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Altrove oceani erranti
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Altrove oceani erranti
E-book246 pagine3 ore

Altrove oceani erranti

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Info su questo ebook

Marvin accetta di fare l’insegnante su una sperduta isola dell’oceano Atlantico, così stravagante da non essere neppure segnata sulle mappe. È il 1929: dopo il crollo della Borsa di New York, lui e la moglie sono costretti a lasciare Londra per Saorsa, isola scozzese dalle mille leggende. È proprio qui che Marvin inizia a scrivere un diario, da lasciare come memoria a suo figlio Gabriel. Marvin non crede a nulla, è agnostico e si troverà a dover guardare con occhi nuovi gli avvenimenti, talvolta surreali, che l’isola manifesta. La storia si snoda in mari freddi, dove le balene cantano e le urie volano alte nel cielo. Sarebbe tutto perfetto ma, un giorno di settembre del 1939, scoppia la seconda Guerra Mondiale e qualcuno dei servizi segreti tedeschi adocchia Saorsa in cerca di qualcosa che potrebbe cambiare il destino dell’umanità…
A trovare il diario sarà Grace nel 2025, durante il suo soggiorno su un’isola delle Maldive, dove scopre di essere l’unica ospite del villaggio. Una storia a ritroso nel tempo, intrisa di oceani erranti, drammi familiari, speranze, fede e incredulità, e dove echeggia una domanda: “Tu credi?”
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2020
ISBN9788831683876
Altrove oceani erranti

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    Anteprima del libro

    Altrove oceani erranti - Clara Bartoletti

    (Ari­sto­te­le)

    Introduzione

    Se aves­si da­to un ti­to­lo a que­sta in­tro­du­zio­ne al nuo­vo ro­man­zo di Cla­ra Bar­to­let­ti, l’avrei in­ti­to­la­to: Il tem­po so­spe­so. 

    Seb­be­ne io sia un’ac­ca­ni­ta let­tri­ce dei suoi av­vin­cen­ti ro­man­zi, rie­sco sem­pre a stu­pir­mi di co­me Bar­to­let­ti gio­chi con il con­cet­to di tem­po. Pas­sa­to, pre­sen­te e fu­tu­ro s’in­ter­se­ca­no nei suoi rac­con­ti, tra­sfor­man­do la li­nea ret­ta in cui sia­mo abi­tua­ti a pen­sa­re il tem­po, in un’el­lis­se tri­di­men­sio­na­le, uno sfe­roi­de in cui ci si av­vi­ci­na e ci si al­lon­ta­na con­ti­nua­men­te dal cen­tro, pur ri­ma­nen­do ben as­se­sta­ti nel­la sua au­ra. Que­sto per­ché la bra­vu­ra di Cla­ra è an­che nel sa­per ge­sti­re e in­ca­stra­re, a ma­no a ma­no che la sto­ria evol­ve, i pez­zi del puzz­le che va co­struen­do as­sie­me ai let­to­ri e che por­te­ran­no que­sti ul­ti­mi a por­si una do­man­da - in que­sto ca­so la do­man­da del­la vi­ta -, che li aiu­te­rà a ca­pi­re me­glio quel­lo che so­no, che fan­no e che sen­to­no.

    Il bel rit­mo del­la nar­ra­zio­ne e i fat­ti che si ac­ca­val­la­no ve­lo­ci, av­vin­co­no il let­to­re che non vor­reb­be mai la­sciar­ne la let­tu­ra.

    Ma del­la tra­ma non vo­glio dir­vi nul­la, né del can­to del­le ba­le­ne, che ac­com­pa­gna i pro­ta­go­ni­sti po­nen­do l’ac­cen­to i mo­men­ti to­pi­ci del­la sto­ria, per­ché è un ro­man­zo che va gu­sta­to una pa­gi­na do­po l'al­tra. Ol­tre la sto­ria e den­tro di es­sa vi so­no pe­rò al­cu­ni spun­ti che in­du­co­no il let­to­re a ri­flet­te­re.

