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Maschere allo specchio
Maschere allo specchio
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E-book362 pagine3 ore

Maschere allo specchio

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Info su questo ebook

Perché un affermato giornalista si nasconde tra le montagne Dolomitiche? Per fuggire dai propri fantasmi, ovvio... o forse no. Giacomo ha provato sulla propria pelle lo scotto di una professione guidata da determinazione ed etica e qui tenta di ricostruire la propria vita e ritrovare nuove motivazioni.
La tranquillità della valle viene tuttavia perturbata da un tragico evento di cronaca che proietta il giornalista investigativo in una sfida le cui conseguenze potrebbero rappresentare una condizione di riscatto o il colpo finale a quella sua fragilità, ancora troppo labile.
A complicare il tutto due donne, misteriose, sensuali e magnetiche, simili nella dualità della loro vita, estremamente diverse nei rapporti con chi si muove attorno a loro.
I luoghi, le persone, le vicende che accadono, tutto appare mutevole; sono i preconcetti, la volontà di vedere solo ciò che si vuole o che si assume ad assoluta realtà a determinare la strada percorsa, nella vita come nelle indagini, mascherando talvolta la corretta direzione verso cui guardare.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2018
ISBN9788893781145
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    Anteprima del libro

    Maschere allo specchio - G. Piazza

    godere.

    1 - L’attesa

    La penombra avvolge l’intera stanza, per quanto le lame di luce che violano le fessure lasciate dalle imposte tradiscano come fuori da quelle mura la giornata sia splendente. L’ambiente esterno è colmo di suoni di vita, stimolati dal sole che inonda l’intero spazio. Nulla di tutto ciò penetra nella casa, ristrutturata da non molto, in modo da costituire una barriera per quanto dall’esterno volesse insinuarsi all’interno, ma ancor più per far sì che ciò che accade tra le pareti possa svolgersi nel modo più discreto possibile.

    I pochi arredi e le poche cose disposte sul pavimento creano una sensazione di provvisorietà: una scrivania e una sedia, svelate da uno dei raggi che sfidano l’oscurità, alcuni scatoloni con quotidiani ormai datati, vestiti distribuiti in modo disordinato sul piano lastricato in pietra scura.

    Nel centro una massa inanimata, un paio di pantaloni e una canottiera che coprono un corpo piuttosto robusto, non muscoloso, ma abbondante. Odore di chiuso, misto a sudore e alcol saturano l’aria. Il tutto mentre una figura seminascosta nell’ombra osserva, silenziosa e attenta, seduta alla scrivania, con le dita a picchiettare sul piano del tavolo come in attesa di qualcosa che debba accadere da lì a poco.

    Per assecondare quello che sembra un gioco, di tanto in tanto sollecita il corpo con un nodoso bastone da passeggio, senza riuscire a mascherare la propria impaziente disapprovazione ogni qualvolta a quell’atto non corrisponda alcuna reazione. La perseveranza è, alla fine, premiata e la massa dà segno di animarsi, pur se con movimenti lenti accompagnati da gemiti e da un pianto sommesso.

    – Lasciami… andare – le parole paiono uscire a fatica. – Ho sbagliato… l’ho ammesso, non è ciò che volevi?

    La reazione sembra non soddisfare chi domina quella situazione e le parole udite hanno l’effetto di annoiare ancora più dei precedenti silenzi. Il semplice gesto di due dita sulla vecchia radio analogica, posta sulla mensola al di sopra del tavolo, decreta la fine della disponibilità all’ascolto di ciò che chi giace sul pavimento abbia ancora da dire.

    Sporgendosi dalla sedia l’ombra allunga una mano per prelevare dalla catasta uno dei vecchi quotidiani, più per un estremo tentativo di combattere la noia che per dare un qualche significato al leggere quelle notizie, appartenenti ormai a un remoto passato.

