Soltanto un brandello di pioggia
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Anteprima del libro
Soltanto un brandello di pioggia - Clara Bartoletti
Indice
Introduzione
Prologo
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
Epilogo
Nota dell’autore
Ringraziamenti
Clara Bartoletti
Soltanto un brandello di pioggia
Youcanprint Self-Publishing
ISBN | 9788827848241
Prima edizione digitale: 2018
Immagine di copertina | Massimo Mannocchi
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Youcanprint Self-Publishing
Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)
info@youcanprint.it
www.youcanprint.it
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Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
Rom e Sinti siamo come i fiori di questa terra.
Ci possono calpestare,
ci possono eradicare, gassare,
ci possono bruciare,
ci possono ammazzare
ma come i fiori noi torniamo
comunque sempre...
Un lupo non è un cane e non lo sarà mai – disse - comunque lo allevi.
(LAUREN WALK– L’anno in cui imparai a raccontare storie)
Il passato – mi dicevo – non è altro che un susseguirsi di allucinazioni, inseguire le tracce di ciò che è stato, rimanda da una verità all’altra in un percorso pieno di tranelli. E la verità – ogni verità – è sempre triste. Il gioco della memoria è una caccia ai fantasmi, un muovere dalla profondità alla superficie. Bisogna saper dare valore all’inutile, meditavo. E alla lunga può diventare una droga.
(PIETRO SPIRITO – Un corpo sul fondo)
Introduzione
È una giornata calda, afosa e umida quella in cui sto leggendo, avidamente, il nuovo romanzo di Clara Bartoletti, Soltanto un brandello di pioggia. L’aria è immobile, corposa, tangibile, perfettamente in linea con quel titolo: mi permette, magicamente, di comprendere la fisicità dell’acqua espressa da quel termine ‘brandelli’, volutamente straniante nel contesto, e insieme, mi rimanda a tutta una serie di metafore che riguardano l’acqua e che, scopro leggendo, si rincorrono nell’intero racconto. La trama serrata e avvincente mi tiene legata al testo; mi sorprendo, soffro e fantastico immedesimandomi mentre leggo le vicende vissute dai protagonisti, che s’intrecciano sempre più convulsamente tra loro, fino a una catarsi finale.
Clara Bartoletti nei suoi romanzi riesce sempre a sorprendere il lettore. Ogni pagina ci racconta un’emozione; ogni vicenda ci fa penetrare più profondamente nell’abisso della psiche dei suoi personaggi. Umano e oltreumano, materia e spirito si confrontano in un sottile gioco di equilibri precari. La scrittrice è abile nel dare al lettore quel tanto che basta d’indizi, mantenendo alta la tensione della storia; si dimostra altresì sensibile nei confronti dei suoi personaggi, quasi proteggendoli da se stessi e dal male che li circonda, sublimando, ad esempio, invece che descriverlo minuziosamente, il momento più drammatico della storia di una protagonista, nella visione di un fiore, visto la prima volta su un soffitto di una stanza colma di orrore e rivisto poi nelle aiuole di un giardino, dove, inconsciamente, continua a provocare in lei un forte disagio.
E’ abile, Clara Bartoletti, nel dire per metafore, nel sostituire con immagini icastiche, efficaci e incisive gli avvenimenti e le sensazioni che vivono i suoi personaggi. Ma della trama preferisco tacere, qui. Credo che scoprirla parola dopo parola, pagina dopo pagina sia compìto e piacere esclusivo del lettore. Anticipo solo che sarà emozionante.
Il racconto si presta a diversi piani di lettura, come ogni opera ben scritta e dai potenti significati. Sotto la pura trama si nascondono, in bella vista, diverse suggestioni che il lettore smaliziato potrà cogliere e approfondire.
