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April Rose La memoria delle rose
April Rose La memoria delle rose
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E-book186 pagine2 ore

April Rose La memoria delle rose

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Info su questo ebook

Tiziano è il figlio di un imprenditore edile intenzionato ad acquistare una casa abbandonata, di proprietà della bizzarra April. La trattativa mette in luce aspetti inquietanti sulla stessa e sul carattere di Tiziano. Quest'ultimo capirà che per raggiungere lo scopo dovrà scoprire il terribile mistero di April, e dare un senso a 11 giorni di caos e di emozioni. Romanzo surreale che affronta temi psicologici, come il narcisismo dilagante presente nei giovani di oggi, e l'incomunicabilità tipica dei rapporti moderni.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2012
ISBN9788867516469
April Rose La memoria delle rose

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    Anteprima del libro

    April Rose La memoria delle rose - Clara Bartoletti

    Ringraziamenti

    Lunedì

    Suo padre era stato categorico: fatti trovare davanti alla casa e senza troppe storie.

    Tiziano aveva sbuffato, aveva raccattato velocemente la cartellina sulla scrivania, il cellulare, e aveva lanciato uno sguardo a Mauro, il suo collega, che sedeva di fronte a lui.

    Mauro aveva alzato un sopracciglio e fatto spallucce, come dire, tanto lo sai, che con lui non si discute. Mauro era l’ingegnere dell’azienda, un ragazzo biondo, con i capelli a spazzola, e il naso vertiginosamente all’insù, che ricordava, di profilo, certi personaggi manga dei cartoni animati. Indossava sempre magliette vistose, con i fumetti, e forse colpa del suo segno zodiacale, l’Acquario, aveva spesso la testa tra le nuvole. Il padre di Tiziano lo sopportava poco e non si preoccupava molto di darlo a vedere, ma lo teneva in azienda solo perché nel suo lavoro era molto bravo, e i suoi progetti, puliti e perfetti, non avevano mai dato problemi.

    Tiziano invece era il suo venditore, o almeno così suo padre sperava diventasse con gli anni: un perfetto serial seller dell’edilizia. Tiziano invece amava pochissimo quel lavoro, era per lui una costrizione andare a parlare con i potenziali clienti, illustrando i pro e contro dell’avere o meno un bagno o due in casa, o per meglio dire il garage interno o il terrazzo zen.

    Così anche quella mattina la sola idea di andare a fare un sopralluogo per visionare il possibile acquisto di una catapecchia da trasformare in un piccolo e grazioso condominio, lo stava già devastando a livello mentale.

    Però c’era poco da fare, o andare o andare, con suo padre, che tutti teneramente chiamavano lo Spietato, le scelte erano sempre a senso unico: ubbidire.

    Aveva preso le chiavi della macchina, e poi si era di nuovo voltato verso Mauro, come per dirgli qualcosa, ma poi aveva lasciato correre, ed era sceso di corsa dalle scale, con un cenno di saluto della mano.

    Dopo aver fatto il giro del capannone, aveva imboccato la strada provinciale, infilandosi in una zona residenziale, dove suo padre, il segugio, aveva scovato una casa da rifare.

    Quando Tiziano arrivò sul posto, lo aveva trovato già lì, con le mani nelle tasche della giacca di camoscio, che, mento verso l’alto, osservava con interesse la casa, un edificio quadrato, tipico del dopo guerra, circondato sui quattro lati da una selva di piante rampicanti e alti pini storti, dalle finestre sgangherate e il cancello decadente, ormai arrugginito.

    - Che schifezza! – disse subito Tiziano disgustato. Non riusciva a veder altro che macerie e non la possibile trasformazione di quelle quattro mura disfatte; lo Spietato invece sembrava in estasi, abbagliato come di fronte ad un quadro di valore.

    - Andiamo dentro a dare un’occhiata. Ho le chiavi. – aveva replicato il costruttore, senza badare minimamente al commento del figlio.

    - Io lì dentro non ci metto piede. Ho le scarpe nuove di Prada, mi si sporcheranno tutte. – aveva protestato debolmente il ragazzo, squadrandosi i piedi e molto preoccupato per l’esito dell’incursione.