    Il giornale narra fatti accaduti oltre un anno prima: guerre, scandali, aggressioni, lotte politiche. Gli occhi del lettore scorrono distratti lungo le varie colonne, fino a trovare una loro destinazione alla terza pagina dove un titolo, costruito con maestria per colpire allo stomaco, preannuncia una storia basata su un intreccio tra politica e un mix di sesso e interessi commerciali. La piccola lampada da tavolo, posta a lato della scrivania, aiuta, con la sua fioca luce, ad affrontare la lettura senza intaccare la tetra atmosfera che ammanta il locale.

    Il titolo si rivela tutt’altro che uno specchietto per le allodole; chi aveva redatto quel pezzo si dimostrava in effetti molto aggressivo nello spingere la ricostruzione di fatti che dichiarava compiutamente documentati, di eventi che si preannunciavano come molto imbarazzanti per quei nomi che sarebbero stati tuttavia pubblicati in successivi articoli. Quelle colonne rappresentavano una bomba innescata, che non sarebbe stata fatta detonare con eccessiva superficialità.

    È la figura nell’ombra a leggere ad alta voce.

    – Ciò che emerge è un intreccio di interessi e sfruttamento che da troppo tempo cresce, grazie a coperture di alto livello, dove le vittime non hanno voce di fronte a coloro che sono palesemente più forti. Deboli soggetti che nutrono una mal riposta fiducia in altri, affidando loro il denaro, la vita e i sentimenti.

    – Non mi dirai che anche in questo c’era il tuo zampino? – chiede rivolgendosi al corpo sul pavimento. – Ti si addice una descrizione così.

    – No… io …

    – Zitto, non voglio più sentire la tua voce.

    Lo sguardo del carceriere scivola dalle pagine del quotidiano al pannello appeso alla parete che sta di fronte, consapevole dei suoi contenuti e con la capacità di analizzarli pur con il limite rappresentato dalla scarsa presenza di luce. Una consapevolezza che permette di ricordare con esattezza ciò che mostrano le immagini appese a quel pannello, quali fossero le situazioni che vi sono impresse e quali i volti.

    Immagini rubate con discrezione, ma con la dedizione di un paparazzo che per molto tempo insegue la sua preda, motivato dalla volontà di non lasciare nulla di celato e con il desiderio di raccogliere tutto ciò che possa porre il soggetto ritratto di fronte all’impossibilità di negare le proprie azioni.

    Il pensiero di quelle foto sembra strappare un impercettibile sorriso mentre lo sguardo fissa il corpo, di nuovo immobile, sul pavimento freddo: quell’inerme non è un innocente agli occhi di chi lo ha soggiogato e ridotto a quello stato.

    La routine dell’attesa è interrotta dal trillo del campanello. Il giornale riprende il suo posto, in cima alla catasta e la sedia viene abbandonata per muoversi con passo ansioso in direzione della porta. L’uomo seminudo rimane da solo per alcuni istanti e la solitudine sembra risvegliarne la volontà. Nonostante la situazione l’abbia portato allo stremo delle proprie forze, cerca di raccogliere le energie e trascinarsi verso un appiglio che lo possa sostenere nel tentativo di alzarsi. La speranza si infrange dopo pochi centimetri, nello scoprire come la gamba sinistra sia trattenuta da una forza incontrastabile che un chiaro tintinnio metallico svela essere una catena, ancorata rigidamente alla parete.

    Il pianto che a tratti era stato sommesso ora sembra non più controllabile e spinto dalla disperazione. Da fuori la stanza giungono distinte alcune voci.

    – Ce l’hai fatta finalmente, sei in ritardo.

    – Scusa, ho avuto qualche contrattempo.

    – Porta dentro la bottiglia di whisky, sai come usarla. Poi carica in auto il pacco di giornali che sta dentro la stanza e tappezza il bagagliaio.

    – Ciò che stiamo facendo è la cosa giusta?

    – Sì, lo è.

    Il nuovo arrivato, entrando nella stanza, viene colto da un moto di fastidio per la pesantezza dell’aria che la satura. La sensazione tuttavia non perdura a lungo, considerando come egli stesso, per l’esigenza di soddisfare le proprie debolezze, fosse portato a frequentare d’abitudine luoghi ben peggiori.

