualcuno sia riuscito a infilarsi qui senza farsi notare.

    – Computer, aggiornamento.

    – Nessuna attività in questo settore.

    Continuo a spostarmi tra i vagli: passo sopra e sotto i nastri magnetici mentre i robot mi seguono compatti a breve distanza, ricalcano le mie traiettorie e si spingono con le sonde a verificare anche gli angoli più irraggiungibili, sotto agli impianti mobili e dentro le tramogge in funzione.

    – Angel, verifica la segnalazione con la centrale, qui non c’è niente.

    Arresto la moto in prossimità dell’area di stoccaggio della terra contaminata. Sul visore lampeggiano solo le tracce dei droni che ronzano in cerca di bersagli.

    – Signore, i dati sono confermati, la centrale nega il permesso di rientrare.

    All’improvviso noto qualcosa, una distorsione nel campo visivo: un attimo ed è già svanita. Corrugo la fronte. Un’allucinazione? Oppure un’illusione ottica? Forse Angel ha ragione a insistere perché mi decida a osservare le ore di riposo regolamentari. Giro la moto e punto l’arma verso la raggiera di nastri che si protendono dall’ultimo vaglio al di sopra dell’area di stoccaggio: c’è qualcuno appeso come un ragno al telaio di quello principale.

    – Computer, coordinate? – Stringo le cosce per dirigere la moto e punto la pistola a impulsi contro il nastro.

    Le mie parole risuonano forti e chiare al di sopra del brusio dei macchinari: – Chiunque tu sia, fermo, o sparo!

    – A morte la Milizia! – risponde una voce dal nulla.

    Lascio partire un colpo che vorrebbe essere di avvertimento. Una parte del nastro di gomma si liquefa e cede: – Bastardo – mormoro – adesso ti vedo.

    Una scarica di elettricità rivela per un istante una figura umana aggrappata al traliccio di sostegno che si dimena come se il colpo gli avesse fatto perdere la presa. Indossa una specie di tuta dai colori cangianti che lottano per allinearsi, ma deve avere subito danni perché la magia del mimetismo non funziona più.

    I droni di sorveglianza aprono il fuoco e mi superano sui lati.

    L’intruso risale sul tappeto ceroso del nastro e cerca di guadagnare la piattaforma di controllo senza farsi colpire. Il suo equipaggiamento funziona a intermittenza: un po’ lo vedo, ma dopo un secondo sparisce dal visore.

    – Computer, convergere sull’obbiettivo, è disarmato. – Ripongo la pistola e impenno la moto per interpormi tra il sabotatore e le macchine: non voglio che lo ammazzino.

    I robot della sorveglianza smettono di sparare non appena li sopravanzo: taglio loro la strada e affianco la passerella di metallo del vaglio primario. Sfilo le mani dagli alloggiamenti sul manubrio, mi scollego dalla moto e abbasso il campo di forza. Un lampo sullo schermo mi indica la posizione dell’uomo in fuga: mi lancio nel vuoto.

    L’impatto è assorbito dal corpo al quale mi avvinghio. Rotoliamo giù dalle scalette di metallo, saldati nel nostro abbraccio. Sono in piedi appena la caduta si arresta, il peso bilanciato sugli anfibi. Sfilo la mazza e mi avvicino alla figura esanime. Mi chino, lo giro sulla schiena e stringo tra le dita lo strano tessuto multicolore. Con un guizzo mi sorprende e prova a rifilarmi un calcio al basso ventre. Mi salva l’istinto, affinato in anni di scontri e pestaggi, e con una torsione dirotto la pedata verso le gambe. L’altro si rialza: sa di avermi sbilanciato. L’afferro alla cieca e strattono mentre sollevo la mazza e mi preparo a fare male per impedire la fuga: il cappuccio del sabotatore si abbassa e rivela le lentiggini di una ragazzina. Un attimo di esitazione, poi mi fermo: le sfonderei il cranio al primo colpo. Angel compensa la pausa e amplifica la mia aggressività con le sue secrezioni chimiche.

    – Signore, movimento a ore undici. – Non faccio in tempo a girarmi. Qualcosa mi urta e mi stende nella polvere sotto al vaglio. Provo a risollevarmi, ma piante rampicanti che bruciano la pelle esposta e si insinuano nella stoffa della divisa mi bloccano in una presa salda e cercano di farsi strada verso la gola. Mi dimeno per contrastare l’azione dei vegetali e come un folle colpisco i punti nel terreno da cui vedo scaturire i getti, almeno quelli alla portata sempre più corta del mio braccio.

    Riesco a indebolire i rampicanti quanto basta per estrarre il coltello da combattimento dall’anfibio e fare a pezzi il resto. Frastornato, sento crescere in me la rabbia per essermi fatto giocare come una recluta alle prime armi. Cerco la ragazza con gli occhi. Un veicolo militare con le insegne delle Rivoluzione Verde l’ha raggiunta. Il bicipite del pilota che sporge dall’abitacolo è ricoperto da tatuaggi: ribelli.

    – Angel, chiedi rinforzi e poi ricollegati in modalità guida.

    Richiamo la moto, mentre il veicolo dei sabotatori si allontana a zig zag tra i nastri. La mazza salda nel pugno, mi lancio all’inseguimento, tallonato dai robot che sparano sul bersaglio e coprono il mio avvicinamento.