Due baricentri mi hanno, ad esempio, guidato in questa lettura e mi sorreggono come i due bracci di una bilancia: l’acqua e il sangue, il blu del mare e le macchie che compaiono e scompaiono sui gradini della scala di una grande casa. Apparentemente opposti, sono bilanciati abilmente dalla Bartoletti: entrambi sono sorgenti di vita, mezzi di purificazione, di rigenerazione, insieme sono materia prima e cura universale. L’acqua è la porta della purezza, come ci insegna il maestro Wen -Tzu, e attraverso le acque amare che si deve passare per giungere alla presa di coscienza. Così agiscono le due protagoniste, impastate nella purezza e nella forza, come altre creature della Bartoletti, quali la protagonista di un altro ottimo romanzo, Betulla Rossa.
Nelle pagine di Soltanto un brandello di pioggia, vibrano gli odori e soprattutto i colori. Quelli degli abiti, specie della protagonista bambina, libera e felice zingara con la sua lunga gonna; quelli dei vestiti di Ivy modella, seri e borghesi; quelli della madre di Stu, salvatrice suo malgrado della piccola Zora, decorati da grandi e coloratissimi fiori.
Proprio i fiori e le piante giocano un ruolo intrigante nel racconto: giardini sempre nuovi emergono dai ricordi delle due protagoniste, e indicano, di volta in volta, gli stati d’animo. Sono la coerenza, la serenità o l’anima violenta e combattuta che prendono il sopravvento. Compare, così, un delicato giardino inglese, le cui essenze libere e flessuose esprimono visivamente la libertà e la bellezza di un momento sereno. Il giardino americano, invece, è mostrato al lettore in due momenti distinti. Dapprima creato a mo’ di nido d’amore e dove sono realizzate aiuole di fiori colorati che si susseguono allegre e poi sfumano in alberature imponenti fino a scivolare verso il mare azzurro; successivamente è riproposto anni dopo, quando ospita la nuova inquilina, Ivy Santo: allora i colori allegri delle aiuole sono andati perduti, le piante sono divenute alberi dall’aspetto selvaggio e l’insieme appare come ‘una macchia nera’, incolto e oscuro come i meandri dei ricordi e della psiche della protagonista.
Un fiore, in particolare, emerge dal racconto e riprende il duello acqua - sangue che percorre queste pagine: è l’iris blu che, con la sua presenza, segna indelebilmente la psiche di una delle protagoniste, Abigail. L’iris è un fiore simmetrico, a sei petali, simbolo di purificazione in Oriente e messaggero in Occidente. Era Iris, la figlia di Elettra e Taumante, colei che accompagnava i defunti nel regno dei morti. Il suo colore non a caso, ancora, nasce dall’incontro tra rosso e azzurro, tra amore e saggezza ed esprime equilibrio e temperanza. Come in una carta dei Tarocchi, la temperanza è un angelo che sostiene due vasi, uno rosso e uno blu, tra loro scorre l’acqua vitale ovvero la vita di ognuno, che, continuamente si muove da un vaso all’altro, tra ragione e sentimento.
Anche in questo modo, Bartoletti si dimostra una narratrice esperta e coraggiosa. Suggerisce, offre metafore che agiscono a livello inconscio, mentre trattengono il lettore avvinto a una storia che si snoda divenendo molteplici storie di persone che a un certo punto della loro vita si trovano davanti ad una scelta. Continuare a vivere con la testa ‘chiusa in un preservativo’, come dice diverse volte la protagonista, o alzare lo sguardo e scegliere per sé una vita degna? Questa è forse la domanda morale che soggiace all’intera vicenda.
Per questo, Bartoletti crea dei personaggi la cui sola presenza, velata dietro un vetro o oscurata dall’ombra delle piante del grande giardino, stimola la protagonista Ivy a ribellarsi alla sua vita fasulla, a quel velo molto borghese che, oramai, laceratosi in più punti, stenta a nascondere la falsità e la violenza del suo matrimonio. Con la protagonista, incontriamo allora Freeman, l’uomo di colore che, come dice il suo nome, è riuscito a liberarsi e si erge, immobile, a monito dei pregiudizi razziali; Logan il capo dei Cayuga che, moderno Sisifo, continua a gettarsi dal pontile come autopunizione per non essere riuscito a salvare la sua tribù. I loro occhi ‘neri, profondi e pieni di verità’, scatenano nella protagonista una serie di forze che la portano a colloquiare con gli spiriti, ad ascoltare la terribile storia di una di loro e, risolvendo il suo ‘caso’ di omicidio, a liberare anche tutti gli altri dal loro fardello di dolore e incomprensione. Vivi e morti si muovono in questo racconto, lasciando il lettore sempre incerto sulla giusta comprensione, instabile, in bilico così come lo sono i personaggi stessi della storia.
