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Fasci di canne: storia di Nino
Fasci di canne: storia di Nino
Fasci di canne: storia di Nino
E-book288 pagine4 ore

Fasci di canne: storia di Nino

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Info su questo ebook

Friuli 1938, una famiglia ai margini di una società in trasformazione; la nascita di una città di fondazione vista attraverso gli occhi di un bambino; la tragedia che segnerà per sempre la sua vita, portandolo verso una solitudine sempre più profonda, attraverso gli anni della guerra e i conflitti politici-militari al confine orientale.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2020
ISBN9788835391081
Fasci di canne: storia di Nino

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    Anteprima del libro

    Fasci di canne - Daniele Brunello

    Ancor prima che sul viso, ogni folata di vento, anche il più impercettibile alito di brezza, si manifestava con il fruscio delle canne, con il dondolio dei loro pennacchi setosi. Esse sovrastavano il piccolo Nino, che seguendo lo stretto corridoio tra i filari di canne, sarebbe giunto a un fosso di scolo, uno dei tanti che segnavano come una graticola il territorio di pesca alle rane. Nell’attraversare quel mare di canne, all’apparenza impenetrabile, avrebbe potuto incontrare grossi topi e serpenti, ma questi non gli facevano paura; quei muri di canne invece sì. A volte erano muti e silenziosi, altre, diventavano chiassosi, dimora di voci, sospiri e urla, ma sempre erano incombenti e minacciosi. Quando poi il vento soffiava impetuoso, si piegavano, sembrava gli crollassero addosso con il fragore dei cavalloni di un mare in tempesta. Non era stato sempre così. Un tempo, al loro posto, c’erano campi di frumento, di mais e alberi dai frutti succosi. Poi un giorno, all’improvviso, enormi trattori, come non ne aveva mai visto, avevano spianato ogni cosa, tracciato solchi profondi con aratri giganteschi, e alla fine di tutto quel lavoro spuntarono le canne. Anche la madre di Nino aveva contribuito a piantarle, lavorando da mattina a sera assieme a un esercito di altre donne. Nino pensava che sarebbero cresciute delle piantine, come quelle delle risaie vicino alla laguna. Invece crebbero gigantesche, creando muri altissimi, come quelli della grande fabbrica che stava sorgendo più su, vicino alla ferrovia. La pesca delle rane però era importante e Nino sapeva dove trovarle abbondanti, per questo vinceva la paura e spesso si infilava attraverso stretti passaggi, facendosi inghiottire dalle fauci del mostro. Quella mattina, alla fine di agosto del 1938, la voce del canneto cambiò e assunse un tono di voce umana; Nino rimase in ascolto: ­ « Foste graziose troppo graziose canne degli immensi canneti di Porto Buso ognuna molla tremante sotto il peso d’una rondine tanto graziose da meritare esigere un’improvvisa tempesta d’acciaio mortale. » Poi il silenzio. Nino, immobile, senza far rumore, trattenendo il respiro, sentì il ritmo del suo cuore accelerare; era vietato entrare nel canneto. Pensò che forse la voce apparteneva al nuovo padrone di quelle terre, non lo aveva mai visto ed era curioso, ma il timore di un rimprovero lo consigliava di nascondersi. Passò un tempo interminabile e nessuna altra voce o rumore si udì. L’aria era immobile e cominciava a fare caldo, Nino sudava, fermo tra muri di canne che lo avvolgevano come un sudario. Nel silenzio irreale una biscia strisciò davanti ai suoi piedi, seguiva una direzione precisa e in un attimo scomparve; si stava sicuramente dirigendo verso il fosso per cacciare le rane. Le rane! Nino ricordò lo scopo per cui era lì e scattò in avanti nella stessa direzione del rettile. Quando giunse al fosso fu accolto da una serie di piccoli tonfi e spruzzi, sorrise alla folla di quei piccoli esseri verdi: sarebbe stata una buona pesca! Balzò nell’acqua poco profonda e a mano a mano che avanzava, gettò lo scompiglio tra le rive del fosso, creando un effetto domino di piccole molle smeraldine che scattavano in tuffi prodigiosi. Ma Nino era altrettanto veloce e subito catturò al volo la prima rana, sentì la vita pulsare umida nella stretta della sua mano, ma non ne ebbe alcuna pietà; veloce la infilzò in un filo di ferro e si tuffò lungo disteso nell’acqua per catturarne un’altra. Al ritorno da quella pesca abbondante Nino percorse uno dei corridoi che dividevano il canneto in tanti rettangoli, era un percorso più agevole, ma lo esponeva al rischio di incontrare qualcuno. Di nuovo udì quella voce: « …Divorare continuo di canneti della nascente città di Torre Viscosa o dea Geometria… » si fermò impietrito, era la voce del padrone del canneto. Poco più avanti il corridoio ne intersecava un altro, la voce proveniva certamente da uno dei bracci laterali; non poteva vederlo né essere scorto, avrebbe potuto tuffarsi di lato nella selva di canne, ma la curiosità era così grande che invece avanzò di qualche passo verso il centro dell’incrocio. Gli apparve all’improvviso un uomo in stivali e pantaloni a sbuffo, baffi, pelata e aspetto arcigno. Era sorpreso, certamente non si aspettava di trovare un bambino di sei anni, solo, in mezzo a quell’immenso canneto. Lo squadrò con disgusto. Nino era vestito di stracci, scalzo, sporco, con i capelli ricoperti da uno strato di fango che si stava seccando, e portava al collo una collana di rane che pendevano come grossi smeraldi. «Voi siete il nuovo padrone?» Chiese Nino timoroso. «Sono l’aeropoeta Filippo Tommaso Marinetti, mio piccolo e selvaggio cacciatore di ranocchi, ripulisciti, ma conserva sempre la fiera purezza della tua violenza, e se un giorno mi rincontrerai, ancor più vecchio e canuto, non aver pietà di me, sovrastami pure con la forza della tua giovinezza.» Così disse e si allontanò continuando a recitare versi a voce alta.