    Con la bottiglia di whisky in mano si ferma per osservare la massa immobile sul pavimento, mentre con un piede la smuove per verificarne il livello di reattività. Il leggero lamento che ne deriva genera un sufficiente senso di sicurezza che lo spinge a dare il via al suo lavoro.

    La figura che in precedenza presidiava la prigione attende fuori. Nell’uscire aveva dovuto socchiudere gli occhi per superare il contrasto tra la penombra interna e la luminosità che inonda l’esterno. Tutto ciò che si poteva intuire dalle poche lame di luce ora è nel pieno del suo vigore: l’aria tiepida che bacia chiunque si lasci sedurre da lei, i colori di una stagione che prende vita, un’intera quinta di fronte, in cui le Dolomiti la fanno da padrone con le cime più alte ancora imbiancate, gli ultimi segni di un inverno ormai in fuga.

    – È completamente privo di sensi – rassicura la voce dall’interno. – Ci muoviamo?

    – Sì, chiudiamo questa storia.

    – Come lo portiamo giù?

    – Usiamo lo slittone che sta sul retro della casa.

    Completata l'operazione di carico, l'ultima verifica.

    – È ben coperto?

    – Sì. Possiamo stare tranquilli.

    2 - Agire in fretta

    Il rischio era divenuto eccessivo e i lati più deboli del castello di carte dovevano essere consolidati o, in alternativa, rimossi. Non era certo difficile scegliere tra le due ipotesi.

    Ci vollero una trentina di minuti affinché raggiungesse la casa, il traffico era scorrevole, nonostante quello non fosse il momento migliore per spostarsi lungo le strade asservite alle piccole, ma frequenti zone industriali e artigianali, che a quell’ora vomitavano tutti coloro che fino a poco prima erano impegnati a sostenere la laboriosità dell’industria in quell’appendice del nord-est.

    Un paio di ulteriori ore di appostamento si rivelarono necessarie per garantirsi di poter lavorare in tutta tranquillità. La casa era quella dei genitori, collocata fortunatamente in una zona tranquilla, ai margini del paese. Non era facile passare inosservati in un luogo dove tutti si conoscevano, ma le abilità maturate nel tempo e la profonda motivazione rafforzavano la sicurezza di poter affrontare con successo la situazione.

    Il cagnolino acquistato al mattino si era confermato come un’arma vincente e assieme al libro, accuratamente scelto, giustificavano il lungo tempo trascorso su quella panchina vicino agli alberi. Aveva chiamato il cane Charlie e quello che avrebbe dovuto essere il complice di alcune ore si avviava forse a diventare una compagnia stabile. In fondo era carino, sveglio e affettuoso.

    Dall’istante in cui fosse giunto il momento di entrare in azione il lavoro si sarebbe dovuto concludere in poco tempo. Così fu.

    Il lato dell’edificio da cui entrare era quello rivolto verso l’esterno del paese, celato alla vista di quelli circostanti. Tanto più che a quell’ora tutti erano impegnati nella cena. Tutti tranne i proprietari di quella casa che una non casuale telefonata aveva portato a uscire.

    La porticina di servizio che conduceva nel garage non fu difficile da aprire, e lì all’interno c’era tutto l’occorrente per fare ciò che andava fatto. Dieci minuti, non di più e tutto si risolse.

    Il ritorno verso casa fu più rilassato. La vicenda che, inaspettatamente, aveva imboccato una via non prevista avrebbe potuto ora essere nuovamente ricondotta su un tracciato più sicuro e rispondente alle esigenze del piano generale.

    La radio accompagnò il viaggio con la colonna sonora classica delle ore serali. Negli ultimi due chilometri le parole dell’ultimo brano chiusero adeguatamente la giornata.

    I'm not a perfect person

    There's many thing I wish I didn't do

    But I continue learning

    I never meant to do those things to you

    And so I have to say before I go

    That I just want you to know

    I've found a reason for me…¹

    Sì, in effetti c’era un motivo se quella strada era stata intrapresa.

    3 - Ricerca dell’Oblio

    Il suono dell'acciottolio e dell'accartocciarsi delle foglie accompagna i miei passi, lenti e ritmati, sull'argine del torrente. Una sensazione gradevole che crea quell’atmosfera in cui in genere mi immergo per riflettere su quanto si muove attorno a me, sulle abitudini, sulle manie e sulle relazioni tra le persone, attori di una società sempre più complessa.