    Il velivolo dei guerriglieri è agile e compatto, scarta tra i macchinari con facilità e mi costringe a bruschi testacoda per non perderne la scia. Gran parte dei droni di sorveglianza si schianta contro gli impianti in un’esplosione di scintille.

    Ritorniamo all’area di stoccaggio. Il pilota impenna e scoda nel tentativo di disorientarmi, mentre il passeggero si volta, armato di mitragliatore. Parte una raffica, poi un’altra, stavolta più vicina.

    – Signore, ricevo dati dalla centrale, arrivano rinforzi.

    Prendo nota dell’informazione e mi butto in picchiata per scansare una pioggia di spine di acacia e cercare riparo dietro una gigantesca tramoggia di alimentazione. Che succede? Non ho mai visto queste armi non convenzionali nelle mani dei ribelli.

    – Angel, verifica nel database se questo tipo di munizioni vegetali è già stato usato in combattimento contro la Milizia. – Non appena l’ultima si conficca nella pelle di metallo dell’impianto, riparto a tutta velocità sulle tracce dei fuggitivi.

    Come un grosso insetto il veicolo dei guerriglieri si libra sopra i container di terra contaminata impilati nell’area di stoccaggio. Il passeggero e la ragazzina calano qualcosa. I droni prendono posizione intorno a me, armi spianate.

    – Fermi, o darò ordine di sparare per uccidere.

    Questa volta è il pilota a puntare il mitragliatore.

    Un lampo mi abbaglia per un attimo, ma subito riapro gli occhi: il veivolo dei ribelli si avvita in una lenta spirale, si schianta contro i container e rovina al suolo con il suo carico umano.

    Angel mi annuncia che abbiamo compagnia: – Sono arrivati i rinforzi, signore. – Alzo lo sguardo: nel cielo è comparso un blindato nero privo di segni di riconoscimento.

    – Si è scomodato il grande capo in persona – mormoro – Angel, coprimi con i droni. – Bene, a questo punto è sicuro che le cose andranno a puttane…

    Non ho intenzione di fare gli onori di casa: volto le spalle al mezzo militare che atterra fra gli impianti e mi avvicino ai corpi stesi al suolo. Il pilota ha ripreso conoscenza ma, a giudicare da come si lamenta, deve soffrire molto perché l’impatto lo ha proiettato fuori dell’abitacolo e nella caduta si è spezzato le gambe. Il moncone del femore sinistro sporge dai pantaloni. Il compagno non è stato più fortunato: è incastrato sotto al velivolo semidistrutto, che lo inchioda al suolo e gli comprime il bacino. Il colorito è già cinereo: ne avrà per poco. Meglio per lui.

    Mi concentro sulla ragazzina che, sbalzata a terra dall’impatto, è finita distesa sui sacchi di materiale inerte contaminato ai piedi dei container. La raggiungo ad ampie falcate, seguito dal ronzio delle mie guardie del corpo, pronte a incenerire all’istante i prigionieri al minimo cenno di ostilità, anche se dubito che questi tre, ormai, possano nuocermi in qualche modo.

    Incuriosito dalla strana tuta che indossa, mi protendo a sfiorarla per saggiarne la consistenza. Chissà se i nostri tecnici la conoscono, dovrei consegnarla perché la possano esaminare. La ragazza si ritrae, un’espressione tra il terrore e il disgusto dipinta sul viso, e gattona all’indietro sui sacchi per sottrarsi al mio tocco. La squadro perplesso, poi invio ad Angel una muta richiesta di avviare le procedure per protocollare l’arresto della giovane. Per tutta risposta il mio compagno riprende a pomparmi in circolo veleno: sferzato dagli spasmi muscolari, la afferro per i capelli e la trascino davanti ai suoi compagni moribondi. Mentre la obbligo a strisciare sul terreno, la ribelle si divincola, mugola di paura e cerca di costringermi ad allentare la presa conficcandomi le unghie nella mano che la stringe. Non provo dolore, ma inspiro ed espiro piano per mantenere il controllo.

    Rumore di passi alle mie spalle: – Puniscila, soldato. – Il comando proviene dalla direzione del blindato atterrato poco distante. Non mi volto e rimango immobile sull’orlo dell’abisso: prossimo a cedere di schianto alla sete di sangue che sento montarmi nel petto, mi concentro per rimanere lucido.

    Il tono è glaciale: – Sei autorizzato a fare di lei quello che vuoi. – Al suono di quella voce il battito cardiaco sale alle stelle. Prendo la ragazza per il collo, sottile e fragile. Mi tremano le mani: un solo movimento e morirà.

    No, non accadrà, non questa sera.

    Angel percepisce la mia ribellione e reagisce, subdolo e invasivo: cerca di piegarmi, di spingermi oltre la soglia, di sgretolare la mia ostinazione per obbligarmi ancora una volta a obbedire. La testa martella: devo inventarmi qualcosa, e subito, o pagherò per la mia indecisione sul campo e sarò scorticato davanti a tutta la Milizia.

    Tre paia di anfibi entrano nel mio campo visivo. Concentro lo sguardo sul pugno sanguinante che immobilizza la ragazzina. La prigioniera ha smesso di dibattersi e piagnucolare e fissa con occhi sbarrati e la bocca che trema gli uomini che ci hanno raggiunti.