    Giunto a Malisana Nino riuscì a vendere il suo pescato per pochi centesimi e s’avviò verso casa stringendo le monetine nel pugno; a settembre ci sarebbe stata la festa del santo patrono, e già pensava a come spenderli. Correva voce però che qualche giorno più avanti ci sarebbe stata una festa ancora più importante, lì vicino, a Torre di Zuino, una festa come nessuno aveva mai visto e pensava che forse avrebbe potuto risparmiarli per quella occasione. Mezzogiorno era passato da un pezzo quando Nino arrivò a casa e aveva una gran fame. Lanciò un saluto al nonno che stava in cortile: « Mandi basavon!» Nonno Giuseppe neppure fece in tempo a scorgerlo che già era sparito attraverso la porta della cucina. « Mandi mame, mandi none!» Fece un giro veloce attorno al focolare cercando di sbirciare nel paiolo, troppo alto per lui. «Ho tanta fame!» Disse piazzandosi in ginocchio su una sedia con i gomiti appoggiati al tavolo. «Hai pescato le rane?» Gli chiese sua madre accostandosi. Nino, senza rispondere, si dondolava avanti e indietro, avvicinando e allontanando il busto al tavolo.

    «Ohe! Dico a te!»

    «Non ci sono andato.»

    «A sì? E come ti sei riempito di fango in questo modo?» Disse afferrandolo con forza per i capelli, interrompendo così bruscamente il suo movimento.

    «Ahi, mi fai male!»

    «Te lo dico io cosa hai fatto; hai pescato le rane e te le sei vendute. Dove sono i soldi?» Così dicendo gli prese entrambe le mani, che teneva chiuse a pugno, e le aprì a forza; non serravano altro che sassolini che il bimbo aveva raccolto sulla via del ritorno. «Bene, per oggi c’è solamente zùf,» disse allontanandosi verso il focolare.

    Quando uscì nel cortile Nino aveva ancora fame, arrivò fino al viottolo che conduceva alla strada principale e si fermò a osservare l’orizzonte poi, deluso, ritornò sui propri passi. L’estate precedente faceva rapide incursioni nei frutteti vicini e si rimpinzava di pesche o di uva, anche se ancora aspra. Ma adesso tutte le piante erano state sradicate, l’ultimo raccolto di frumento era stato trebbiato, e molto presto anche l’ultimo granturco sarebbe stato raccolto; per l’ultima volta in quella terra. Già ampi appezzamenti di terreno erano stati dissodati, il loro aspetto brullo e desolato strideva con il rifulgere di colori che normalmente aveva quel luogo, in quella stagione. Tutto lo spazio presto sarebbe stato occupato dalle canne. Nino rivolse allora il proprio interesse al nonno, che era intento ad aggiustare la ruota di una carriola, e si mise al suo fianco per osservarne con attenzione la perizia. Il vecchio, senza dire una parola, e senza alzare lo sguardo dalla sua occupazione, infilò una mano nella sacca che teneva sempre legata alla cintura e ne estrasse una manciata di susine porgendole al nipote. Erano piccole, ma Nino sapeva che erano dolcissime. Per un po’ continuarono nelle loro occupazioni: il vecchio a raspare il legno, il giovane a succhiare avidamente i frutti, fino a quando anche l’ultimo nocciolo fu ripulito ben bene.