    Accade spesso, ma non oggi. Ciò che mi ha portato qui è stata la voglia di passeggiare, di distrarmi e liberare la mente, semplicemente cazzeggiare. Le condizioni per farlo c'erano tutte: una stupenda mattina di primavera, la temperatura mite, il cielo limpido e i colori intensi.

    Il fatto è che non amo le levatacce. Ricordo ancora come, da bambino, mio nonno avesse tentato un paio di volte di trascinarmi fuori casa quando il sole si affacciava all’orizzonte, una volta per andare a pesca, l’altra per una scampagnata. La mia reazione – o forse proprio l’assenza di reazioni per molte ore – lo aveva definitivamente scoraggiato dal proporre altre uscite come quelle.

    Sono consapevole che anche il solo pensarlo appaia blasfemo alle orecchie dei cultori del passeggio in solitaria, eppure in occasioni come queste mi alzo tardi, con calma, saltando la colazione per passare direttamente al pranzo, proiettato verso ciò che mi si offre oltre le finestre del soggiorno.

    Oggi, uscito di casa, il mio sguardo è andato alla bicicletta parcheggiata a lato del portoncino d'ingresso, esposta e indifesa. Per l'ennesima notte l'avevo dimenticata fuori, con il pedale appoggiato al marciapiede. Una vecchia abitudine, nata da studente, in un periodo in cui le mie due ruote erano spesso deficitarie di qualche pezzo. Talvolta il parafango, talvolta il fanale e talvolta, appunto, il cavalletto. Ciò che ancora mi sorprende è come qui, contrariamente a quanto accadeva un tempo altrove, la mattina la ritrovi esattamente nel punto in cui l'avevo lasciata la sera precedente.

    Guardandola, nella finta indecisione se inforcarla o camminare, mi ero reso conto di come non la usassi più quanto un tempo, tanto da essere ben cosciente di dove, anche stavolta, sarebbe andata a parare la mia scelta. Per essere onesto con me stesso dovrei riconoscere che la mia pigrizia si è evoluta notevolmente negli anni, ma preferisco usare la scusa dell'orografia del luogo, dichiarandola eccessiva per l'ormai inesistente tono muscolare delle mie gambe.

    La bici è rimasta lì dove stava, ma con l'impegno di riporla in garage al mio ritorno.

    Prima scelta: la direzione. La via che conduce direttamente verso la parte alta del paese mi è sembrata subito l'opzione più adatta.

    Non so quale maledizione abbia spinto i primi abitanti ad addossare in modo così spavaldo le proprie case alla montagna, a una parete tanto drammaticamente fragile. Percorrendo questa strada mi pongo sempre la stessa domanda. La presenza del torrente giustifica solo parzialmente la scelta: gli antichi mulini, i lavatoi e le segherie non potevano che stare lì e sfruttare la forza motrice offerta dallo scorrere impetuoso delle acque. Le abitazioni di certo avrebbero invece goduto di una miglior collocazione due o trecento metri più a est, in una posizione più esposta a quel sole che mi aveva accarezzato le guance fin dall'uscita da casa.

    Inoppugnabili scelte di un'epoca in cui le persone si adeguavano all'ambiente in cui vivevano, rischi connessi, e dove rare erano le forzature per adattare invece l'ambiente a se stessi.

    Giunto al margine del paese, all'altezza della piccola chiesetta dedicata a San Rocco, baluardo posto al confine dello spazio che l'uomo aveva occupato e plasmato, devio come d'abitudine verso il sentiero che mi permette di lasciare la strada asfaltata, per immergermi nel bosco, sempre pronto ad accogliermi con il suo inconfondibile profumo. Anche il sole, con i suoi raggi, sembra seguire il mio esempio, tentando di permeare quell'ambiente, impenetrabile a tratti grazie alle chiome infittite dalle nuove e verdi foglie. L'effetto generato da quei pochi raggi che riescono a raggiungere il suolo, perfettamente visibili nell'intero loro percorso, è indescrivibile e ammanta l'ambiente di un qualcosa di mistico.