    In pri­mis, que­sto ro­man­zo ha un Fil Rou­ge che in qual­che mo­do, a mio av­vi­so, lo col­le­ga sot­til­men­te con Sol­tan­to un bran­del­lo di piog­gia, th­ril­ler psi­co­lo­gi­co del 2018. Non vo­glio sof­fer­mar­mi tan­to sul pe­rio­do sto­ri­co, la Se­con­da Guer­ra Mon­dia­le con il suo co­rol­la­rio di atro­ci­tà, che en­tra pre­po­ten­te­men­te nel­le due sto­rie su­sci­tan­do un ri­scat­to mo­ra­le nei pro­ta­go­ni­sti e, cre­do, an­che nei let­to­ri.

    Quel­lo a cui pen­so è piut­to­sto un co­lo­re: il vio­la. Nel pre­ce­den­te ro­man­zo era il co­lo­re di un fio­re, un iris, che ave­va im­pre­gna­to del­la sua es­sen­za i ri­cor­di del­la pro­ta­go­ni­sta. 

    Ora in­ve­ce è il co­lo­re di un’ac­qua spe­cia­le, mi­ste­rio­sa, sal­vi­fi­ca. Il vio­la di per sé è sim­bo­lo di mi­ste­ro. Uni­sce il mon­do ter­re­stre del ros­so a quel­lo del blu ul­tra­mon­da­no. Uni­sce il ros­so dell’azio­ne e del com­bat­ti­men­to al blu dell’equi­li­brio e del­la cal­ma.

    L’ac­qua, poi, ci por­ta col pen­sie­ro a sim­bo­li an­ti­chi: già Ire­neo di Lio­ne in­di­ca­va il ri­to del bat­te­si­mo qua­le con­ver­sio­ne dell’ani­ma, ve­ra e pro­pria pro­fes­sio­ne di fe­de del bat­tez­zan­do. A lui era po­sta la do­man­da: ‘Cre­di tu?’ ed egli ri­spon­de­va ‘Cre­do’.

    Nel rac­con­to di Bar­to­let­ti, a uno a uno i per­so­nag­gi si tro­ve­ran­no di fron­te la stes­sa do­man­da e ognu­no ri­spon­de­rà se­con­do quan­to la sua ani­ma gli sug­ge­ri­rà.

    Al­cu­ni cre­de­ran­no e si la­sce­ran­no vi­ve­re, di con­se­guen­za, in una vi­ta nuo­va, ar­ric­chi­ta da­gli ef­fet­ti ma­gi­ci di que­sto li­qui­do spe­cia­le. Per al­tri, co­me per il pro­ta­go­ni­sta Mar­vin che rac­con­ta in pri­ma per­so­na gli av­ve­ni­men­ti di cui è sta­to te­sti­mo­ne, a cau­sa del­la re­si­sten­za del­la sua ra­gio­ne agno­sti­ca, la scel­ta sa­rà più aspra e com­bat­tu­ta.

    Gra­ce, la pro­ta­go­ni­sta del rac­con­to am­bien­ta­to nel fu­tu­ro, la ve­do co­me la per­so­ni­fi­ca­zio­ne del let­to­re stes­so; la gio­va­ne si tro­va ina­spet­ta­ta­men­te di fron­te all’oc­ca­sio­ne del­la vi­ta, ete­ro­ge­nea com­bi­na­zio­ne di mi­ste­ro e in­tri­sa di ma­gia.

    Vi­vrà in un tem­po so­spe­so una va­can­za so­li­ta­ria in un luo­go pa­ra­di­sia­co, cir­con­da­ta an­co­ra dall’ac­qua del ma­re e del­la piog­gia. Tro­van­do un li­bro, s’in­tro­du­ce in que­sta sto­ria, la stes­sa che il let­to­re sta a sua vol­ta leg­gen­do, crean­do una sor­ta di mi­se en aby­me - per dir­la co­me An­dré Gi­de -, una du­pli­ca­zio­ne di se­quen­za che an­co­ra una vol­ta chia­me­rà Gra­ce e il let­to­re a ri­spon­de­re a una fa­ti­di­ca do­man­da.