    I droni che fluttuano intorno a noi si allontanano per riassumere la posizione difensiva alle mie spalle, a distanza di sicurezza.

    – Sergente Dead Daisy! – Poppy Killer mi si para davanti, la bocca distorta in una smorfia. – Che cosa le prende? Perché non ha ancora giustiziato questa feccia?

    Ci separano solo un paio di centimetri. Non posso ignorarlo, così sollevo il viso e, attraverso la nebbia che mi ottenebra la mente, vedo la mano guantata insinuarsi sotto la manica della divisa e avvolgersi attorno al mio avambraccio destro. Il suo pollice massaggia con sensualità il punto in cui Angel pulsa tra i miei muscoli in tensione. Sto per esplodere, ma non voglio colpire la ragazza. Mollo la presa, scanso il comandante e mi dirigo con passo deciso verso il ribelle che giace nel suo sangue, schiacciato dal veicolo. Mi posiziono a cavalcioni sul suo petto e comincio a tempestarlo di pugni fino a quando non sento cedere le ossa sotto i colpi. Rimango carponi, a boccheggiare per lo sforzo e la nausea, mentre il corpo sotto di me è scosso dagli ultimi fremiti. Sarebbe morto comunque dissanguato. Angel allenta la presa.

    Poppy Killer è inginocchiato al mio fianco: – Questo è il Dead Daisy che conosco.

    Mi accarezza la nuca.

    – Erano armati con essenze vegetali non convenzionali, signore – sussurro.

    Il comandante ferma la mano.

    – Di che genere?

    – Spine – ansimo – spine di acacia in grado di perforare il metallo. Qualcuna è ancora conficcata in quel vaglio primario là in fondo.

    – Killing Machine Otto, eseguire verifica.

    Una delle guardie che lo accompagna si allontana per controllare.

    – E la ragazza indossa una tuta mimetica speciale, comandante – la mia voce poco più di un rantolo – si confonde con l’ambiente.

    – È per questo che non voleva ammazzare quel pidocchio, sergente?

    Poppy Killer fruga in una tasca della divisa nera e riprende ad accarezzarmi come farebbe con un cane: un bruciore intenso si dispiega lungo l’occipite dove il bastardo mi striglia con un guanto diamantato.

    – Sì, signore – la risposta mi esce a fatica – ho pensato che ci sarebbe servita di più viva, che morta. Anche l’altro, lo storpio. Possiamo interrogarli.

    Dopo qualche attimo di silenzio, Poppy Killer accoglie la mia risposta con una risatina: – Sergente, lei non deve pensare, ma agire come un miliziano.

    Il dolore dello sfregamento sulla carne viva. Non muovo un muscolo e mi guardo le mani, sporche di sangue, le nocche spellate. Apro la bocca in un grido muto.

    – Signore, abbiamo trovato questa. – Il tirapiedi di Poppy Killer ha recuperato una delle spine di acacia dalla paratia del macchinario e la porge al comandante, che la afferra e la rigira tra le dita.

    – Mmm… Dura come l’acciaio, ma più lunga di quelle che questi straccioni hanno usato fino a ora.

    Mi toglie la mano dal collo. Respiro con la bocca aperta: la sensazione di mille aghi roventi conficcati nei muscoli mi fa impazzire.

    – Sergente, a pensarci bene forse la sua condotta non è stata poi così deprecabile. Comunque sarà opportuno che faccia ricalibrare l’impianto biomeccanico: mi sembra che i suoi indici di reattività non siano in linea con il nostro codice militare. – Il comandante si rialza. – Non tollero debolezze nei miei soldati. Non è la prima volta, a quanto mi riferiscono, che si trattiene dal somministrare la giustizia a chi attraversa il cammino della Milizia e, le ricordo, del Governo Supremo.

    Con fatica mi sollevo dal cadavere del ribelle e mi metto sull’attenti mentre Angel ricalibra i parametri fisiologici e rende tollerabile il dolore.

    – Soldati! – Poppy Killer apostrofa i suoi uomini – Portate qui i due prigionieri.

    Il primo Killing Machine afferra le gambe fratturate del pilota steso a terra e lo trascina tra le urla ai piedi del comandante. L’altro solleva la ragazzina per il bavero e la costringe ad alzarsi e ad avvicinarsi a noi.

    – Sergente – le pupille scure di Poppy Killer brillano di luce fredda e sembrano di vetro – quale di questi pidocchi ritiene più utile alle indagini?

    Il mio sguardo incrocia per una frazione di secondo quello della ribelle, stravolto dal terrore.

    – La donna, signore – rispondo con un tono che spero il più possibile neutro.

    Il comandante appoggia l’anfibio sul moncone di osso che spunta dalla coscia sinistra dell’altro prigioniero e preme con forza. Immobilizzato da uno dei due Killing Machine, l’uomo può solo gridare. Per sua fortuna sviene quasi subito.

    – Molto bene. Killing Machine Otto – Poppy Killer sembra sull’orlo di un orgasmo, il labbro superiore scosso da un tremito – caricate il pilota, lo portiamo al Mattatoio.

    Cazzo, prendete lei!

    – No, signore… – intervengo d’istinto.

    Il manrovescio di Poppy Killer mi spacca un labbro.

    La dose massiccia di benzodiazepine che Angel mi pompa nelle vene mi inchioda sul posto e mi impedisce di reagire: pagherei la mia follia con una morte violenta e dolorosa, ma l’arma non ama sprecare i suoi uomini.