    «Dove hai nascosto i soldi?» Chiese nonno Giuseppe. Nino non mentiva mai al nonno, anzi, era il suo confidente; senza rispondere si allontanò di corsa scomparendo dietro casa e, riapparendo poco dopo, porse al nonno quattro monetine di rame. Il vecchio osservò per un attimo le quattro piccole aquile che stavano allineate sul palmo della mano del piccolo. «Quante rane hai preso?» Disse riprendendo il lavoro. «Un fildifier così!» Mostrò Nino allargando le braccia. «Se vuoi diventare un bravo crotar devi stare attento a non farti fregare; ti devi far dare tre centesimi per ogni crot.» Nino si sentiva un po’ mortificato; rimirò sul palmo della mano le monetine rivoltandole con il dito, ora scoprendo la testa di re Vittorio Emanuele, ora l’aquila con le ali spalancate. Era soprattutto questa che gli piaceva, e poi il colore; aveva imparato che strofinandole con la sabbia, a cui aggiungeva un po’ d’aceto, diventavano lucide e brillanti. Gli era stato insegnato da Toni Mulinar, lo stesso a cui aveva venduto le rane; gli aveva chiesto: «Quale vuoi? Questa di nichel o queste quattro di rame?» Nino non aveva avuto dubbi.

    «Come pensi di spenderli?» Gli chiese il nonno.

    «Alla festa! Nono Zepeto , è vero che ci sarà una grande festa a Tor di Zuin

    «Così dicono. Sarà la festa per l’inaugurazione della fabbrica. Arriverà un sacco di gente importante, da Udine, da Venezia e anche da Roma; ci sarà perfino il Duce.»

    «Chi è il Duce?»

    «Il Duce è il capo dell’Italia, la persona più importante che c’è.»

    «Anche più importante del re?»

    «Così dicono.»

    «Io una persona importante l’ho già incontrata oggi, tra le canne, mentre andavo a pescar le rane; pensavo fosse il paron gnuv, ma lui mi ha detto un’altra cosa che non ho capito. Però era sicuramente una persona importante.»

    «Andrai con il tuo amico Miro alla festa? Guarda sta già arrivando.» Un bimbetto biondo, con gli occhi azzurri, e dai lineamenti delicati, aveva appena imboccato il viottolo che conduceva alla casa di Nino. Aveva all’incirca la sua stessa età, anche se meno robusto e sicuramente meno sporco. Mentre avanzava in pieno sole, era investito di luce che accendeva i suoi capelli lunghi, troppo lunghi, in un’aureola dorata. Nino lo osservava con ammirazione: era così bello che un pittore di passaggio, un giorno, lo aveva scelto come modello. Nino anche per questo era orgoglioso di essere suo amico e sentiva nei suoi confronti un istinto di protezione. Gli andò incontro. «Andiamo a vedere i catepila?» Disse immediatamente Miro. La risposta si fece attendere, Nino era ipnotizzato dall’aspetto femmineo di quei capelli biondi, dal rosso lucido delle labbra che avrebbe voluto baciare, invece si limitò a scansarlo procedendo oltre. Miro lo raggiunse in un attimo accelerando il passo e proseguì al suo fianco cingendogli le spalle con un braccio. Anche Miro era orgoglioso dell’amicizia di Nino. Nino era brutto, aveva il naso grosso e la fronte schiacciata sotto la bassa attaccatura dei capelli sempre sporchi, inoltre le orecchie a sventola, e la prominenza della mandibola, gli conferivano un aspetto scimmiesco. Però era forte, non molto più alto degli altri bambini della loro età, ma con braccia e spalle robuste e i muscoli delle cosce sembravano quelli di un piccolo lottatore. Proseguirono così, affiancati, ognuno contento dell’amicizia dell’altro e ben presto lasciarono la strada tagliando attraverso i campi, a sud di Malisana, in direzione della laguna. Già si sentiva il rombo dei grossi Caterpillar che spianavano il terreno, quando incontrarono due boscadors con l’ascia in spalla che confabulavano e imprecavano; videro i piccoli e con un cenno della mano li salutarono: «Addio fruts, ce ne torniamo in Cjargna, ormai qua non ci sono più boschi da tagliare.»

