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Crudele maschile singolare
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E-book362 pagine5 ore

Crudele maschile singolare

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Info su questo ebook

Viola è una donna colta e intelligente, doti che tuttavia non le impediscono di portare avanti col suo compagno una relazione malata, all’interno della quale ai momenti di passione si alternano insulti e botte. Una attrazione fugace nei confronti di un altro uomo complica ulteriormente la sua già tormentata vita familiare. La storia si snoda in un crescendo di avvenimenti drammatici, tra colpi di scena e oscuri segreti, attraverso i quali Viola arriverà infine alla consapevolezza della sua condizione di vittima (tanto più difficile da riconoscere quanto più i protagonisti maschili camuffano con l’amore la loro incapacità di amare) e alla determinazione di non subire più passivamente legami soffocanti e pericolosi. Sarà troppo tardi?
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2018
ISBN9788827815762
Crudele maschile singolare

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    Anteprima del libro

    Crudele maschile singolare - Lucia Giolo

    633/1941.

    CAPITOLO 1

    Viola, zazzera di riccioli scuri e grandi occhi a mandorla nel viso triangolare, camminava imbronciata. Era appena uscita dalla macchina di Ottavio, anzi, a dire il vero, aveva approfittato del fatto che si erano fermati a un semaforo rosso per scaraventarsi fuori.

    Stavano rincasando da una serata insieme, in cui non avevano fatto altro che litigare. Avevano cominciato a discutere già durante la cena e poi avevano continuato nel locale, una specie di pub, dove lui aveva voluto condurla per forza. Avevano un piglio così concitato e un tono così acceso che dai tavoli vicini molti si erano girati a guardarli, finché la musica non aveva coperto le loro voci.

    In macchina, sulla via del ritorno, era ricominciato l'alterco e lei a un certo punto non aveva più retto. Torno a casa a piedi! gli aveva gridato e, una volta scesa, aveva sbattuto forte la portiera, di proposito, sapendo quanto questo lo irritasse.

    Presto si rese conto che scendere dall'auto era stato un colpo di testa davvero sciocco: il suo vestito corto, in tulle di seta, era piuttosto leggero. All’inizio di ottobre, se di giorno faceva ancora caldo, la notte rinfrescava molto. Si rammaricò di avere lasciato in macchina, nella concitazione, il suo copri spalle di lana. Così andava strofinandosi ogni tanto le braccia intirizzite e stringendosi al petto la borsetta, come per trarne tepore. Intanto i piedi, costretti su scarpe di vernice dai tacchi alti, inadatte a camminare a lungo e per di più sul selciato sconnesso dei marciapiedi, avevano cominciato a procurarle delle fitte lancinanti.

    I sensi, eccitati dalla recente feroce discussione con Ottavio, divennero sempre più vigili, a mano a mano che si inoltrava verso il centro. Mancava poco a mezzanotte, i marciapiedi erano deserti e transitava solo qualche rara automobile. Realizzò di essere sola per strada, vestita con un abito succinto e di tremare non solo di freddo ma anche di paura; forse si trattava solo di suggestione, dovuta all’atmosfera quasi spettrale che la circondava: la via, incassata tra file di antichi palazzi, era illuminata a malapena, le finestre sulle facciate tutte serrate, i portoni chiusi, gli anditi bui, nessun locale aperto.

    Aveva ancora un isolato prima di arrivare a casa. Affrettò il passo, abbozzando una corsa, per quanto lo permettevano le scarpe troppo alte. Nelle orecchie, soltanto il ticchettio sgradevole e rumoroso dei suoi tacchi.

    A un tratto, come dal nulla, ecco dei passi pesanti dietro di lei. Si girò. In lontananza scorse un uomo alto e robusto, che doveva avere suole di cuoio per provocare quel sonoro scalpiccio sul marciapiede.

    Continuò a correre in quel modo un po' sgangherato, finché non si decise a togliersi le scarpe. Proseguì scalza finché notò alla sua sinistra un profondo androne. Ci si infilò dentro.