    – Sergente, non so che cosa le prenda, ma non tollero che si discutano i miei ordini. Questa puttanella non reggerebbe al trattamento speciale per più di due minuti, mentre il suo compagno mi sembra più resistente e più facile da lavorare, basterà giocare un po’ con quel femore…

    Ondate di nausea cominciano a risalirmi dalla bocca dello stomaco e non è solo l’effetto delle manipolazioni del mio sistema endocrino. Conosco a memoria la procedura, so quello che sta per accadere: chiudo gli occhi, il gusto acido della bile sulla lingua.

    – Killing Machine Tre: puoi divertirti con lei, poi tagliale la gola. – Poppy Killer si volta verso di me: – Dead Daisy, il suo compito è assistere e poi amputare le dita delle mani, che mi porterà. Non è necessario che aspetti che sia morta, se preferisce. – Zoppica verso il veicolo. – Mi farete poi rapporto al blindato. Non metteteci tutta la notte.

    – Signore – Angel riecheggia nella mia mente. Il cuore accelera i battiti, la pressione sanguigna aumenta: in pochi secondi faccio fatica a respirare. Non oppongo resistenza, mi abbandono e permetto al mio compagno artificiale di offuscarmi la mente e di sottomettere ancora una volta la mia coscienza, perché altrimenti non sarei capace di eseguire ciò che mi è stato ordinato. E quando tornerò in me, non voglio ricordare quello che ho fatto e sentire il peso del disprezzo per me stesso.

    Il miliziano getta a terra la prigioniera e le salta addosso come un animale. Lei gira il viso a cercare i miei occhi; osservo la scena immobile come un automa mentre la ragazza spalanca la bocca in un grido che immagino una richiesta di aiuto. Non percepisco più alcun suono, non sento più niente, non vedo più nulla. Il sangue romba nelle orecchie, i muscoli si contraggono con violenza, la gola è chiusa. Estraggo il coltello d’assalto dall’anfibio e mi inginocchio accanto ai due corpi che si dimenano. Poi perdo ogni contatto con la realtà.

    – Ben fatto, signore. – Dopo avere liberato il mio demone, ancora una volta Angel mi riporta indietro dall’abisso.

    Killing Machine Tre è di nuovo in piedi, lordo di sangue. La ragazza giace scomposta al mio fianco, gli occhi sbarrati verso il cielo, la gola tagliata da un orecchio all’altro.

    Stringo il coltello sporco: le dita mozzate della mano, che reggo in grembo, sono sparse nella polvere. Soffoco un conato di vomito e le raccolgo. Pulisco la lama su quella strana tuta cangiante che indossa e che non avevo mai visto prima, poi la rinfodero e mi avvio al blindato con passo incerto, seguito come un’ombra dall’altro miliziano.

    Poppy Killer è seduto sul sedile del passeggero e fuma una sigaretta. Stende il braccio verso di me: – Le dita, Dead Daisy.

    Gli appoggio sul palmo i moncherini. Il comandante ne saggia la consistenza con il pollice.

    – Perché l’ha sgozzata lei, sergente? Non erano questi gli ordini.

    – Non saprei, signore, non ho memoria del fatto. – Sguardo a terra, voce bassa. – Ero in modalità combattimento.

    – E non mi ha portato tutto quello che le ho chiesto, mi pare. Qui ne conto solo cinque.

    Poppy Killer scende dal blindato e si avvicina fino a sfiorarmi. Per fissarmi negli occhi deve alzare la testa.

    – Soldato, adesso lei alza il culo, torna alla carcassa di quella cagna e stacca anche le altre dita, oppure provvederò di persona a tagliare le sue! – La voce è sommessa ma vibra d’ira.

    Nel torpore indotto dai calmanti mi sento replicare: – Signore, gli altri trofei si sono danneggiati nella lotta. Killing Machine Tre li ha calpestati. Non erano degni di essere recuperati.

    Dopo qualche secondo Poppy Killer fa un passo indietro, si volta e sale nel blindato, seguito dal suo cane da guardia. L’altro Killing Machine è alla guida.

    – Questa storia non finisce qui, Dead Daisy.

    Il vetro antiproiettile si oscura: non posso vedere il suo viso, ma so che lo sguardo del comandante è puntato su di me mentre il velivolo assume l’assetto di navigazione per poi sollevarsi nel cielo notturno con una vibrazione sorda.

    Rimango solo. I droni di sorveglianza si riavvicinano a mia difesa.

    – Angel, bisogna incenerire i cadaveri.

    – Subito, signore.

    Mi fermo ai piedi della ragazzina mentre aspetto la moto. Guardo la mano che non ho mutilato: integra, la pelle liscia, le dita affusolate. Non ce l’ho fatta, non potevo. Non so nemmeno io come ci sia riuscito, ma ho posto fine alle sue sofferenze. Sfilo la spilla dal basco e la conficco con rabbia nel cuore di Angel. La lascio lì, voglio essere certo che di questo mio gesto non resti traccia nel computer centrale.

    Monto in sella. La squadriglia automatizzata di decontaminazione arriva dopo pochi minuti e riduce in polvere le tracce dell’osceno festino. Rialzo il campo di forza e, con un groppo in gola, mi dirigo verso il mio alloggio al campo militare. Per stanotte ne ho abbastanza.