    Lo Spietato non lo ascoltò neppure questa volta, e certo era un bene, perché se si fosse arrabbiato sarebbe stato peggio, e andò deciso verso il cancello, per aprire i grossi lucchetti e togliere la catena e poter finalmente farsi largo nella sterpaglia. Suo padre aveva passato la settantina, ma nessuno lo avrebbe detto. Agile, svelto, la postura elegante, il modo autoritario e deciso nell’esprimersi, ma anche accattivante senza tante parole, lo strepitoso successo negli affari, avevano fatto di lui un mito, un pezzo di storia della sua città.

    Tiziano e i suoi fratelli avevano sempre dovuto fare i conti con quella straripante e pesante personalità, il che aveva comportato dolori e fatica, compromessi e negazioni. Vivere con lui era stato e sarebbe sempre stato difficilissimo.

    Lo Spietato non riconosceva altri valori, iniziative o aspirazioni diverse dalle sue, e quindi tutti i suoi figli lavoravano per lui e potevano coltivare le loro passioni solo nei piccoli ritagli del tempo libero. Tiziano cantava. Aveva messo su una rock band, fin da ragazzo, e sperava un giorno di finire nelle classifiche dei Cd più venduti. Ma si limitavano a fare delle cover, perché i testi di canzoni inedite, che Tiziano scriveva la notte, nella sua camera, non avevano mai visto la luce.

    Preferiva cantarle a voce bassa mentre faceva la doccia, e ne parlava poco, anche con Simon, il chitarrista del gruppo, che lui conosceva dalle elementari, perché ancora non si sentiva pronto per esibirle in pubblico. Le scriveva suonandole al pianoforte, che aveva studiato per anni senza mai dare però alcun esame di conservatorio.

    Suo padre affermava che cantare era un’inutile perdita di tempo, però, contraddizione, tutti gli anni pagava il biglietto per il festival di San Remo, cui partecipava con la moglie.

    In quel momento il teatro dell’Ariston però era ben lontano dai suoi pensieri, andare in avanscoperta nella casa degli orrori meritava attenzione.

    Con una spallata decisa fece capitolare la resistenza del cancello e sbracciando a destra e sinistra si fece largo fino alla scalinata che portava al patio della casa. Infilò le chiavi nella porta di legno, ormai non più bianca ma grigia e scrostata di vernice e si voltò verso Tiziano che non si era mosso dal marciapiede.

    - Non ho voglia di incazzarmi. – disse perentorio. Poi entrò in casa, e Tiziano in un secondo gli fu dietro, quasi correndo.

    - E’ una topaia schifosa. – disse Tiziano senza neppure guardarsi attorno.

    Il salone era immenso, il pavimento di marmo bianco Carrara era letteralmente ricoperto di feci d’animale, l’odore era insopportabile.

    – Rischiamo di prenderci qualcosa. Pà, dai, se proprio t’interessa, comprala e poi butta tutto giù …-

    - Ci tenevano dei cani. E anche dei gatti. I vicini hanno chiamato l’Usl, tempo fa. E’ successo un macello, adesso la vogliono vendere. Direi che un cinque, o sei appartamenti ci vengono tutti. Hai guardato con Mauro la piantina, ieri? – lo apostrofò il padre.

    - Non ce l’ho fatta. – mentì Tiziano. Non gliene poteva fregare di meno, di guardare quella stupida piantina.

    - Il tuo problema è la pappa fatta. Forse dovrei mandarti a lavorare sottoposto, magari cominceresti ad apprezzare. Vedi quei fogli? Sono pratiche legali. – indicò con un dito un mobile lunghissimo, di legno, che riempiva la stanza.

    Era letteralmente coperto da carte sporche, l’unica presenza in quella stanza d’oggetti.

    – Vedi cosa succede quando non si va d’accordo in famiglia? Questa casa è stata contesa da anni, adesso ci penserò io, basterà una telefonata.-

    - Interessante. Davvero. – disse Tiziano dissimulando male uno sbadiglio.

    Suo padre finalmente si girò a guardarlo, scosse la testa e poi disse, in un tono che non ammetteva repliche: - Sarai tu ad occuparti di tutto. Dovrai portare avanti la trattativa, acquistarla al miglior prezzo, andare dal notaio, occuparti delle stesure dei documenti, planimetrie, fornitori, e vendite. Sarà il tuo compitino in classe, e speriamo che tu riesca a fare le cose come si deve. – Trattenne un risolino soddisfatto, mentre Tiziano, preso alla sprovvista da tale incombenza, si sgonfiò come un canotto bucato. Respirando affannosamente provò ad esprimere i suoi dubbi e le sue paranoie al riguardo, ma non riuscì a dire una sola parola, strozzandosi quasi nello sforzo. Sarebbe stato tutto inutile, e quindi tanto valeva cominciare a farsene una ragione.