    L’ac­qua, que­sto ma­te­ria­le spe­cia­le è, co­me scris­se Gior­da­no Bru­no in De l’in­fi­ni­to, Uni­ver­so et Mon­di, me­dia­to­re per ec­cel­len­za tra i mon­di.

    Per que­sto l’azio­ne si svol­ge su una spe­cia­le iso­la: Saor­sa, ter­mi­ne gae­li­co che si­gni­fi­ca li­ber­tà ma an­che re­den­zio­ne, sal­va­zio­ne. Qui gli abi­tan­ti, giun­ti lì da espe­rien­ze e luo­ghi as­sai dif­fe­ren­ti, im­pa­ra­no a vi­ve­re in una pic­co­la co­mu­ni­tà ar­mo­ni­ca e fra­ter­na. Ri­spet­ta­no le leg­gen­de, i mi­ti che si nar­ra­no da se­co­li, di ge­ne­ra­zio­ne in ge­ne­ra­zio­ne, per­ché san­no che es­si na­scon­do­no una gran­de ve­ri­tà.

    Per que­sto Gra­ce e il let­to­re si tro­ve­ran­no a pen­sa­re e cer­ca­re di com­pren­de­re l’in­te­ra sto­ria su un’al­tra iso­la, pa­ra­di­so ter­re­stre e ac­qua­ti­co.

    Cre­do che Bar­to­let­ti ab­bia an­che vo­lu­to in­fon­de­re al­le sue pa­gi­ne un mes­sag­gio eco­lo­gi­sta. È in­dub­bio che se non ri­pen­sia­mo al no­stro rap­por­to con l’am­bien­te che ci ospi­ta, non ci sa­rà fu­tu­ro per l’uma­ni­tà. Cla­ra sem­bra ri­cor­dar­ci, at­tra­ver­so le de­scri­zio­ni del­la ve­ge­ta­zio­ne sel­vag­gia dell’iso­la Saor­sa e del­la co­lo­ra­ta bel­lez­za nei fon­da­li del­le iso­le Mal­di­ve, che se non in­stau­ria­mo un rap­por­to sag­gio e ma­tu­ro con l’am­bien­te an­dre­mo in­con­tro a se­ri pro­ble­mi cli­ma­ti­ci che met­te­ran­no in pe­ri­co­lo le no­stre vi­te.

    E’ un mes­sag­gio che mi tro­va per­so­nal­men­te mol­to coin­vol­ta e che non si de­ve mai di­men­ti­ca­re né pas­sa­re in se­con­do pia­no, an­che se pres­sa­ti da ma­cro pro­ble­mi dell’eco­no­mia o dai no­stri pic­co­li dub­bi quo­ti­dia­ni.

    Quan­do leg­ge­re­te que­sta sto­ria, fa­te at­ten­zio­ne an­che ai no­mi dei per­so­nag­gi. Una co­sa che mi ha in­se­gna­to l’amo­re per la let­tu­ra è che gli scrit­to­ri e gli ar­ti­sti in ge­ne­re, so­no es­se­ri spe­cia­li, in gra­do di cap­ta­re, co­me so­ste­ne­va Pla­to­ne, quel­lo che è scrit­to nell’aria. E dun­que nul­la è mai a ca­so, nep­pu­re un no­me. Mar­vin, ad esem­pio è di ori­gi­ne cel­ti­ca e si­gni­fi­ca Bel­lis­si­mo ma­re, ma ha al suo in­ter­no an­che Mar di Mar­te e il per­so­nag­gio com­bat­ten­te e, al­le vol­te, un po’ sgra­de­vo­le nei suoi com­por­ta­men­ti, lo ri­cor­da. Inol­tre a me fa ve­ni­re in men­te il per­so­nag­gio omo­ni­mo di Dou­glas Adams, un an­droi­de un po’ pa­ra­noi­co, un cer­vel­lo­ne ri­dot­to a com­pie­re pic­co­le azio­ni; Aga­ta è il no­me di una pie­tra pre­zio­sa ma an­che un ag­get­ti­vo gre­co an­ti­co e si­gni­fi­ca buo­na, gen­ti­le; Gra­ce, la gra­zia: a lei giun­ge ‘per ca­so’ (o per gra­zia ap­pun­to dall’al­to del de­miur­go scrit­to­re) lo sve­la­men­to dell’in­te­ra sto­ria; Ra­fael e Ga­briel, i fi­gli di Mar­vin non pos­so­no non ri­cor­da­re gli ar­can­ge­li, gua­ri­to­ri e cu­sto­di di ciò che è pre­zio­so; e Cas­san­dra che tut­to co­no­sce ma, che non sem­pre è cre­du­ta…