    Capitolo II

    La voce metallica dell’unità di controllo della mia abitazione mi accoglie mentre sigillo la porta alle mie spalle: – Bentornato a casa, sergente.

    Appoggio la fronte contro i pannelli, esausto: nelle narici puzza di sudore e di sangue secco. Passo una mano sulla nuca: spesse croste si sono formate là dove si è raggrumato quello che Poppy Killer ha fatto colare con le sue carezze brutali.

    Avanzo a tentoni nel corridoio buio. Qualcosa si insinua tra le caviglie, morbido ed elastico. Sorrido e mi accuccio per accarezzare il gatto, che è venuto a salutarmi. Lo sollevo e gli concedo una grattatina fra le orecchie. L’ho trovato nell’hangar. All’inizio non lo volevo, troppo rischioso, troppo compromettente. Ma non ho avuto cuore di abbandonarlo al suo destino e ora l’idea che ci sia qualcuno a casa ad aspettarmi mi scalda il cuore. Non gli ho mai dato un nome, però.

    Mi infilo in studio con l’animale in braccio. Gli anfibi lasciano macchie scure sul pavimento.

    Cerco il piccolo vano mimetizzato tra i dispositivi elettronici che ingombrano la scrivania. All’interno digito il codice sulla minuscola console che attiva una scarica di onde elettromagnetiche destinata a confondere i sensi di Angel.

    – Signore? – La sua presenza nella mia mente si fa insistente e ossessiva per qualche momento, poi scema di intensità e scompare.

    – Tutto ok, Angel, modalità stand-by, siamo in riposo.

    Attendo qualche secondo: il segnale di disturbo dovrebbe essere operativo.

    – Computer, luce.

    L’ambiente si rischiara e appare nudo e spoglio come la cella di un monaco. Sfilo il coltello d’assalto e faccio il gesto di conficcarmelo nell’addome, fermandomi a un millimetro dal bersaglio. Nessuna reazione, la mente resta sgombra, niente sostanze in circolo. Bene, Angel è neutralizzato.

    Un altro codice sulla console e la proiezione olografica che maschera la stanza si smaterializza.

    Il gatto scivola a terra con eleganza e va a sdraiarsi sul divano in pelle contro la parete opposta.

    Mi sfilo gli anfibi e le calze. Adoro il contatto dei piedi nudi sul pavimento di legno. L’ho messo ovunque, lavorando di notte. Ho recuperato il materiale necessario un po’ alla volta, per non dare nell’occhio, prima che fosse conferito all’incenerimento dopo i sequestri. In ogni stanza il colore e il profumo del legno sono diversi. La cosa non mi disturba affatto, anzi. Non ho voluto tappeti per godermi questo mosaico. Noto con fastidio che i ripiani della libreria stracarica si sono incurvati: una di queste sere mi riprometto di spostare ancora un po’ di volumi in camera da letto. Li metterò per terra, a portata di mano.

    Chiedo al computer un concerto per pianoforte, sbottono la divisa e mi avvio verso il bagno. Prima di buttarmi sotto la doccia aspetto che il vapore saturi l’ambiente e appanni lo specchio antico e le maioliche che decorano le pareti. Quando il getto di acqua bollente mi investe, rasento la beatitudine.

    Dopo essermi lavato, resto seduto sul marmo per un pezzo, la schiena appoggiata al vetro bagnato, le braccia sulle ginocchia, gli occhi chiusi. Il piccolo felino si struscia contro le mie caviglie e miagola. Già, è ora di cena. Esco gocciolante dal box e mi avvicino allo specchio per esaminare il collo. Pesco da uno stipetto garze e disinfettante e improvviso una medicazione d’emergenza. Sfioro il labbro spaccato dal ceffone. L’interno dell’avambraccio destro ha la famigliare sfumatura bluastra in corrispondenza dell’innesto biomeccanico. La piaga è gonfia e dolorante al tatto. Ripulisco alla bell’e meglio anche lì. Mi passo una mano sulla vecchia cicatrice che mi attraversa l’inguine dall’ombelico a metà coscia, un solco raggrinzito e violaceo ricordo del periodo di addestramento. Ogni tanto si risveglia perché non mi dimentichi della sua esistenza e incomincia a pulsare come se avessi un corpo estraneo conficcato nell’addome di cui non riesco a liberarmi.

    Nudo, mi dirigo in cucina, il gatto alle calcagna. Gli allungo una generosa razione di crocchette mentre aspetto che si scaldi l’acqua per il té. Ho la bocca dello stomaco chiusa da un nodo e non ho appetito. Sorseggio il liquido ambrato, riempio una bottiglia e annaffio i Lithops ammassati in vasetti di ceramica raku ai piedi della vetrata. Ho sempre avuto una passione per le pietre viventi dalla superficie variegata e la ricca fioritura: perdonano molto e ricambiano con affetto. Perfette per me. Alcune le ho coltivate da seme, con le mie mani. Sembrava una missione impossibile e invece… Sorrido compiaciuto ai miei piccoli tesori proibiti.

    Ritorno in studio, zoppicando, la tazza in mano. L’unità di controllo dell’appartamento accende e smorza l’illuminazione mentre segue il mio peregrinare da un ambiente all’altro.