    Lì, col fiato corto e il cuore in gola, al riparo della fitta penombra, estrasse il cellulare dalla borsetta e chiamò Ottavio. Dopo una serie di squilli a vuoto, gli mandò un messaggio: Vienimi incontro, sono in via Vescovi. Ho paura…

    Rintracciò alla fioca luce del display le scarpe che aveva posato per terra, imprecando tra sé perché i piedi torpidi si rifiutavano di infilarle.

    Intanto il suono di passi si avvicinava, con una cadenza regolare. Si appiattì contro il massiccio portone di legno sul fondo, benché le sue cerniere arrugginite e sporgenti le si conficcassero nelle costole.

    Il cuore tambureggiava, un sudore freddo le inumidiva la fronte. Il suo respiro affannoso sembrava riecheggiare così forte nello spazio angusto che estrasse dalla borsa un fazzoletto e se lo premette sulla bocca.

    Con gli occhi sbarrati dal terrore, vide la sagoma scura dell'uomo stagliarsi contro la luce fioca della strada alle sue spalle.

    Costui trafficò nelle tasche, ne trasse una pila e la indirizzò dritta su di lei, accecandola. Si sentì in trappola e gettò un urlo, rannicchiandosi terrorizzata contro la parete, le braccia sollevate davanti agli occhi.

    Signorina, si calmi. Non abbia paura! Sono una guardia giurata, di ronda qui intorno… Diresse la pila su di sé, mostrandole la targa di riconoscimento sulla giacca. L’aiuto ad alzarsi. Così dicendo si avvicinò, la prese per una mano e la tirò su con delicatezza.

    Viola era talmente provata che si appoggiò al suo torace, aspirando con sollievo l'odore di tabacco e di sudore che emanava dai suoi vestiti, e rimase ferma per qualche momento, lasciando che il respiro tornasse normale. Le braccia dell’uomo la circondarono, abbozzando qualche amichevole pacca sulla schiena.

    Grazie! Pensavo che fosse un malintenzionato... sussurrò lei, staccandosi, con una voce appena percettibile.

    Oh, mi dispiace! la interruppe costui, scoprendo i denti bianchi in un sorriso che balenò nel buio. Il mio compito invece è vigilare che tutto sia in ordine.

    Anche Viola sorrise. Sarebbe così gentile da accompagnarmi a casa? Abito qui vicino col mio compagno ma le gambe davvero non mi reggono!

    Volentieri.

    La prese sotto braccio, camminando lentamente, quasi sorreggendola. Dopo pochi passi, accortosi che tremava, si tolse la giacca e gliela posò sulle spalle.

    Durante il breve tragitto, si scambiarono qualche impressione sul fatto che il Comune avrebbe dovuto potenziare l'illuminazione delle strade del centro. Non bastavano certo i radi lampioni a rendere meno lugubri le vie deserte, né si poteva contare sulla luna, quella sera velata da sfilacci di nuvole.

    Una volta arrivati davanti al portone del suo palazzo, Viola gli restituì la giacca, ringraziandolo. Si salutarono con una stretta di mano. Siccome era senza chiavi, suonò il campanello una, due, tre volte, rimanendo in attesa; ma nessuno schiocco della serratura, nessuna voce dal citofono. Continuò a suonare sempre più innervosita, tenendo la mano costantemente premuta sul pulsante. Niente. O Ottavio non era in casa o aveva deciso di lasciarla fuori.

    L’uomo, che nel frattempo si era allontanato, voltatosi per controllare che fosse entrata, la vide agitare le braccia nella sua direzione. Tornò indietro.

    Per favore! lo supplicò. Il mio compagno non mi apre. Forse non è in casa o ha deciso di lasciarmi fuori. Sa, questa sera io e lui abbiamo litigato di brutto… Mi potrebbe accompagnare in albergo? Ce n'è uno nei pressi, l’hotel Mozart.

    Accidenti, il Mozart! E’ un posto da ricchi!