Bartoletti si dimostra abile anche nel giocare con il tempo, creando nel racconto una specie di non-tempo, che ha lo spessore dell’acqua. Tutto è ovattato, nascosto dalla magla, la nebbia, che protegge e crea una sospensione spazio temporale. E la stessa nebbia sembra si sollevi, a tratti, per nascondere al lettore la verità; Bartoletti lascia a lui il giudizio finale sui fatti e sul comportamento della protagonista Ivy, offrendole però un’attenuante, altrettanto terribile all’azione compiuta e forse all’intera storia vissuta e ricordata. Sta solo al singolo lettore, credo, scegliere, allora, il finale che ritiene più consono a questa storia.
I vivi, ammonisce Bartoletti ‘peccano di superficialità’. È come se vivessero in uno stato onirico, bevendo tisane drogate, perché non vogliono sapere per non dover soffrire. Poi, improvvisamente, la realtà deflagra in tutta la sua violenza per Abigail e Ivy e suscita la domanda fatidica: come ho fatto a non vedere? Il mondo diventa un raccapricciante giardino occupato dalle macerie e dai calcinacci di Londra, create dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
È questa una storia intessuta di storie: raccontate con una prosa asciutta e concreta, senza fronzoli né falsa retorica. Sono storie ‘dure’, vissute da protagoniste che trovano dentro di sé una forza sconosciuta, una viscerale voglia di vivere a tutti i costi, che ancora una volta ricorda i fiori, che, anche loro, hanno dentro di sé quella magia che li fa tornare a ogni primavera, qualsiasi cosa accada.
Chiara Saccavini
Prologo
Mi chiamo Ivy Santo e sono ricoverata al Mount Sinai Hospital di New York. Il mio avvocato mi ha chiesto di scrivere un resoconto di quanto accaduto otto mesi fa. Gli ho detto che non sono molto brava a scrivere, che sono una modella e che so solo sfilare o camminare o posare, ma lui mi ha fatto avere in camera un quaderno dalla copertina rosa e una penna e ha insistito che io scriva quello che ricordo di quei giorni. La Procura di New York mi ha accusato di omicidio di primo grado, lui ritiene che sia legittima difesa.
Io ho ricordi nebulosi, intrecciati, confusi, sono due giorni che cerco di sforzare la memoria e faccio disegni circolari sui fogli bianchi.
Devo riuscire a ricordare.
Non so scrivere, non sono una scrittrice, sono una modella e so solo sfilare, ma devo sforzarmi di ricordare, il processo è alle porte ed io credo di essere (ancora) incinta. E fuori dalla finestra, è soltanto un brandello di pioggia.
I
Al funerale c’ero io e altri tre, mio marito, l’avvocato dello zio, e il tipo delle pompe funebri. Nel testamento lo zio aveva precisato di voler essere cremato. Dell’esistenza dello zio ero stata informata due giorni prima della cerimonia tramite una telefonata, cui aveva risposto mio marito.
«Come dice? Mia moglie non ha zii. Suo padre era figlio unico».
Martin aveva ascoltato l’interlocutore con interesse, senza passarmi la cornetta, nonostante la telefonata fosse per me. Rimasi a fissarlo dalla cucina, mentre sorseggiavo un caffè bollente. Erano le otto del mattino e Martin era già pronto per andare al lavoro.
«Chi era?», ho chiesto appena ha riattaccato.