    La­scio a ognu­no di voi la cu­rio­si­tà di leg­ge­re e scan­da­glia­re in al­tro mo­do pos­si­bile la sto­ria. 

    Il tem­po. Ho ini­zia­to co­sì que­sto mio scrit­to.

    Il tem­po del­la let­tu­ra non è mai li­nea­re. Pos­sia­mo di­la­ta­re at­ti­mi all’in­fi­ni­to, qua­si, o com­pri­me­re de­cen­ni in po­che ri­ghe. Pos­sia­mo, se sia­mo for­tu­na­ti co­me Gra­ce, ave­re l’oc­ca­sio­ne di vi­ve­re in una bol­la atem­po­ra­le, so­spe­si tra ter­ra e cie­lo, tra ra­gio­ne e sen­ti­men­to, ra­zio­na­li­tà e ma­gia.

    In que­gli istan­ti pos­sia­mo sen­ti­re l’eco del­la do­man­da: Cre­di? e, pren­den­do­ci tut­to il tem­po che vo­glia­mo, cer­ca­re den­tro di noi la ri­spo­sta giu­sta.

    Chia­ra Sac­ca­vi­ni

    Parte UNO

    Maldive 2025

    Pio­ve sull’iso­la, or­mai da tre gior­ni, in­spie­ga­bil­men­te sen­za so­sta. Un di­lu­vio ine­so­ra­bi­le che ha re­so la sab­bia co­me un fan­go im­pos­si­bi­le da pra­ti­ca­re. Gra­ce è nel­la sua ca­me­ra over-wa­ter, nel­la pe­nom­bra, sta fu­man­do una si­ga­ret­ta e os­ser­va in­cre­du­la fuo­ri dal­la ve­ran­da la piog­gia gri­gia che an­nul­la la vi­sua­le sul­la la­gu­na, as­so­mi­glian­do a una col­tre di neb­bia im­pe­ne­tra­bi­le. Si scor­go­no ap­pe­na le spu­me di on­da che sbat­to­no tra di lo­ro, muo­ven­do­si co­me in un film al ral­len­ta­to­re. For­tu­na­ta­men­te la tem­pe­ra­tu­ra è al­ta, an­che se l’umi­di­tà non ac­cen­na a di­mi­nui­re.

    L’ave­va­no det­to: il 2025 sa­rà l’an­no del­la piog­gia. Dap­per­tut­to. An­che le Mal­di­ve non han­no avu­to scam­po. Tut­to pe­rò in que­sta va­can­za ha dell’in­so­li­to.

    Gra­ce è ri­ma­sta col­pi­ta da un’of­fer­ta ir­ri­nun­cia­bi­le. Quel re­sort, il re­sort per ec­cel­len­za, ca­te­go­ria cin­que stel­le su­pe­rior con tut­te le co­mo­di­tà e ame­ni­tà che ca­rat­te­riz­za­no una lo­ca­li­tà di lus­so, but­ta­ta lì, qua­si sen­za ri­te­gno. Una ci­fra da non star­ci a pen­sa­re so­pra, pre­no­ta­re sen­za far­si do­man­de, è quel­la che ha pa­ga­to per un la­st mi­nu­te di tut­to ri­spet­to.