    Non ho scelta, è il più vicino. Del resto non posso passare la notte qui fuori, davanti alla porta. Batteva i denti.

    L'uomo scosse il capo in segno di disapprovazione. Di certo io non lascerei mai sola una donna di sera in balia della città, soprattutto se fosse così graziosa! La guardò sorridendo. In effetti lo era, nonostante le disavventure di quella sera. Alla luce incerta dei lampioni il suo giovane volto aveva i tratti delicati di un cammeo.

    La prese di nuovo sotto braccio dopo averle nuovamente appoggiato la giacca sulle spalle.

    Non so ancora il suo nome… Io mi chiamo Viola. disse la ragazza e lo guardò di sotto in su, con l'intenzione di imprimersi nella memoria le sue fattezze: capelli rasati, un naso stranamente piccolo sulla faccia quadrata, labbra dalla piega morbida, zigomi sporgenti e folte sopracciglia, sotto le quali baluginavano due occhi inquieti e nerissimi.

    Io Ugo, ma gli amici mi hanno soprannominato Notte. Le strinse la mano, poi si grattò la nuca, dietro l’orecchio, come intimidito. Improvvisamente prese ad ammiccare, le palpebre percorse da brevi scariche elettriche. Arricciò anche il naso un paio di volte.

    Notte… ripeté lei. Carino! Piuttosto stravagante ma appropriato.

    Continuò a camminare, appoggiandosi pesantemente al suo braccio. Ma a un certo punto si fermò: le scarpe le stringevano terribilmente, provocandole dolori lancinanti. Non ce la faccio più… mormorò, mentre lacrime silenziose le scendevano sulle guance.

    Tranquilla. fece lui. Con un solo rapido gesto, la prese e la sollevò come un fuscello. Mi metta un braccio attorno al collo! le suggerì con la sua voce maschia e un po' burbera. Lei obbedì.

    Proseguendo con passo spedito, l’uomo arrivò col suo fardello davanti all'albergo Mozart. Qui giunto, la depose con delicatezza a terra e l'aiutò a tenersi dritta. Siamo arrivati.

    Viola lo ringraziò. E pensare che ho avuto tanta paura di lei, prima. concluse alla fine.

    E adesso? le chiese sorridendo.

    Per tutta risposta, lei si alzò in punta di piedi e gli posò un bacio sulla guancia ruvida di barba. Poi si girò e, senza voltarsi, entrò nella hall.

    Dietro l'ampio bancone di marmo, la faccia assonnata dell'impiegato di notte continuava ad inanellare sbadigli. Sulla parete alle sue spalle si stendeva un rivestimento di specchi, separati da cornici romboidali di legno intarsiato. Dei tubi al neon, sistemati lungo il perimetro del soffitto, emettevano una luce intensa.

    Viola si appoggiò al bancone. Dio mio, come sono conciata! pensò, vedendosi riflessa: i capelli in disordine, il viso cereo su cui spiccava violento il rossetto cremisi, gli occhi nocciola circondati da un alone scuro, dovuto alla stanchezza e alle sbavature del rimmel, sciolto dalle lacrime.

    Hem… Ha una camera per stanotte? domandò all’uomo, spostando il peso da una gamba all'altra, per cercare di mitigare il dolore ai piedi.

    Costui guardò con diffidenza quella donna dall'aria stravolta e dal trucco sfatto. Soppesò l'abito scollato che le fasciava il corpo, scosso da tremori. Magari era drogata o forse una di facili costumi, reduce da un incontro sessuale finito malamente. In più non aveva con sé nessun bagaglio.

    Mi dispiace! replicò senza fissarla negli occhi. Tutte le camere sono occupate…

    Fu presa dal panico. L'impiegato fingeva di essere interessato a controllare delle carte che teneva aperte davanti a sé.

    È ancora qui? le chiese a un certo punto, con un'espressione ironicamente sorpresa

    Viola si girò e uscì dalla hall, ondeggiando lievemente. Ma, quando fu davanti alla grande porta a vetri dell'ingresso, volse il capo verso l'uomo, di cui avvertiva lo sguardo puntato su di sé. Stronzo! lo insultò con voce chiara.