    La famiglia di Nino era una famiglia poco numerosa, solo quattro persone e non sarebbe aumentata, almeno fino a quando Nino non avesse raggiunto l’età per prender moglie. L’unico altro maschio in famiglia era nonno Giuseppe, Josef , o Zepeto , come lo chiamava affettuosamente il nipote, ma in realtà era il bisnonno. La nonna e la mamma erano la figlia e la nipote di nonno Giuseppe. In quella casa non c’erano altri uomini e mariti non ce n’erano mai stati, perciò Nino era figlio di padre ignoto. Giuseppe era nato italiano, nel 1870, ma la sua famiglia aveva conosciuto tante bandiere: il leone di San Marco, l’aquila degli Asburgo, e una fugace apparizione del tricolore portato da Napoleone. Aveva conosciuto anche tanti padroni: i marchesi Savorgnan, i veneziani Rossi e Carminati, il conte Corinaldi e infine i padri mechitaristi. Era sempre stata una famiglia di mezzadri, anche lui lo fu, fino a che gli fu possibile, ma la vedovanza e la caduta in guerra dei due figli maschi, fecero sì che gli venissero a mancare le braccia necessarie alla conduzione del fondo. Il 24 ottobre 1917 si scatenò la battaglia di Caporetto e le truppe dell’impero austroungarico dilagarono nella pianura friulana. La sera del 31 ottobre le truppe dell’armata del generale Otto von Below occuparono Malisana e Torre di Zuino. Fino a pochi anni prima il confine con l’Austria correva a poco più di due chilometri da lì; gli austriaci erano considerati dal governo qualche volta nemici, altre volte amici, ma chissà perché lungo il confine si costruivano trincee fortificate. Per gli abitanti di quei luoghi, invece, gli austriaci erano solamente dei buoni vicini, anzi, altri friulani, o sloveni, che abitavano al di là delle trincee e non sapevano le idee della politica, non comprendevano le motivazioni della guerra. Quella tragica sera, invece, essa si rivelò in tutta la sua crudezza. C’erano stati uomini che dal fronte non erano tornati, c’era stata l’occupazione di quei territori da parte delle retrovie dell’esercito italiano, c’erano le privazioni, ma la violenza dei soldati invasori, stanchi, affamati ancor più della popolazione, abbruttiti da anni di combattimenti e atrocità, piombò come la conferma che forse qualcuno, al di sopra di tutti, voleva che la povera gente soffrisse, fossero civili o soldati, così, per ricordar loro quanto poco importanti fossero. Gli episodi di violenza furono molti, ognuno avrebbe potuto poi raccontare quello di cui fu vittima o testimone, ma ognuno lo tenne per sé, per dolore o vergogna, negando anche l’evidenza. Giuseppe tenne per sé quel dolore e la sua unica figlia, Ginesta, lo custodì oltre ogni evidenza. Nel 1917 una ragazza di sedici anni forse era già una donna. Forse aveva già avuto degli amori, forse qualcuna era già moglie e madre. Quasi certamente Ginesta sognava un amore romantico, come poteva immaginare allora un’adolescente, nonostante lo squallore dei tempi infelici. Forse azzardava anche un pensiero peccaminoso, rivolto agli audaci sguardi di qualche giovane paesano. Di più non poteva. Di più non sapeva, perché la mamma era morta quando lei era ancora troppo giovane e nessuno le aveva spiegato l’amore. Nessuna amica, nessuna confidente era entrata nella sua vita improvvisamente gravata degli impegni di una donna adulta: la casa, la famiglia, il lavoro nei campi; era diventata una donna nel corpo esile di una bambina. In quella guerra la vita dei soldati significava soprattutto fango. Il rancio, la gavetta e il pane erano intrisi di fango, il giaciglio era nel fango, il sangue delle ferite era impastato col fango. La morte avveniva nel fango. Così anche l’amore. Amore è un sentimento che ci appartiene solamente quando lo doniamo, per il soldato affondato nel fango significava soprattutto nostalgia per qualcuno lasciato a casa. Ma ecco che quando egli diventa vincitore, e invasore, un delirio di onnipotenza lo prende e lo trasforma in oppressore dei vinti. L’amore diventa qualcosa da prendere, qualcosa di cui riappropriarsi con frenesia e ferocia, come potesse svanire all’improvviso. Sono tutte le cose della vita lasciate e sostituite dal fango: un tetto, un buon letto, del buon cibo, un corpo da amare. Sarà solamente un’effimera illusione. Tutto svanirà tra le dita nella luce evanescente del mattino quando ritroverà il fango a insozzare le vesti, ma soprattutto il cuore e l’anima, e uscendo dalla follia che gli ha ottenebrato la mente, capirà che tutto ciò che aveva preso non gli apparteneva, neanche quell’amore che non era stato capace di donare. Tutto era soltanto un palliativo alla sua struggente nostalgia. Quel 31 ottobre un gruppo di soldati austriaci penetrò nella chiesa del paese, cercavano un posto asciutto e riparato