    Pe­rò, fin dall’ini­zio, c’è sta­to qual­co­sa d’in­spie­ga­bi­le. Gra­ce già al pon­ti­le de­gli idro­sci­vo­lan­ti era so­la. Pos­si­bi­le che nes­sun al­tro ab­bia col­to l’oc­ca­sio­ne?

    Il vo­lo di qua­ran­ta­cin­que mi­nu­ti, che l’ha por­ta­ta a Nord, in quel­la par­te an­co­ra (ap­pa­ren­te­men­te) na­tu­ra­le dell’ar­ci­pe­la­go è sta­to ca­rat­te­riz­za­to da vuo­ti d’aria e tur­bo­len­ze. Es­se­re so­pra un pic­co­lo ae­ro­mo­bi­le ru­mo­ro­so, con le eli­che che gi­ra­no vor­ti­co­sa­men­te a mezz’aria, fen­den­do un tem­po­ra­le spa­ven­to­so con saet­te e nu­vo­lo­ni gri­gi, non è sta­ta una pas­seg­gia­ta.

    Poi, una vol­ta so­pra il re­sort, è sta­to qua­si im­pos­si­bi­le di­stin­guer­lo: so­lo una mac­chia ver­de di pal­me nel bian­co­re ge­la­ti­no­so del mal­tem­po.

    Una vol­ta sce­sa, è sta­ta ac­col­ta da Aa­sim e si è but­ta­ta let­te­ral­men­te sot­to il gran­de om­brel­lo blu con la scrit­ta del re­sort che lui le ave­va por­ta­to per non ba­gnar­si, scop­pian­do a ri­de­re.

    Le Mal­di­ve: il so­gno di ogni es­se­re do­ta­to d’im­ma­gi­na­zio­ne e di amo­re per il ma­re, di­pin­to co­me spiag­ge bian­che ac­ca­rez­za­te da dol­ce ri­sac­ca dai co­lo­ri tur­che­si, pun­ti­ni blu che pa­io­no oc­chi nel ma­re. Que­ste iso­le pa­ra­di­sia­che le mo­stra­va­no il lo­ro la­to pri­mi­ti­vo, tri­ba­le.

    Le ve­re Mal­di­ve, ec­co­le! Quel­le dei mon­so­ni, del­le piog­ge, del ven­to te­so, del ma­re ar­rab­bia­to che tan­to spa­ven­ta i suoi abi­tan­ti. Quel ma­re in­si­dio­so dei ban­chi di sab­bia che na­scon­do­no spi­ri­ti ma­li­gni, gli stes­si che cam­mi­na­no di not­te, quan­do non c’è la lu­na, per pren­de­re sem­bian­ze uma­ne e ru­ba­re l’ani­ma ai bam­bi­ni, chia­man­do­li per no­me e ap­pro­fit­tan­do del­la lo­ro in­ge­nui­tà nel vol­tar­si. Le Mal­di­ve del po­po­lo, sem­pre più sna­tu­ra­to dal­le sue tra­di­zio­ni ora­li, dal­le sto­rie spi­ri­tua­li chia­ma­te fù­re­ta; cul­tu­ra sra­di­ca­ta dal con­ti­nuo avan­za­re di usi oc­ci­den­ta­li, che pro­po­ne va­sche idro­mas­sag­gio e pi­sci­ne do­ve non ce n’è bi­so­gno. Le la­cri­me di Al­lah.