    Fuori, chiamò di nuovo Ottavio al cellulare.

    Insistette finché egli non si decise a rispondere: Allora, ti è passata la luna? Vieni a casa, che stavolta ti apro. Barbugliava da ubriaco.

    Viola sentì nella gola l'amaro della bile: dovette serrare con forza i denti e premersi una mano contro le labbra per non gridare di rabbia. Restò per qualche minuto seduta dov'era, col viso tra le mani.

    Se in quel momento avesse potuto farlo scomparire e non vederlo mai più, l'avrebbe fatto. Alla fine, sospirando, si alzò con fatica e tornò lentamente verso la propria abitazione, sostenendosi ogni tanto alle pareti delle case o ai pilastri dei portici.

    Quando suonò al suo campanello, nessuno rispose. Ma con una spinta il portone si aprì. Ottavio doveva aver schiacciato il pulsante, ancora prima che lei arrivasse.

    Salì al secondo piano, girando le spalle allo specchio dell'ascensore per non rivedersi in quelle condizioni penose. La porta del suo appartamento era socchiusa. Appena entrata, si tolse le scarpe e si appoggiò per qualche attimo contro il muro, ansimante. Poi si diresse verso la camera da letto, da cui proveniva la luce.

    Come la vide affacciarsi sulla soglia della stanza, Ottavio, stravaccato sul letto e ancora vestito, afferrò la bottiglia di vino dal comodino e ne tracannò alcune ampie sorsate. Ruttò con gusto, provocatoriamente. Poi alzò in controluce la bottiglia ormai quasi vuota e la scosse davanti ai suoi occhi attoniti.

    Guarda quello che mi costringi a fare! biascicò con la lingua impastata,

    Viola storse le labbra in una smorfia di insofferenza. Avrebbe voluto urlargli tutta la sua rabbia e magari tirargli addosso qualche suppellettile ma cercò di controllarsi.

    Io? Sono io che ti costringo a bere? Invece come hai potuto chiudermi fuori casa! La voce le tremava suo malgrado. Da sola, senza lo scialle, con quel freddo! rincarò, avvicinandosi e sovrastandolo dall'alto, gli occhi cerchiati accesi di scintille.

    Dovevo lasciarti fuori tutta la notte! … mugugnò lui in risposta. Parve riflettere intensamente per un istante. Comunque, se ben ricordo, aggiunse. sei stata tu a voler scendere dalla macchina, non ti ho mica spinto! E dunque te la sei voluta, questa lezione. Così impari a fare la civetta con quel bellimbusto del farmacista!

    Viola si sedette sul bordo del letto e si strinse la fronte, in un gesto di scoramento. Basta, Ottavio. La verità è che vedi rivali dappertutto. Ma la tua è solo possessività malata. gli disse con tono perfino paziente.

    Possessività malata! Le rifece il verso con un sorrisetto sardonico. Quando non si vuole ammettere le proprie colpe, è più comodo accusare gli altri. Ma ci vuole ben altro che una donna per dirmi… Aggrottò la fronte, dimentico di ciò che stava per dire. Allora prese la bottiglia e bevve d'un fiato quel che rimaneva. Si asciugò la bocca col dorso della mano. Ruttò di nuovo.

    Viola disgustata si alzò in piedi per andarsene, ma poi si girò di scatto. Mi hai lasciato da sola, per strada, in balia di chiunque! gli ripeté furiosa. Se non avessi trovato un tizio che mi ha aiutato…

    Egli si mise a ridere in maniera convulsa, tenendosi la pancia. Ah ah! … Un tizio!? Ma che ti inventi? esclamò minaccioso. Si sollevò sui gomiti, cercando di aguzzare lo sguardo stolido su di lei.

    Viola strinse le labbra tra i denti. Parlare era proprio inutile. Basta! Me ne vado di là. sbottò, decisa a dormire per quella notte sul divano dello studio.