    Mi siedo alla scrivania. Il concerto è finito. Pensavo di crollare dal sonno, ma la stanchezza ha ceduto il passo all’inquietudine. Sfoglio senza interesse la relazione preliminare sulla realizzazione delle opere previste per il giubileo del Giorno del Nuovo Inizio. Mi rialzo e mi dirigo verso la camera da letto, deciso ad abbandonarmi sul futon nero al centro della stanza. Altri vasi di cactacee contendono spazio a libri impilati qua e là sul pavimento. La fioritura di un’orchidea oscilla sopra il letto dalla zattera ancorata al soffitto. L’armadio laccato con i draghi conserva le divise e qualche abito civile. Il resto della stanza è occupato da un paravento di legno intarsiato che cela allo sguardo la rastrelliera delle armi.

    Mi lascio cadere a peso morto sul futon. Supino, allargo braccia e gambe, lascio sfuggire un sospiro e aspetto il sonno, che non viene. Non so quanto tempo passo in queste condizioni.

    Uno scatto di reni e mi alzo: con passo nervoso torno in studio, mi siedo alla scrivania e accendo il terminale.

    La videochiamata resta in attesa qualche secondo.

    Il viso assonnato di una donna riempie lo schermo: – Sì?

    – Fleur du Mal, sono io.

    – Il mio generale! – gli occhi a mandorla si illuminano – Quando chiami a quest’ora ti senti solo o è successo qualcosa di brutto.

    – Sei impegnata? – sorrido – C’è qualcuno?

    – Non preoccuparti, per te sono sempre libera. Vuoi venire a farmi compagnia?

    – Può darsi, se hai da offrirmi quel sake che mi hai fatto assaggiare l’ultima volta.

    Lo sguardo si fa sornione: – Quello e altro, per te, generale.

    – Ok, principessa, arrivo.

    Fleur du Mal si inchina con le guance appena imporporate e interrompe la conversazione.

    Infastidito dalla cicatrice, mi infilo la tuta da allenamento. Calco in testa un berretto con visiera e raccolgo la sacca.

    Prima di uscire dall’alloggio ripristino la proiezione olografica che protegge la mia tana da sguardi indiscreti e controllo lo stato di Angel. Il mio compagno è sempre in stand-by; ancora sotto l’effetto del bombardamento elettromagnetico a cui l’ho sottoposto, i circuiti trasmettono al computer centrale della Milizia un falso flusso di dati rassicuranti sull’ordinaria serata di un bravo soldato.

    La guardia al check point mi ferma: – Buonasera, signore, dove è diretto?

    – Settore C15 per una seduta di allenamento.

    Il miliziano non fa obiezioni: i nostri centri di addestramento sono aperti giorno e notte.

    Le strade intorno al campo militare sono deserte, l’aria è rovente malgrado sia notte: nessuno viola il coprifuoco. La superficie uniforme e anonima delle torri in ferrocemento e vetro scorre via come un nastro, scandita solo dalle proiezioni olografiche che segnalano il passaggio da un settore all’altro. Non importa la direzione scelta: ovunque posi lo sguardo il paesaggio non cambia. Disseminato di riflettori e impianti di sorveglianza e pattugliato dai droni, è una cupa prigione a cielo aperto.

    Dopo pochi chilometri mi infilo in un tunnel abbandonato fuori mano, tra due punti di controllo, e lascio la moto in un anfratto, protetta da un deflettore che la mimetizza con le ombre.

    Mi calco il berretto sul viso e proseguo verso il fondo del tunnel che so essere un punto di accesso al labirinto di gallerie in disuso che protegge la Zona Franca. Chi la frequenta sa come arrivarci senza perdersi nei cunicoli, gli altri ne stanno alla larga. Le ronde notturne della Milizia e i droni non sono piacevoli incontri.

    Percorro zoppicando l’ultimo tratto in discesa fino alla balconata che si apre sulla caverna satura di nebbia artificiale. Si intravedono le abitazioni, dalle forme irregolari, annidate nella roccia.

    La piattaforma ascensionale accetta il mio codice e mi deposita sul fondo, dove il vapore è più rarefatto. Come sempre mi fermo un istante per concedermi di apprezzare i dettagli delle porte e delle finestre di dimensioni irregolari, dei colori giustapposti a effetto e degli inserti e decorazioni in ceramica e vetri multicolori. Il silenzio che regna sulla Capitale in questo momento della notte fa da contrappunto alla chiassosa vivacità di questa anomalia: cerchi alcol, droga, sesso? Vuoi sfogare una perversione che non puoi confessare? Questo è il posto giusto. – Chiedi e ti sarà dato – è il motto della Zona Franca.

    In più occasioni mi sono chiesto perché la Milizia non abbia massacrato tutti da tempo e raso al suolo l’abominio, poi ho scoperto che in realtà il posto è frequentato in incognito da molti al di sopra di ogni sospetto, ai più alti livelli, e anche dai militari, in cerca di delizie proibite. Non sono sicuro che Poppy Killer si sia mai interessato a fondo della questione, ma credo che chiuderebbe un occhio in ogni caso: – Che gli uomini si divertano – direbbe – sesso e droga affinano l’esercizio delle armi.

    Avvolto dalla nebbia, fendo la folla e passo da un piano all’altro, tra fondi e locali reclamizzati da luci decadenti o neon che accecano, a seconda che offrano i piaceri della carne o quelli della chimica, fino a individuare un piccolo modulo bianco incastonato nella parete nord. Accelero il passo per raggiungere la scala che sale al pianerottolo. Busso piano. Non appena mi riconosce attraverso la videocamera all’ingresso, Fleur du Mal spalanca la porta e si inchina.