    Gra­ce riem­pie i do­cu­men­ti del check in, in una stan­za cir­co­la­re, aper­ta tut­ta at­tor­no, do­ve uno svo­glia­to ven­ti­la­to­re com­pie il suo do­ve­re; il pa­vi­men­to di sab­bia è per­fet­ta­men­te ra­strel­la­to, sui ta­vo­li di le­gno ci so­no gran­di con­chi­glie che rie­vo­ca­no ocea­ni per­du­ti; un cock­tail di ben­ve­nu­to, fred­dis­si­mo, all’ana­nas le vie­ne of­fer­to as­sie­me a una sal­viet­ta pro­fu­ma­ta al­la men­ta.

    Gra­ce si­ste­ma la bor­sa, fu­ma una si­ga­ret­ta os­ser­van­do il cie­lo co­per­to, le pal­me che on­deg­gia­no in ba­lia del mon­so­ne. Af­fer­ra la chia­ve del­la ca­me­ra che ha un por­ta­chia­vi a for­ma di squa­lo.

    E’ per­ples­sa, ma­gi­ca­men­te stor­di­ta da ciò che ve­de e so­prat­tut­to per­ce­pi­sce. L’iso­la è gran­de, con am­pie spiag­ge co­per­te di co­ral­li bian­chi e con­chi­glie, e ciuf­fi di al­ghe ver­da­stre; l’aria sem­bra so­spe­sa, la na­tu­ra è ir­ri­ve­ren­te ades­so e non c’è ani­ma vi­va in gi­ro. Pre­su­me che sia­no tut­ti rin­chiu­si nel­le lo­ro ca­me­re, i tu­ri­sti. A ce­na si ac­cor­ge in­ve­ce che è l’uni­ca ospi­te del vil­lag­gio. Per­cor­re la pas­se­rel­la del pon­ti­le con l’om­brel­lo, e si chie­de co­sa stia suc­ce­den­do. For­se la ge­stio­ne è in via di cam­bia­men­to, for­se il re­sort è in fal­li­men­to… Gra­ce non com­pren­de. So­spet­ta una fre­ga­tu­ra: for­se l’of­fer­ta era co­sì ap­pe­ti­bi­le, poi­ché non avreb­be sod­di­sfat­to le esi­gen­ze?

    Si av­vi­ci­na al buf­fet, il ci­bo è buo­no, pro­fu­ma­to. Il suo ca­me­rie­re, che ap­pa­re co­me un’om­bra ve­lo­ce, la aiu­ta con la scel­ta del­le por­ta­te.

    Gra­ce pren­de mol­ti dol­ci, ne è ghiot­ta, e quel­li sul ta­vo­lo han­no un aspet­to in­vi­tan­te. Pren­de frut­ta fre­sca, e un caf­fè ri­stret­to. Fu­ma una si­ga­ret­ta, tan­to non c’è nes­su­no e non re­ca di­stur­bo.

    Chie­de ad Aa­sim, che è ri­ma­sto al­la re­cep­tion con una ra­gaz­za mal­di­via­na da­gli oc­chi ver­di, quan­do sa­rà pos­si­bi­le fa­re snor­ke­ling ma, lui al­za le brac­cia. Non lo sa.

    Il tem­po sem­bra con­ge­la­to e an­che non col­la­bo­ra­ti­vo, co­sa per Gra­ce al­quan­to ir­ri­tan­te.

    Co­sì, pri­ma di tor­na­re nel­la sua over-wa­ter per la ter­za not­te, e do­po la ter­za ce­na in so­li­ta­ria (Aa­sim ha ac­ce­so una can­de­la sul ta­vo­lo per crea­re un’at­mo­sfe­ra), e gra­ta di un at­ti­mo di tre­gua dal­la piog­gia, Gra­ce de­ci­de di en­tra­re nel­la pic­co­la bi­blio­te­ca dei li­bri la­scia­ti dai tan­ti tu­ri­sti. La bi­blio­te­ca è a ri­dos­so del­la re­cep­tion, ha il tet­to di pa­glia e pol­tron­ci­ne co­mo­de per la let­tu­ra. Gra­ce è ac­ci­glia­ta: mai e poi mai avreb­be pen­sa­to di leg­ge­re ro­man­zi al­le Mal­di­ve, lei che è sem­pre fis­sa nell’ac­qua, con la sua te­le­ca­me­ra Go Pro, a fil­ma­re tar­ta­ru­ghe e pe­sci pal­la.