    Nonostante il torpore della sbronza, Ottavio si alzò rapidamente, le corse appresso e l'agguantò per le spalle. Colta di sorpresa, Viola rimase per un attimo impietrita. Sentiva il suo alito caldo sfiorarle il collo, ne poteva avvertire distintamente il rivoltante puzzo di vino.

    Si divincolò, sfuggendo alla sua presa. Ma lui le fu di nuovo addosso. Dove credi di andare?

    Con le mani le abbassò di colpo la cerniera del vestito, cercando di tirarglielo giù da dietro. Lei se lo strinse addosso con tutte le forze. Ma, ad un altro violento strattone, si udì uno schiocco di tessuto strappato: un brandello del suo bel capo di organza penzolava miseramente, scoprendole la pelle sulla schiena.

    In un impeto di collera, Viola si girò e cercò di colpirlo con il palmo aperto, senza arrivare a segno. Ma quel gesto scatenò la reazione rabbiosa di Ottavio.

    Brutta stronza! La prese per i capelli e avvicinando gli occhi spiritati a quelli di lei, sbraitò: Pensi forse di tenermi testa? Ti faccio vedere io chi comanda qui!

    Con uno spintone la fece cadere a terra e cominciò a prenderla a pedate. Lei si rannicchiò contro il muro, cercando di ripararsi la testa con le braccia, mentre Ottavio la colpiva sui glutei e sulle cosce; i calci producevano tonfi soffocati mentre affondavano dentro la sua carne stranamente arrendevole.

    Ma Viola quasi non sentiva dolore: lo shock agiva quasi come anestetico sulle sue emozioni. Provava stordimento, piuttosto, e la vaga sensazione di essere spettatrice di un film, al termine del quale la realtà sarebbe tornata alla propria dimensione autentica. Lo guardava da sopra il gomito ripiegato sul viso, come inebetita, non riconoscendo in quella faccia dai lineamenti distorti l’uomo che amava e che diceva di amarla.

    Chiedimi scusa! ripeteva Ottavio intanto, continuando a picchiarla, ma lei era determinata a negargli questa soddisfazione. Dalle sue labbra usciva solo qualche lamento. Allora lui la prese per le ascelle, la tirò su come uno straccio e la schiacciò contro il muro con il peso del proprio corpo.

    Chiedimi scusa! E giù pugni, scossoni e schiaffi.

    Le lacrime cominciarono a scorrere copiose. Faceva davvero male adesso ed era spaventata a morte. La sua furia cieca la investiva come una corrente impetuosa contro cui era inutile lottare. Se ne sentì sommersa, ne sentì perfino l’odore aspro, sanguigno, e perfino il suono, un ronzio basso e lugubre a cui i battiti del cuore imprimevano un ritmo precipitoso. Scomparve la dignità, scomparve l’orgoglio No, no, basta! Scusa, scusa…

    Ma in preda a una smania cieca di distruzione, egli non la sentiva nemmeno. Fu la gola asciutta e rovente a fargli lasciare la presa: aveva bisogno di bere.

    Viola ne approfittò per rifugiarsi in studio e chiudersi dentro a chiave. Con la schiena appoggiata contro l’uscio, piangeva e tremava, mentre cercava di ripulirsi il sangue dal naso col dorso della mano. Le guance bruciavano e il dolore dei calci cominciava a farsi sentire.

    Ottavio, dopo aver calmato la sete, si mise a bussare alla porta chiusa come un forsennato.

    Apri, altrimenti la sfondo a calci!

    Solo dopo aver udito dei colpi furiosi contro lo stipite, temendo il peggio, Viola si decise ad uscire. Gli si piantò davanti. Pur essendo piccola di statura, sembrava alta il doppio, per la fierezza con cui teneva sollevata la testa. Lo fissava battagliera, malgrado alcune lacrime rotolassero ancora sulle guance, dove apparivano vistose chiazze rosse

    Egli rimase impalato davanti a lei, sorpreso, con gli occhi rossi e la mascella ancora contratta. Ma aveva consumato gran parte della sua aggressività. Come gli fosse caduto un velo, si accorse del vestito strappato e scivolato giù da una spalla, del suo viso stravolto rigato di lacrime e segnato dalle percosse.