    – Benvenuto, mio generale.

    Mi chino per evitare lo stipite e richiudo alle mie spalle. Ha i capelli sciolti, non un filo di trucco sul viso e indossa una semplice vestaglia di seta rossa con peonie ricamate. Mi abbraccia, poi fa scivolare le mani nei pantaloni della tuta e mi afferra le natiche nude.

    – No, Fleur, non sono qui per questo, stanotte.

    Si ritrae imbronciata.

    – Quanti clienti hai mandato via per me?

    – Non è questione di soldi, lo sai – dice a bassa voce.

    Nota le nocche scorticate della mano destra. – Cosa è successo? – Mi lancia un’occhiata allarmata, ma non si aspetta una risposta. Sa della Milizia, sin dai nostri primi incontri quando, dopo il sesso, fissava l’impronta livida di Angel o faceva scorrere le dita sulla cicatrice violacea e nodosa.

    Mi guida verso la sala che è anche la sua camera da letto. Essenziale, elegante, raffinata. Pannelli di carta di riso separano gli ambienti. Un morbido tappeto bianco occupa il centro del locale, circondato dai cuscini. In un angolo trionfa una singola orchidea in piena fioritura. Alle pareti sono appesi diversi nudi che la ritraggono: carboncino, grafite, acquerello.

    Accende un incenso. Mi siedo a gambe incrociate sul tappeto. Fleur mi aiuta a liberarmi della giacca della tuta e mi accarezza con dita leggere come ali di farfalla.

    – Aspetta qui.

    Sparisce dietro un pannello per tornare poco dopo con una cassettina.

    – Che cosa stai facendo?

    – Mi prendo cura di te, bisogna che qualcuno lo faccia.

    – Smettila, mi sono già medicato da solo, non è niente di grave. Non voglio quella porcheria addosso.

    Senza dare il minimo segno di avere sentito, comicia a massaggiarmi le nocche sbucciate con i suoi intrugli. Grugnisco, ma la lascio fare. Lenisce il bruciore, anche se non cancella dalla mente la sensazione che ho provato nell’usare quella mano come un’arma per sfondare il cranio di un uomo. Quando la ragazza tenta di applicare i suoi unguenti sulla piaga nell’avambraccio, la blocco: ho il terrore che possa interferire con Angel. Se si avviasse il reset in questo momento sarei un uomo morto.

    Gli occhi a mandorla si stringono.

    – Ti ho fatto male? – mormoro – Scusami.

    Non risponde; mi toglie il bendaggio dal collo e lascia sfuggire un gemito strozzato, poi le sue mani delicate iniziano un massaggio che si irradia fino alle spalle. Infine si abbandona contro di me, le braccia sul mio petto, le dita che stuzzicano i peli.

    – Ok, principessa – le dico – adesso spogliati.

    Fleur si ritrae, lascia cadere la vestaglia e si offre con uno sguardo in cui leggo eccitazione e anticipazione. Poso le mani sui suoi fianchi: – Sdraiati – e lei schiude la bocca in un sorriso di trionfo.

    Mi alzo e vado a rovistare nel piccolo baule che tiene in un angolo su una stuoia. Quando mi vede ritornare con carta e matite cambia espressione, la bocca diventa una linea sottile.

    Ammucchio un po’ di cuscini e mi sistemo comodo, le gambe allungate, in modo che la cicatrice non mi dia troppo fastidio.

    – Metti le braccia oltre la testa e guarda verso di me. – Le prima impressione non mi soddisfa: – Apri le gambe – le chiedo mentre comincio a prendere le misure – e rilassati.

    – Avrei dovuto confermare i tre appuntamenti che ho cancellato – sussurra – anziché perdere tempo con te.

    – Forse – le solletico un piede con il pennello – me lo ripeti sempre, ma hai detto che non ti interessano i soldi.

    – Mentivo – distoglie lo sguardo e fissa il soffitto – deformazione professionale.

    Restiamo in silenzio fino a quando non finisco il disegno preparatorio. Questa volta voglio completarlo ad acquerello. Scelgo i colori con cura. Fleur si stira e tamburella con le dita sul tappeto.

    – Stai ferma – sbuffo – non cambiare posizione.

    – Lo sai che mi annoio. – Si rimette giù e si abbandona languida.

    – Però i ritratti li tieni – ribatto mentre intingo il pennello – allora, che succede qui in giro?

    – Dopo il rastrellamento in superficie di tre settimane fa, nulla di speciale. Gli affari stagneranno per un po’ e poi tutto tornerà come prima.

    – Almeno fino a quando ci saranno ospiti al Mattatoio – mormoro.

    – Che cosa?

    – Niente, pensavo ad alta voce. – Non voglio che sappia più del necessario: dal conoscere i segreti del Mattatoio al finirci prigionieri il passo è breve.

    – Hai più visto quel porco di Ophrys? – chiedo – Ti prego, cerca di non muoverti, ho quasi finito.

    Un sospiro. – Sì, è venuto da me un paio di volte.

    – Vi siete divertiti?

    – Geloso? – Svelta come un gatto Fleur si solleva e mi fa saltare dalle mani il blocco da disegno con un calcio.