    Guar­da i vo­lu­mi da lon­ta­no, in­di­vi­dua quel­li stra­nie­ri (si no­ta­no su­bi­to i ti­to­li in­gle­si e te­de­schi) e il suo sguar­do ca­de su una co­per­ti­na az­zur­ra. Il ti­to­lo, Al­tro­ve Ocea­ni Er­ran­ti. Non c’è il no­me dell’au­to­re. Sem­bra una vec­chia stam­pa, for­se la sal­se­di­ne, il ven­to e la sab­bia l’han­no con­su­ma­ta. All’in­ter­no, sul­la pri­ma pa­gi­na in­gial­li­ta, c’è una scrit­ta a ma­no, ver­ga­ta con cal­li­gra­fia flui­da, de­stror­sa, ti­pi­ca di una per­so­na che è aper­ta al mon­do.

    Di­ce sem­pli­ce­men­te, leg­gi­mi.

    Non c’è il rias­sun­to del­la tra­ma, die­tro. So­lo un’im­ma­gi­ne: una gran­de ba­le­na flut­tuan­te nel cie­lo e di spal­le una bam­bi­na che la in­di­ca, men­tre na­scon­de nell’al­tra ma­no una fion­da.

    La scrit­ta di­ce an­co­ra: mi hai tro­va­to. Leg­gi­mi ed io tro­ve­rò te.

    Gra­ce sor­ri­de, le scap­pa una ri­sa­ta ro­ca, di­ver­ti­ta.

    Mor­mo­ra man­nag­gia man­nag­gi­na, e pen­sa che sa­rà la pri­ma vol­ta che leg­ge­rà un ro­man­zo al­le Mal­di­ve, men­tre nel frat­tem­po fa­rà in ca­me­ra la dan­za del so­le.

    Non ci vo­le­va que­sta sec­ca­tu­ra, par­don, an­nac­qua­ta.

    Si av­via con pas­so svel­to ver­so la sua ca­me­ra, men­tre la piog­gia tor­na, con più for­za, fred­da e ge­la­ta co­me aghi di ghiac­cio.

    In ca­me­ra, get­ta il li­bro sul­la scri­va­nia e si ac­cen­de un’al­tra si­ga­ret­ta.

    Le Mal­di­ve so­no an­che que­sto, scat­ta una fo­to con il te­le­fo­ni­no e la spe­di­sce all’ami­ca Ale­xia.

    Qui è un fi­ni­mon­do, leg­ge­rò qual­co­sa. A pre­sto.

    Il bip in usci­ta non è av­val­la­to da ri­spo­sta.

    Ri­spon­de­rà do­ma­ni, pen­sa. E spe­gne la si­ga­ret­ta.

    Milano 2020

    Die­go ap­pren­de ades­so che la Lom­bar­dia è zo­na ros­sa.

    È la se­ra del set­te mar­zo.

    La non­na è a let­to con la feb­bre da tre gior­ni.

    Non vuo­le di­re nul­la.

    È so­lo una ba­na­le in­fluen­za.

    L’han­no det­to in mol­ti. I gior­na­li no. I gior­na­li stan­no fa­cen­do ter­ro­ri­smo.

    Lo sap­pia­mo che quel­li ten­do­no a spa­ven­ta­re.

    È tut­to sot­to con­trol­lo.

    È que­stio­ne di quin­di­ci gior­ni.

    Tut­to pas­se­rà.

    Tut­to tor­ne­rà co­me pri­ma.

    Co­me sem­pre.

    Saorsa

    Ago­sto 1930

    I

    «Tut­ti sot­to co­per­ta!»