«Chi lo avrebbe mai detto? Uno zio che compare dal nulla e che ha lasciato una piccola eredità. Il funerale è dopo domani a New Rochelle. Devo chiamare l’ospedale di questo imprevisto».
(L’imprevisto, una parola interessante
, non necessariamente influente nella situazione, ma che sì, in qualche modo, rivelava un intoppo, una scorrettezza di percorso che veniva ad affacciarsi, infilarsi, prepotente nel nostro presente. La mia vita, fino a quel momento, era scorsa in un’apparente neutralità, direi quasi una noiosa tiritera quotidiana. Lavoravo nel fantastico – iniquo – mondo della moda e Martin aveva studiato – a mie spese - per diventare medico, quel tipo di dottore ardimentoso e vagamente insolente, bello e tanto affascinante da catturare gli sguardi e le attenzioni delle pazienti – e malate immaginarie- disposte a rovesciarglisi addosso come melassa o olio bollente. L’imprevisto pareva aver avuto uno straordinario effetto su Martin che quasi non stava più in se dalla curiosità, e smaniava, tremava la sua bocca un poco, forse frenando inconsciamente un riso che dopo – da solo – avrebbe tramutato in risata sguaiata, incontenibile, di vero giubilo).
Martin non mi disse nient’altro. Il giorno dopo, sceglievo l’abito per il funerale – nero stretto accompagnato da un grosso cappello con velina - mentre lui non si fece vedere, probabilmente impegnato nelle telefonate per farsi sostituire sul posto di lavoro e chissà cosa altro ancora.
(Il suo lavoro, così necessario da sovrastare i sentimenti, una buona posizione è preferibile alla precarietà, alla nevrastenia provocata dall’alternarsi delle grigie giornate passate a cercar imperfezioni sul proprio volto nello specchio del bagno, anziché di sfuggita in quello retrovisore dell’auto che incolonnata nel traffico mattutino, soverchiata di gas, è preludio di fatica, di soddisfazione – o mal di testa – di rabbia e di quelle sensazioni che deteriorano la mente, ma ti fanno dire sono qualcuno d’importante, sono quel dottore, sono un dottore, sono il dottore).
Non sapevo di avere uno zio, che tipo doveva esser stato per non aver mai avuto menzione alcuna nella nostra famiglia e che io ho immaginato così diverso da mio padre, che lungo e magro ricopriva il ruolo di genitore attento e modello, e liberista, quello che ogni adolescente avrebbe desiderato al fianco – o dietro o davanti a se. Mio padre serio, ligio al dovere, poco propenso alle smancerie, imperturbabile, monotono ma sempre presente, condito a puntino da idee rivoluzionarie instillate da nonno, infilate come perle di una collana di rossi granati, spavalda ironia di un rosario cristiano votato al comunismo; felice della sua vocazione – indotta – al sindacalismo, all’uguaglianza, quella evocata da una purezza italiana – ingenua- e non americana – calcolata – e così infelicemente infelice di non dirmi mai, in nessuna occasione, di avere un fratello – più grande, più grosso – macchiato forse di un’onta, talmente grave da essere dimenticato, innominato, escluso come un reietto, tanto da pensare che non fosse mai esistito.
Adesso, davanti al feretro, mi rendevo conto che il suo nome era Cristo. La bara era già stata chiusa, e una gigantesca foto del defunto primeggiava sul tavolo guarnito di fiori. Era un uomo dall’aspetto mite, fronte non troppo alta, sorriso rassicurante, capelli grigi e fluenti.
(Nulla a che vedere con la mascella secca di mio padre e il suo sguardo segaligno, quasi amaro).
Martin accanto a me non disse una parola fin alla fine della cerimonia – poche parole pronunciate da un sacerdote di chissà quale chiesa, cattolica non credo – poi si alzò senza aspettarmi e andò dritto dall’avvocato. Si strinsero la mano.
«Piacere, sono Martin Collins. Può spiegarmi quello che sa? Cado letteralmente dalle nuvole».