    Afferro la sua caviglia sottile: – Non mi provocare, principessa, scherzi col fuoco. – Con la mano risalgo lungo l’interno della coscia morbido come seta, gli occhi fissi nei suoi. – Da brava, rimettiti in posa, fammi finire questo ritratto. Poi me ne vado.

    – Puoi restare ancora – quasi implora – se vuoi.

    Recupero carta e pennelli e riprendo il lavoro.

    – Allora – insisto – dicevi di Ophrys – e aggrotto la fronte.

    – Credo che abbia ancora in piedi la sua rete di contatti. Mi parla sempre di partite di semi in arrivo e in partenza dalla Zona Franca.

    – Acacia?

    – Non mi pare, anche se non ne sono sicura.

    – Ma non sai con chi tratti di preciso.

    – Niente nomi, ovvio.

    – Ti ha mai accennato ad affari con i ribelli della Rivoluzione Verde? – le sfioro le dita dei piedi e un fremito percorre il suo corpo.

    – No, certo che no, quelli girano alla larga da qui. Che io sappia non c’è niente nella Zona Franca a cui siano interessati.

    – Se ti dovesse ricontattare, continua a riceverlo e vedi se riesci a cavargli qualche informazione in più. Potrebbe farmi comodo.

    – Davvero lo vuoi? – sussurra e mi guarda con aria triste – E chi ti dice che con me parlerebbe?

    – Andiamo Fleur – distolgo gli occhi, turbato – conosci più di un modo per far cantare anche i morti, non devo certo spiegartelo io…

    Si alza dal tappeto, stavolta decisa: – Per stasera basta. Vuoi del sake?

    Quando mi passa davanti diretta al cucinino le allungo una pacca sul sedere e le strappo un gridolino. Senza che se ne accorga la osservo muoversi, passarsi le mani sui fianchi, gettare i capelli dietro alle spalle con un gesto elegante, poi voltarsi e sorridermi: con te mi sento un altro, principessa.

    – Ecco. – Ha in mano due bicchierini colmi di liquore: per un miliziano è una trasgressione che il regolamento ufficiale non perdona. Tracanno con voluttà. Lo sfregio continua a darmi fastidio: sarà meglio che rientri al campo militare per buttare giù qualche antidolorifico e vedere se riesco a dormire un paio d’ore prima di andare alla centrale operativa.

    Fleur si inginocchia davanti a me e osserva il disegno. Il ritratto è venuto bene, sono soddisfatto. Manca qualche rifinitura, ma rimando alla prossima volta.

    – È bellissimo. – Mi guarda dritto negli occhi con i suoi a mandorla, profondi come la notte.

    – Quando sarà finito, potrai appenderlo con gli altri – le dico.

    Mi rialzo un po’ a fatica e cerco la felpa per rivestirmi.

    – Allora torni presto? – Mi stringe.

    – Non lo so, spero di sì.

    – Solo per parlare e disegnare?

    Non le rispondo e mi sciolgo dall’abbraccio, poi infilo la porta mentre il suo sguardo mi segue in silenzio e mi dileguo nella nebbia.

    – Ancora una serie, sergente!

    L’anziano caporale maggiore scartabella il mio programma di allenamento.

    – È la dodicesima di fila con cinquanta chili – protesto. Sono fradicio.

    – Per uno come te quel peso è ridicolo, non conta un cazzo, Dead Daisy – ribatte Snapdragon. Appoggia le mani sul bilanciere. I nostri sguardi si incrociano. – Forza, signorina, ricomincia.

    Uno, due, tre… I muscoli contratti per lo sforzo, digrigno i denti e sollevo. Mi sembrano cento chili adesso che il vecchio bastardo ha aggiunto buona parte dei suoi.

    – Bravo, vedrai come ti correranno dietro le signore dopo la mia cura.

    Per lo sforzo mi gira la testa al punto che non sento quasi più la confusione tra gli attrezzi della palestra nel centro di addestramento del settore C15. È uno dei più frequentati dei tre a disposizione della Milizia ed è il regno di Snapdragon, che ha svezzato generazioni di soldati. Con molti il maestro ha mantenuto negli anni un rapporto di cordiale cameratismo: è quanto di più vicino ci sia all’amicizia per quelli come noi.

    – Bene così, Dead Daisy, per oggi con i pesi hai finito. Ti ho visto prima al resto del circuito: sei in gran forma. Che altro ti rimane da fare? – mi chiede mentre si liscia i baffi bianchi.

    Con solo tre ore di sonno alle spalle prego con tutte le mie forze che non gli vengano in mente…

    – Ah sì, le flessioni! – Il caporale mi sbatte la tabella di allenamento sul petto. – Centocinquanta, sergente, poi torno e ne riparliamo. – Si allontana per controllare che cosa stia combinando un gruppetto di cadetti poco più in là.

    Mi siedo sulla panca per tirare il fiato, bevo, mi asciugo. Mi passo una mano tra i capelli a spazzola e sul viso: prima di andare in ufficio sarà meglio che mi faccia sbarbare per bene e rifinire il taglio. L’ultimo richiamo disciplinare mi è costato la frusta..

    Prendo posizione sul tappetino e comincio la tortura.

    Voci sguaiate dietro di me: – Ah, ieri sera è andata alla grande!

    – Dai,

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