dove poter consumare il pasto; recavano un maiale arrostito, razziato lì vicino. Quando abbandonarono quel luogo uno di loro, un soldato senza volto né nome, infilò un cappello da alpino sul capo del crocefisso. Il giorno prima, per sfregio, lo aveva preso al volo dalla testa di un prigioniero; pensava di tenerlo come ricordo, come trofeo di una guerra che sembrava vinta. Ma in quel momento, di fronte al volto sofferente del Cristo, cambiò idea e non fu per recare offesa al povero Dio, ma per coprirne le ferite sul capo, perché troppe gocce di sangue aveva già visto. Uscirono dalla chiesa ubriachi e s’incamminarono senza una meta; avevano ben mangiato e bevuto, sembrava una serata di festa tra amici ed era bello cantare, come a casa e l’aria era fresca, come a casa anche se aveva un odore diverso: era quello del mare poco lontano. Vagando tra i campi arrivarono a una casa, smisero gli schiamazzi e piombò il silenzio. La memoria offuscata dal vino richiamò ricordi carichi di nostalgia, forse era casa loro, forse qualcuno all’interno li attendeva, ma girando la maniglia s’accorsero che il portone era sbarrato. Perché nessuno apriva loro la porta? Perché nessuno correva loro incontro gettando le braccia al collo? S’infuriarono e con calci e colpi di fucile abbatterono il portone. Non era la loro casa. All’interno c’era una piccola famiglia: solo un uomo, non più giovane, e una ragazza. La ragazza aveva gli occhi scuri e spaventati; il soldato senza volto né nome riconobbe quegli occhi: erano gli occhi delle cerbiatte che cacciava tra le sue montagne, con la loro innocenza eccitavano l’istinto del predatore. Prese tutto ciò che poteva prendere, e ancora e ancora, perché l’appagamento era sempre incompleto e non capiva il perché. Lo comprese quando, esausto, si sollevò dal pavimento di terra battuta dove era giaciuto con la ragazza: era infangato. Lasciò il turno ai suoi compagni mentre con le mani premeva sulle spalle del povero padre, ormai vinto, schiacciandolo sulla sedia. Fissò a lungo il suo volto tumefatto, lo sguardo annebbiato, le gocce di sangue, e prima di andarsene rimpianse di non aver conservato il cappello da alpino per porlo su quel capo sofferente. Qualcuno ad un certo punto spense la lampada e la casa sprofondò nel buio e con il buio nel silenzio. I soldati erano andati, lasciando solo il loro odore. Ginesta stava rannicchiata sul pavimento e non udiva più l’ansimare di papà Giuseppe; forse i soldati l’avevano ucciso, ma non ebbe la forza di alzarsi, non ancora, e poi perché alzarsi? Dopo quello che le avevano fatto sarebbe sicuramente morta, su quel pavimento di terra battuta intriso del suo sangue. Attese, ma le lunghe ore della notte portarono solamente un sonno profondo, come la morte. Forse era così, la morte, un sonno profondo popolato di sogni in cui lei era un’altra persona, un’altra donna che vedeva quel corpo inerte sdraiato sul pavimento, che vedeva la violenza dei soldati abbattersi sul corpo di quella giovane ragazza, ma tutto avveniva nel silenzio, vedeva la bocca spalancata nelle urla, le smorfie di dolore, ma era come avesse le orecchie tappate. E poi c’era l’indifferenza, il distacco con cui osservava tutto ciò da punti di vista diversi, a volte dall’alto, come sorvolasse quella scena, altre vicinissima, scrutando da vicino ogni particolare. Erano corpi nudi di donna e di uomini, come non aveva mai visto. Osservò con stupore i muscoli che si muovevano sinuosi nell’atto dell’amplesso, vicino, sempre più vicino, fino a sentirne l’odore di sudore e allora qualcosa si risvegliò in lei: un uomo senza volto la sovrastava, adesso udiva il suo respiro affannoso e quando si trasformò in un rantolo, dal buio di quel volto emersero gli occhi, li fissò per un momento prima che tutto tornasse nero. Non avrebbe mai più dimenticato il colore di quegli occhi. Quando la luce grigia dell’alba districò i contorni delle cose dalle tenebre, Ginesta era cosciente, stava ancora rannicchiata con le mani premute sul ventre, ma il sangue non sgorgava più dalle sue cosce, si era seccato. Forse per questo non era morta. Ora sentiva un gran freddo che la fece rabbrividire e battere i denti, ma ancora non riusciva a prendere la decisione di alzarsi. Roteò gli occhi, poi sollevò il capo e si guardò attorno e vide che la stanza era deserta; suo padre non c’era. Allora si alzò e lentamente cercò il secchio dell’acqua. Si lavò strofinando meticolosamente il proprio corpo con un telo di canapa grezza. L’acqua era gelida, piacevolmente gelida e un senso di tranquillità la permeò, come mai aveva provato; smise di tremare, si sentiva diversa, sentiva che aver superato quella prova gli aveva fatto acquistare una forza nuova, che mai aveva avuto prima.