    Rimase per qualche istante a fissarla incerto, poi nel suo sguardo arse una fiamma di assoluto sgomento.

    Mi dispiace! Tu riesci a volte a trasformarmi in una bestia… mormorò sommessamente, come trasognato, fissandosi le mani.

    Poi incredibilmente si mise a piangere come un bambino, tenendosi il volto tra le mani e, di tanto in tanto, colpendosi una tempia con il pugno. Mi dispiace… Mi dispiace tanto! mugolava tra i singulti.

    Nonostante fosse umiliata e pesta, Viola ne ebbe quasi pena, tanto lo vide fragile e vittima dei propri impulsi.

    Basta. Vai a dormire… Ti raggiungerò tra un po’. gli disse riassettandosi con le mani tremanti i capelli e il vestito. Che altro c’era da dire?

    Nonostante fosse tardissimo, voleva lavare via, oltre al sudore e allo sporco, soprattutto l’amaro di quella serata.

    In bagno aprì il rubinetto della vasca e si spogliò. L'acqua gorgogliò rumorosa e veemente. In breve tempo la stanza si riempì di vapore.

    Buttò nella vasca quasi piena una manciata di sali e vi si immerse, appoggiando la testa, avvolta da un asciugamano, sul liscio bordo smussato. Rimase a lungo immobile, con le braccia dietro la testa, ad ascoltare il proprio corpo nei punti dove l'aveva colpita. Massaggiò quindi a lungo i fianchi e le cosce, dove sentiva i muscoli pesti e dolenti. Diresse infine il manubrio della doccia sul viso e lasciò che l'acqua le scorresse sulle guance, sul naso e sulle labbra ardenti, placandone in parte la sensazione di pulsante bruciore.

    Uscì con fatica dall’acqua ormai quasi fredda e si avvolse nell’accappatoio. Nel pulire lo specchio del lavabo tutto appannato, ebbe un sussulto nel vedere emergere lentamente dal vetro una faccia pesta che non sembrava la sua. Distolse costernata lo sguardo.

    Nel silenzio assoluto che regnava nella casa, si udiva il russare pesante di Ottavio provenire dalla vicina stanza da letto. Fu sollevata al pensiero che fosse già addormentato: così sarebbe sgusciata tra le lenzuola, badando a non svegliarlo.

    Una volta coricata, si passò le mani sul volto e sul corpo, massaggiandosi ancora e chiedendosi se per l'indomani mattina si sarebbe smorzata la dolenzia che sentiva dappertutto.

    Tra l'altro doveva alzarsi presto: aveva scuola alla prima ora e, per raggiungere il paesino di Ponzano, dove insegnava Lettere alle Scuole Medie, ci metteva una buona mezz'ora di auto.

    Proprio a scuola aveva conosciuto Ottavio, che era venuto un giorno a tenere una conferenza sul mondo industriale e sulle prospettive di lavoro, per indirizzare i ragazzi di terza media verso l'Istituto superiore più consono alle loro attitudini. Laureato in economia e commercio, si occupava di marketing e di selezione del personale all'interno di un'azienda di apparecchiature industriali.

    Era sulla quarantina, occhi piccoli e pungenti, corpulento, i capelli sottili diradati sulle tempie da una incipiente calvizie, la fronte ampia segnata da rughe marcate. Sapeva modulare la voce dai toni caldi e profondi come uno strumento musicale. Non bello, emanava tuttavia uno straordinario carisma e lei ne era rimasta subito ammaliata.

    Quel giorno, seduta in prima fila, l'aveva ascoltato senza mai staccargli gli occhi di dosso, colpita dall’autorevolezza con cui si poneva naturalmente. Anche lui l'aveva notata e sempre di più dirigeva lo sguardo nella sua direzione. Eppure di donne in quell'assemblea ce n'erano molte, qualcuna anche molto più bella e più formosa di lei. Si era sentita pervasa da una misteriosa beatitudine.