    Tornò in ufficio, lanciò sulla scrivania la cartellina, si sedette, mise la testa fra le mani e sconfortato chiese a Mauro se per caso avesse avuto voglia di una pizza assieme. Mauro, molto contento dell’invito disse di si.

    Tiziano aveva pensato che se doveva andare tutto come voleva suo padre, avrebbe dovuto trovare un po’ di coraggio per fare anche quello che desiderava: ci avrebbe dovuto lavorare sopra un po’ ma forse era arrivato il momento di fargli vedere di che pasta era fatto.

    Martedì

    L’avvocato Enrico Maria Carletti aveva un debole per le belle donne. Si può dire che nessuno è immune al fascino di una signora di classe, proporzionata e magari sensuale, ma l’avvocato era veramente un patito del genere.

    Qualcuno, scherzando, lo aveva più volte paragonato ad un personaggio di Sordi, quel tipo d’ometto perditempo e fascinoso che tra mille sussieghi e sguardi ammiccanti, è capace di corteggiare senza sosta per un’intera giornata. Lui, l’avvocato, aveva poi un chiodo fisso, che era la moglie dello Spietato, la signora De Rossi, sempre perfetta, incipriata, impomatata e sfuggente, senza traccia di rughe e dal sorriso principesco. Ecco, quando Enrico Maria si trovava di fronte la signora Lucetta, era proprio un problema tenerlo fermo.

    Ci provava, inesorabilmente, da quindici anni, speranzoso che, lei, alla fine, avrebbe ceduto alle sue lusinghe. Si andava ripetendo, se è andata bene al protagonista del libro L’amore ai tempi del colera, andrà bene anche a me.

    La signora, quel pomeriggio, si era presentata indossando un vestito chiaro, un cappottino di lana color crema dal collo sciallato e stivali alti. Flessuosa come un giunco, aveva chiesto di poter fumare nell’ufficio dove si era accomodata senza troppi complimenti, e aveva esordito con un mellifluo Dobbiamo aiutare Tiziano.

    Enrico Maria, quasi sdraiato sulla scrivania, tentava con disperazione di seguire il discorso della sua cliente, senza perdersi in fantasie erotico romantiche che lo avrebbero ben presto fuorviato.

    - Tiziano? Ha combinato qualcosa?- si era informato immediatamente. Avrebbe voluto aggiungere, quel pischello arrogante, ma si era trattenuto giusto in tempo.

    - No, per carità. Lui è perfetto, praticamente perfetto. Buono, lo sai, Enrico Maria. Mai un problema, in trent’anni di vita. Solo che .. – si era fermata, come incerta, tecnica infallibile per creare ulteriore suspense – solo che Arrigo gli ha detto di occuparsi di una trattativa, per una casa, e temo che Tizzi non riesca, vista la sua inesperienza, a concludere l’affare. Sai com’è Arrigo, se non raggiunge l’obiettivo diventa insopportabile, una macina al collo. Vorrei evitare il più possibile questo stress al mio bambino, sai com’è sensibile, riservato, dolce. Non è proprio affare suo occuparsi di case e compravendite, ma ormai Arrigo ha preso quest’idea e non riesco neppure io a farlo capitolare. Volevo chiederti se… - aveva nuovamente fatto una pausa. Lo aveva va guardato dal basso verso l’alto, e gettato una debole boccata di fumo dalla bocca, e aveva aspettato la domanda dell’avvocato che non si fece attendere.

    - Dimmi cosa, Lucetta, sai che per te, sai la stima che ho, sai che io, tutto quello che è nelle mie possibilità.. chiedi e ti sarà dato- aveva biasciato lui continuando a guardarla in modo felino.