    L’or­di­ne era ar­ri­va­to co­me una fru­sta­ta. Aga­ta ed io, co­me due bam­bi­net­ti spa­ven­ta­ti, sa­lim­mo sul bat­tel­lo bian­co e blu. La aiu­tai sor­reg­gen­do­la per un brac­cio, in­dos­sa­va un tail­leur co­lor pe­sca con gon­na a pie­ghe sot­to il gi­noc­chio, un cap­pel­li­no bian­co che le cal­za­va co­me un ca­sco, e una ca­mi­cet­ta bian­ca di se­ta, e no­tai im­me­dia­ta­men­te ma, so­lo in quel mo­men­to, che non ave­va la te­nu­ta adat­ta per an­da­re su un’iso­la che qual­cu­no ave­va apo­stro­fa­to di­men­ti­ca­ta da Dio e tut­ti i san­ti. Bar­col­lò in­cer­ta sui tac­chi, e sce­se im­me­dia­ta­men­te sot­to la tol­da, do­ve ci ave­va in­di­ca­to il ca­pi­ta­no, sen­za fia­ta­re. Di sot­to c’era­no al­cu­ne pan­che di le­gno, e nes­sun equi­pag­gia­men­to di soc­cor­so, nep­pu­re un sal­va­gen­te. Il ca­pi­ta­no, un omac­cio stor­to, dal­la car­na­gio­ne ros­sic­cia co­me la sua bar­ba, ca­pel­li lun­ghi, l’aspet­to de­ca­den­te di un di­se­re­da­to, ab­baiò in gae­li­co ver­so due ra­gaz­zi­ni dall’ap­pa­ren­te età di tre­di­ci an­ni. I due ave­va­no un’espres­sio­ne idio­ta di­pin­ta sul vi­so. Io, in­se­gnan­te, ero abi­tua­to a ve­de­re bam­bi­ni di ogni età, e quel­li mi par­ve­ro su­bi­to due gon­zi, che il ca­pi­ta­no trat­ta­va sen­za pie­tà co­me se fos­se­ro an­cor più stu­pi­di di quan­to sem­bras­se­ro.

    Il cie­lo scin­til­la­va sul ma­re, fer­mo co­me olio in una ba­ci­nel­la, nel cie­lo non c’era una nu­vo­la, non po­te­va­mo sce­glie­re gior­no mi­glio­re per il tra­sfe­ri­men­to da Mal­laig Port all’iso­la, do­ve avrei ini­zia­to il mio nuo­vo im­pie­go co­me in­se­gnan­te. Già ar­ri­va­re a Mal­laig era sta­ta un’im­pre­sa, ave­va­mo cam­bia­to due tre­ni e avu­to un pas­sag­gio in au­to so­lo per­ché il pa­dre di Aga­ta co­no­sce­va un ti­zio che si era of­fer­to – die­tro lau­to pa­ga­men­to – di ac­com­pa­gnar­ci fi­no a quel pae­se sper­du­to do­ve par­ti­va l’uni­ca trat­ta per Saor­sa. Es­sen­do in­gle­se non co­no­sce­vo a per­fe­zio­ne il gae­li­co scoz­ze­se ma, la pa­ro­la Saor­sa – li­ber­tà – mi ave­va su­bi­to con­qui­sta­to, dan­do­mi le ener­gie ne­ces­sa­rie per mol­la­re tut­to e par­ti­re. Non che ci fos­se­ro scel­te al­la mi­se­ria e al­la di­sgra­zia, det­to fra noi. So­no sta­te que­ste le pa­ro­le che usai con Aga­ta per con­vin­cer­la a se­guir­mi: al­lon­ta­na­re per sem­pre da noi mi­se­ria e di­sgra­zia.

    Ades­so, su quel­la bar­ca ar­rug­gi­ni­ta e non si­cu­ra, i due gno­mi mol­la­va­no le ci­me, men­tre il ca­pi­ta­no, che ar­meg­gia­va il ti­mo­ne con la stes­sa in­ten­si­tà con cui cer­ca­va qual­co­sa – sco­prii pre­sto

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