    Era seguito poi un dibattito a cui aveva partecipato, ponendogli un quesito. Stranamente intimidita, si era espressa male e aveva più volte deglutito a vuoto, tanto la bocca era asciutta.

    Ma egli le sorrideva e annuiva. E intanto sembrava che, mentre parlavano di tematiche impersonali, non facessero altro che dirsi reciprocamente Tu mi piaci.

    Tornato nella sua scuola per un secondo incontro, l'aveva invitata fuori a cena per la sera stessa. Ancora ricordava l’emozione, l'ansia e la frenesia dei preparativi prima di quell'appuntamento. A quella serata davvero magica, ne erano seguite altre, travolgenti e colme di passione.

    Avevano deciso di convivere dopo solo qualche mese. Ma che fosse geloso era stato chiaro da subito. Tu mi appartieni. era una frase che amava ripetere spesso, e non solo nei momenti di maggiore intimità.

    Lei sorrideva compiaciuta, ma talvolta ribatteva piccata. Io non appartengo a nessuno. Io sono mia e basta!

    Lui puntualmente reagiva facendole il solletico o tirandole i capelli. A volte le mollava qualche scappellotto oppure qualche manata sul sedere, qualche strattone… Ma a picchiarla così non era mai arrivato.

    Si addormentò che fuori cominciava quasi ad albeggiare.

    CAPITOLO 2

    Gli squilli della sveglia le trapassarono il cervello come tante stilettate. Si sollevò e, superando con fatica il corpo abbandonato di Ottavio, che continuava a dormire, premette il pulsante in modalità silenziosa. Quel movimento risvegliò i muscoli doloranti. Trasalì all’improvviso al ricordo della scenata della sera prima, così nitido che le parve di riviverla. Si premette le mani sugli occhi, respirando piano.

    Si girò poi verso il compagno, alzandosi su un gomito per osservarlo. Alla luce grigia del mattino che penetrava nella stanza dalle fessure delle imposte, l'espressione serena era quasi infantile, come se il sonno gli avesse fatto riacquistare una perfetta innocenza.

    Mentre ancora lo stava lo fissando, lui aprì gli occhi e sorrise. Poi allungò le braccia e la trasse a sé, immergendo per un attimo il viso tra i suoi capelli.

    Dormi dai… bofonchiò, chiudendo di nuovo le palpebre.

    Era tornato lo stesso di sempre, quello che non ricordava mai i suoi orari di scuola e forse non ricordava nemmeno di averla picchiata, sbronzo com'era.

    Sospirò e si tirò a sedere con le gambe fuori dal letto; si sentiva tutta ammaccata.

    In bagno, il volto proteso verso lo specchio, si perlustrò con la fronte aggrottata; il gonfiore al labbro si era un po' attenuato ma gli occhi scuriti dallo sconforto erano ancora cerchiati, la pelle delicata delle guance arrossata in più punti. Poi si tastò delicatamente il corpo nei punti in cui sentiva dolore. C'erano dei lividi bluastri sulle cosce. Facendo delle contorsioni, ne vide altri sulla schiena, in corrispondenza dei reni.

    Fu sopraffatta dal risentimento. Ma il tempo premeva.

    Si spalmò in fretta sul volto uno strato di fondotinta coprente per nascondere le occhiaie e le macchie rosse. Truccò con abbondante mascara le ciglia e per ultimo passò sulle labbra un velo di rossetto.

    In cucina si preparò un caffè nero che bevve amaro e bollente. Uscì senza fare rumore, mangiucchiando un biscotto.

    Fuori la avvolse una nebbiolina vaporosa; l’aria era umida ma non faceva freddo. A quell'ora il traffico era scarso: il momento di punta era verso le otto, quando tutti si sarebbero messi in strada per accompagnare i figli a scuola o andare al lavoro.