    - Volevo appunto chiederti se potevi tu informarti di chi siano questi venditori, se puoi in qualche modo, discreto, occuparti della cosa, che Arrigo non sappia niente, che poi – scrollò la testa da una parte – se la rifà con me. Io, in verità non capisco perché gli riesca difficile accettare Tizzi e la sua predisposizione musicale. – Sospirò, poi riprese con maggior foga: – L’anno scorso, ad esempio, abbiamo venduto quell’attico strepitoso a quel talent scout, quel tipo famoso che è sempre a X factor. Tizzi ci aveva già fatto la bocca, Arrigo pensavo lo presentasse al nostro bambino, magari per un’audizione, ma niente. Non ti dico quanto ho sofferto per questa mancanza di tatto di mio marito. Che gli costava dire una parola a favore della band? Convincerlo ad ascoltarlo, canta così bene, tu sai che canta benissimo, Enrico Maria. – Aveva terminato l’arringa con un gesto stizzoso, spegnendo la sigaretta nell’immenso portacenere dell’avvocato, che lui però usava come fermacarte.

    Enrico Maria aveva seguito il discorso facendo su e giù con la testa, le mani giunte, l’aria afflitta di chi sa comprendere i guai altrui, ma in realtà non aveva capito una sola parola, e pensava solo a come poter convincere la signora ad accettare un suo invito galante.

    Lei parlò ancora qualche minuto, sempre con il tono esacerbato di chi ha un brutto rospo da ingollare, ma alla fine cedette al sorriso dell’avvocato che ne approfittò immediatamente per spingersi nel terreno a cui ambiva.

    - Posso invitarti a prendere un caffè, Lucetta? Ti vedo molto, molto provata per quanto sta succedendo, e tu sai quanto mi stia a cuore il tuo benessere psicofisico. Non potrei mai vederti triste per certe cose. Tiziano è sempre nei miei pensieri, come a te, del resto. – e prontamente allungò una mano sulla scrivania, per prendere quella di lei.

    - Enrico Maria, sei sempre stato disponibile con noi, sapevo di poter contare sul tuo aiuto. Per il caffè – sospese di nuovo la frase a mezz’aria, come se stesse recitando un copione di soap – direi che possiamo fare, ma un’altra volta, adesso sono di corsa. Ho – pausa – alcune cose da fare.

    - Lo sai, Lucetta, che ogni tua parola è un ordine, quando vorrai, io sono qui. Hai il mio numero.-l’avvocato sfornò un sorriso a sessantaquattro denti, di cui poteva dire con orgoglio essere stato il miglior lavoro in circolazione del suo dentista, e si alzò, cerimonioso, per accompagnarla alla porta. Lei si fece portare per il braccio, come una diva, e poi lo salutò, quasi commossa, e con un lungo sguardo pieno di lunghe ciglia ben curate.

    Lui rimase a guardarla, mentre si allontanava nel corridoio, per poi uscire dal portone, e alla fine esclamare un fanculo pischello di merda! che la segretaria davanti a lui, a testa bassa sulla tastiera, sobbalzò.

    -Non ci sono per nessuno, Claudia. Venga con me che abbiamo da fare. – ringhiò con veemenza. Poi rientrò nel suo tetro ufficio di mobili neri, aprì la cartelletta che le aveva portato la sua adorabile cliente e cominciò a leggere quel fottutissimo fascicoletto del cazzo.

    Arrigo si era fatto tutto da solo. Aveva cominciato a fare il muratore da bambino, subito dopo la guerra, insieme ai fratelli.

    Con immensi sacrifici erano riusciti a far studiare l’unica femmina della famiglia, la loro sorella più piccola, che si era diplomata come geometra e che era riuscita a vincere il concorso nel Comune, nell’ufficio tecnico, e quindi grazie a lei e alle sue conoscenze gli anni settanta avevano visto il fiorire dell’azienda familiare nel giro di pochi anni.

    Erano diventati i numeri uno della zona, tutti conoscevano la famiglia De Rossi come quella dei grandi costruttori, che avevano commissionati lavori sia dal pubblico sia dal privato, dalle piccole ristrutturazioni ai grandi alberghi.

    Uno dei lavori più leggendari era stato il rifacimento del regio Casinò, l’albergo Kursaal, l’edificio d’evidente gusto orientaleggiante, con le torrette laterali coperte da squame di ceramica a più colori, forse giallo e verde che qualcuno gli aveva commissionato di tirare giù e rifare. Arrigo si era valso la collaborazione di Saponetta, così chiamato perché teneva in casa vecchi cimeli della seconda guerra mondiale, in particolare bombe inesplose, saponette appunto, nitroglicerina e altri manufatti bellici degni di una Santa Barbara.

    Un mattino lo Spietato era partito alla volta della casa di Saponetta, avevano tirato

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