    Non mi sono mai definito un amante della montagna e, più in generale, di ciò che è rurale e bucolico, ritenendo l'alone di poesia con cui tali ambienti vengono raccontati solo come il frutto di un'esigenza dell'uomo, una suggestiva costruzione scenica.

    Ora mi trovo invece a riconsiderare, almeno parzialmente, alcune mie posizioni. Lontano dai grandi centri, dalle folle che si riversano sui marciapiedi con i ritmi con cui le onde invadono la battigia, dalle pubblicità luminose e multicolore che mascherano le facciate degli edifici, posso cogliere e soppesare nuove potenziali opportunità.

    La solitudine del camminare tra i boschi è una di queste nuove sensazioni. I suoni circostanti mi proiettano nei ricordi del recente passato, in situazioni contraddittorie e artificiali. Rivivo la casa di vecchi amici – una splendida coppia che aveva intrapreso con convinzione la via della subcultura New Age – le cui stanze arredate in giunco erano inondate dai suoni della natura generati dai diffusori posti in ogni angolo. In un attico dove tutto era domotica e da cui la vista offriva solamente l'immagine di altri palazzi. Una generazione, la nostra, travolta dal flusso dei cambiamenti, sottoposta a contraddizioni che nemmeno più notiamo.

    Quando il bosco si apre sembra farlo con l'esplicito intento di richiamare l'attenzione su un qualcosa di mirato. Talvolta su gruppi di vecchi fienili, un tempo asserviti all'attività agricola e ora trasformati in 'baite', da affittare ai turisti o da utilizzare per gli incontri tra amici, quali zone franche in cui pacificamente abusare di birra, vino o altre sostanze alcoliche.

    Altre volte sono invece le vette dei monti ad attrarre l'attenzione; altre ancora è quella che ho eletto a mia inquadratura preferita: il vecchio castello, ancora parzialmente abitato, visibile da più punti della valle, con la sua torre a pianta quadrata che svetta oltre le cime degli abeti circostanti. La predilezione per quella vista nasce dal riconoscerla come la vera, unica testimonianza di un passato glorioso e misterioso. Ciò che forse, banalmente, ogni castello insinua nella mente di chi lo guarda, uno scenario di feste, dame, cavalieri, assedi e trame segrete. In termini di sensibilità culturale riconosco che tali considerazioni sono alquanto di basso livello, ma queste fantasie mi attraggono più che l'immaginarmi la quotidiana e faticosa vita di montagna, o gli umili lavori descritti in molte ricostruzioni del passato di questi luoghi.

    Ho camminato quasi un'ora per cogliere l'obiettivo fissato al mattino, fino a farlo sembrare raggiunto; le sole cose che hanno coinvolto la mia mente sono state il fruscio delle foglie e il gorgogliare dell'acqua. Il mio errore tuttavia si è reso evidente quando ho spostato l'attenzione da ciò che stavo vivendo al perché avessi desiderato quelle distrazioni. Un errore che ha aperto un varco fatale. Le belle sensazioni non durano a lungo, di ciò ne sono profondamente consapevole. Così nei miei pensieri, piano piano, sono riemerse le ombre, recenti e remote, pronte a riportarmi alla cruda e quotidiana realtà.

    In fondo avrei dovuto saperlo fin dal mattino, da quando sfogliando il giornale avevo letto la notizia dell'ennesimo scandalo nato negli ambienti economici e politici. Non era stata la notizia in sé a colpirmi, quanto piuttosto i ricordi che, leggendola, mi erano riaffiorati alla mente: scene di parte della mia vita, le scelte compiute e soprattutto le loro conseguenze.

    Sono vittima dell'incapacità di riappacificarmi con la mia memoria, sottomesso alla necessità di confrontarmi costantemente con ciò che il lavoro passato mi ha posto di fronte e che quello attuale spesso risveglia. Non resisto all'incontrollabile spinta a immergermi nelle vicende esposte quotidianamente dalla carta stampata o digitale, a partire dal

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