    Accasciato sulla sedia Giuseppe osservava il corpo nudo e martoriato della figlia; sembrava morta e non ebbe il coraggio di toccarla. I soldati se n’erano andati e tutto era tornato silenzioso. Poi vide il ritmico movimento del respiro, ma non poteva sopportare la nudità di quel corpo. Si alzò, spense la lampada e uscì nella notte fresca; camminò fino al bordo paludoso della laguna. Di fronte a lui c’era solamente la notte popolata di versi che emergevano come immagini nitide, a ognuno di essi poteva associare una presenza ben precisa. Quelle erano le uniche certezze che capiva, non la guerra. In quella laguna aveva portato i suoi figli maschi a cacciare e pescare; erano ancora bambini quando gli insegnava a riconoscere gli uccelli dai versi. Il maggiore correggeva il minore quando sbagliava, aveva un atteggiamento di protezione nei suoi confronti, lo sentiva come un dovere, ma nulla poté quando la guerra lo uccise. La guerra li aveva portati via entrambi. Maledisse la guerra e chi l’aveva ordinata e maledisse il destino che gli aveva portato via anche la moglie e lasciato una figlia femmina, l’ultima persona che gli era rimasta. A quel pensiero provò pietà per Ginesta, lei ormai era tutta la sua famiglia, tutto ciò che aveva. Ritornò sui suoi passi, mentre un’alba grigia e fredda come la sua anima s’affacciava all’orizzonte, e i singhiozzi di un pianto convulso lo scuotevano. Si fermò sull’uscio senza trovare il coraggio di entrare e in quel momento sentì un fruscio alle sue spalle; si voltò, era Ginesta, ricomposta e apparentemente serena, portava una piccola fascina per accendere il fuoco. Provò una grande pena, ma non l’abbracciò e non disse una sola parola, riuscì solamente a prendere la fascina dalle sue mani. Trascorse l’autunno e l’inverno e quando s’affacciò la primavera Ginesta ormai aveva capito cosa le era successo, e lo aveva compreso anche Giuseppe, ma non le parlò, aveva troppo pudore. Ginesta vedeva lentamente trasformare il proprio corpo. Giuseppe lo vedeva cambiare velocemente, troppo velocemente; quale sarebbe stato il destino di quella ragazza con un figlio senza avere un marito? Come sarebbe cresciuto un figlio bastardo? Ginesta non si poneva queste domande, provava per quell’essere che le cresceva dentro un amore sempre più grande. Coccolava il pancione come il dono più prezioso che avesse

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