    Comprò come ogni mattina il giornale dall’edicolante vicino a casa. Costui si sporse dalla sua stretta finestrella per porgerle il quotidiano. Alto e robusto, non si capiva come potesse stare rinchiuso dentro quel piccolo spazio per tante ore. Tuttavia era sempre di buonumore. Buongiorno cara! le disse sorridendo ma si bloccò interdetto nel guardare la sua faccia. Brutta giornata, cara?

    Lei annuì e scappò via. Era meglio indossare gli occhiali da sole, pensò, sgomenta all’idea di come doveva apparire alla luce del giorno. Frugò nella borsetta, senza trovarli. Ormai era troppo tardi per tornare indietro e comunque non avrebbe certo potuto fare lezione con degli occhiali scuri sul naso!

    Mentre raggiungeva l’auto, parcheggiata in una piazzola vicino a casa, diede una breve scorsa al giornale. Nella pagina di cronaca lesse:

    Sondrio: condannato a trent'anni di reclusione l'uomo che ha ucciso la compagna, scoperta a leggere e subito cancellare alcune mail.

    Lo ripiegò. Poveretta! A quella era andata peggio di lei. Abbozzò un sorriso ironico, subito soffocato dal dolore al labbro.

    Quel mattino doveva fare un paio di deviazioni per passare a prendere due colleghe, Valentina e Antonella. Lo faceva tutte le volte in cui i loro orari coincidevano. Con esse divideva il costo della benzina e le confidenze che, durante il tragitto, veniva naturale scambiarsi reciprocamente.

    Attraversò il cavalcavia della stazione, nei cui pressi bivaccavano come al solito gruppi di extracomunitari. Un treno passò sotto il ponte, sferragliando. Ecco laggiù, accanto alla fermata dell’autobus, Valentina. Appena salita in macchina, costei le piantò addosso i suoi rotondi occhi chiari, semicoperti da una frangia biondissima.

    Che ti è successo? Hai sbattuto contro qualcosa? esclamò.

    Niente. rispose Viola imbarazzata, irrigidendosi e spostando i capelli più in avanti sul viso. Sono solo stanca. Stanotte ho dormito male!

    Questa la guardò stupita, aprì la bocca per dire qualcosa ma infine tacque, stringendosi leggermente nelle spalle.

    Viola aveva preso dalla borsetta che teneva sulle ginocchia, un pacchetto di sigarette.

    Lo aveva allungato alla collega. Me ne accendi una per favore? Guarda in borsa se riesci a pescare l’accendino Io devo guidare. Valentina rovistò in mezzo alla confusione di portafogli, penne e quant'altro, trovò l'accendino e le passò la sigaretta accesa.

    Viola aspirò un paio di boccate, cercando di non fare troppa pressione sul labbro inferiore. Ma le faceva troppo male.

    Non mi va più. disse rivolta all'amica, schiacciando la sigaretta nel portacenere e aprendo poi il finestrino per far uscire il fumo.

    Mi farai venire un accidente! protestò Valentina, investita da folate d'aria gelida, accostando i lembi della giacca al collo.

    Scusami. Chiudo subito.

    Poco dopo si fermò per far salire Antonella, una bruna dai capelli serici sempre legati in una stretta coda, zigomi alti e denti bianchissimi.

    Anche questa, Hai fatto a pugni con qualcuno stanotte? le domandò, sedendosi dietro e fissandola attraverso lo specchietto retrovisore.

    Di nuovo cercò di essere elusiva ma alla fine si rese conto che era sciocco nascondere l'evidenza. Del resto in fondo desiderava liberarsi del suo fardello. Ma non era facile aprirsi a confidenze del genere, nonostante tra loro avessero parlato tante volte di sesso, di uomini, di storie intime. Con la violenza subita era diverso: si trattava di una sconfitta personale, di uno smacco alla propria dignità, di una barbarie inconciliabile con la condizione di donna emancipata quale si sentiva.

    "Ottavio mi ha

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