«John Lopez. Cristo Santo era lo zio di sua moglie, ed era insegnante d’inglese. Ha avuto una vita – diciamo – particolare. Io lo conoscevo ormai da un po' di tempo e lui si era confidato con me, ma voglio specificare che non eravamo amici. Tra noi c’era il classico rapporto cliente – avvocato. (Può lasciare qui l’auto. Usiamo la mia. Mentre andiamo alla casa di Cristo, le racconterò quello che so. Dopo la riporterò qui, se per lei va bene)».
Martin non mi chiese cosa ne pensavo. Salimmo sulla macchina del signor Lopez per raggiungere la casa dello zio che si trovava a una trentina di miglia. Salii dietro, era un’auto comoda, un’Audi tedesca con gli interni di pelle color crema.
(Alcune convinzioni non possono essere disattese. Non avrei mai comprato un’Audi - non so il motivo di tanta ostilità, trovavo quel tipo di auto troppo formale, o perfetta, o tedesca o tutte e tre le cose assieme. Nel mio pensiero la avvicinavo a personalità rigide, o per lo meno poco propense all’apertura mentale, come se quell’auto rispecchiasse una vita lontano da me e dal mio interesse – infantile- verso la natura e la libertà; come se il guidare un certo tipo di vettura potesse convogliare i pensieri verso una grotta, un buco, una tana, un burrone o a tutte queste cose assieme. Pensavo a quanto dovesse essere indispensabile per l’avvocato guidare quell’auto che comunicava prestigio e referenza e incanto da ogni ventola, da ogni filtro, dai pori della pelle dei sedili, da ogni pertugio o fessura, dalla plastica stessa e tutto per la sua immagine).
Così, gli chiesi quale fosse la parcella per il suo interessamento ma Martin lanciò un’occhiataccia verso di me dallo specchietto di cortesia. Non era un bel periodo fra noi, ormai comunicavamo a monosillabi e il più delle volte se ne andava sbattendo la porta senza neppure salutarmi. Non ricordavo quando fosse cominciato tutto quest’astio, certo è che il suo atteggiamento mi feriva a morte. Il signor Lopez chiese se poteva accendere l’aria condizionata – nonostante fosse già ottobre inoltrato, era un pomeriggio afoso e soleggiato – e poi iniziò l’interessante storia di Cristo Santo.
«La prima cosa che mi ha raccontato è come fu scelto il suo nome. Le origini della famiglia sono italiane, il padre e la madre si erano trasferiti dalla Calabria appena sposati e a quanto sembra la madre era una fervente cattolica praticante, invece il marito era un simpatizzante comunista. Quando nacque il bambino, il padre voleva chiamarlo Karl, in onore a Marx, ma la madre si oppose. Litigarono e lui, per dispetto, andò all’anagrafe e fece trascrivere il nome Cristo. Sembra che in italiano Cristo Santo sia un’imprecazione, quasi una bestemmia. La madre di Cristo ci rimase malissimo, e si ostinò a chiamarlo Thomas. Il padre a chiamarlo Karl. Il padre di sua moglie invece ebbe miglior fortuna: fu chiamato Ernesto, riferito a Che Guevara e nessuno si oppose. La differenza di età tra i fratelli era di tredici anni, quindi quando Cristo si sposò con Abigail nel 1962, Ernesto ne aveva solo ventidue e Cristo trentacinque. Da questo momento iniziarono le stranezze, e alla fine tutte le cose folli che capitarono a quel pover’uomo, lo portarono ad allontanarsi da tutti e da tutto».
(Sentire parlare dei nonni e di mio padre provocò in me una strana sensazione, come se il mio corpo fosse lì, nell’auto, ma la mia testa altrove).
«Quali stranezze?», ha chiesto Martin.
L’avvocato ha tergiversato, ignorando la domanda. Osservando il colletto della sua camicia, da dietro, potevo vedere quanto fosse inamidato, candido, bianco, rigido, come del resto era così il suo collo e infilata la testa sulla sommità di un lungo bastone di legno chiaro –