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La bambola di pezza
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E-book256 pagine3 ore

La bambola di pezza

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Narrativa - romanzo (201 pagine) - I ricordi possono essere dolorosi, specie quelli che lasciano un vuoto che non si riesce a riempire. Yuki Nakano lo scoprì troppo in fretta e una giovane vita innocente fu teatro di una tragedia dimenticata. Però forse, là in mezzo a tanti sconosciuti, c’era qualcuno, con una mano tesa, pronto ad aiutarla a rialzarsi.


Yuki Nakano è il ritratto della perfetta giovane donna giapponese, laureata, con un posto di lavoro in una azienda, un piccolo appartamento in periferia, viaggi interminabili in treno e una maschera che quotidianamente indossa in pubblico. Poi, quando il sole scende e la fermata di casa la riconduce alla sua routine domestica, la maschera viene tolta e Yuki si cala nei panni di ciò che del Giappone i giapponesi non vogliono mostrare: solitudine, rapporti sociali complessi, amori e amicizie che spesso faticano crescere.

In tutto questo, Yuki si trova tuttavia vittima anche di qualcos’altro: ricordi dolorosi che da sempre le stanno addosso come una zavorra. Incubi e una strana bambola di pezza a forma di volpe che per lei è una sorta di amuleto, accompagnano la sua sopravvivenza quotidiana in una vita che, per Yuki, non pare essere fatta su misura. Inoltre una sconosciuta segue le sue vicende, un’altra giovane donna senza nome e senza sentimenti che si aggira per le vie della città e pare volersi ricongiungere a qualcosa che ha dimenticato e che l’ha scissa in due parti ben distinte e per nulla consapevoli di loro stesse.

Improvvisamente, un giorno, nella vita di Yuki riappare Ren Miura, ex compagno di scuola. Dalla solitudine di Yuki a quel punto pare sbocciare un sentimento, la maschera viene calata definitivamente e chissà se il legame tra lei e Ren potrà farle superare il passato e la propria solitudine. Chissà se quella ragazza sconosciuta che vaga per il mondo alla fine avrà pace e si ricongiungerà con ciò che le è stato portato via.


Raul Londra è nato a Giussano nel 1990. Medico Chirurgo dal 2017. Oltre a scrivere, passione nata alle medie, i suoi hobby sono leggere, suonare la chitarra, guardare film e ascoltare musica.

Con la casa editrice Il Ciliegio Edizioni ha pubblicato le due antologie, Memorabilia – Storie di un mondo invisibile (2012) e Vindica te tibi – Quattro storie di vendetta (2014) e il romanzo noir Lupus et agnus (2013).

Ha ottenuto riconoscimenti per diversi racconti, in particolare Nostos facente parte dell’antologia Il magazzino dei mondi 3 (2016), a cura di Delos Books, Coloured Inferno 4° in classifica nella raccolta di racconti Esecranda 2017 (2017), Braccia di fuoco inserito con menzione speciale nell’antologia L’orrore di Lovecraft (2017) e Supernova, 4° classificato alla 50esima edizione del NeroPremio (2012).

Nel frattempo, dopo la stesura di un primo romanzo ancora inedito, sta lavorando al secondo volume di una trilogia di genere techno thriller e ad altri racconti.

LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2018
ISBN9788825407259
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    Anteprima del libro

    La bambola di pezza - Raul Londra

    racconti.

    Prefazione

    Yuki è una ragazza di ventisei anni che vive a Tokyo e lavora con successo nel settore marketing di una grande azienda. La sua vita scorre apparentemente senza intoppi, scandita da una costante regolarità tra casa e ufficio, eppure non è felice. Non ha amici, non ha un fidanzato e non vede da anni i suoi genitori, rimasti a Kyoto. La sua unica compagnia è la bambola di pezza che dà il titolo al romanzo e che Yuki tiene sempre con sé. Essa è un dono del fratello scomparso, e con lui si sovrappone fino a diventare, nella mente della giovane, un unico essere. La bambola dalle sembianze di volpe (animale tanto caro al folklore giapponese), con il passare degli anni da valvola di sfogo cui confidare i propri problemi diventa fardello insopportabile che tiene Yuki ancorata a un passato burrascoso, un rifugio sicuro che si fa prigione asfissiante, e non basta la consapevolezza di ciò per riuscire a liberarsene. Il mal di vivere di Yuki nasce da un passato irrisolto, un sordido senso di colpa che la accompagna fin dall’infanzia e il difficile rapporto che ha con la madre, che l’ha sempre considerata inferiore al fratello (o perlomeno questo è ciò che crede lei). Nel tentativo di essere all’altezza delle aspettative, Yuki si è sempre lasciata vivere, senza compiere realmente alcuna scelta di propria volontà, ma limitandosi a concentrarsi sullo studio prima e sul lavoro poi, svolgendo i propri compiti al meglio delle possibilità senza interrogarsi su cosa davvero la renda felice. Quando ormai sembra aver toccato il fondo, un incontro inaspettato le darà la forza per affrontare i demoni del suo passato e provare a sconfiggerli una volta per tutte.

    I capitoli in cui è suddiviso il romanzo vedono un’alternanza tra passato e presente, svelando poco a poco la psicologia della protagonista e gli eventi che l’hanno forgiata. Si ha così uno spaccato della vita non solo esteriore di Yuki, fatta di vuote giornate lavorative, appuntamenti inconcludenti e solitudini prolungate, ma anche psicologica, scavando a fondo nel suo malessere e negli eventi da cui esso è scaturito e che lo hanno alimentato fin dall’infanzia.

    In definitiva quella di Yuki, con le debite proporzioni, è un po’ la storia di tutti noi. Chi non ha vissuto momenti di scoramento, più o meno profondo? Chi non si è sentito inadeguato, apatico o rifiutato? E quando la frustrazione, l’ansia, il senso d’inutilità si tramutano in depressione, come fare per uscirne? Una risposta, nel suo piccolo, questo romanzo la fornisce: non ci si salva mai da soli, e anche se ogni vita è in fondo un cammino solitario, c’è bisogno di qualcuno che ci strappi all’apatia e ci spinga a compiere il primo passo verso la rinascita.

    La forza dell’autore sta nel riuscire a comunicare tramite lo stile, fatto di frasi spezzate e martellanti che descrivono azioni ripetute e inconcludenti, il disagio della protagonista, tanto che a tratti si ha la sensazione di essere trascinati nella sua stessa spirale autodistruttiva. Nel fare ciò egli dimostra una profonda conoscenza dei disturbi della psiche, che descrive con crudo realismo senza tentare inutili abbellimenti.

    Ogni elemento è ben calibrato e ha un suo preciso equilibrio nella trama, e non è neanche un caso che la vicenda si svolga in Giappone, il paese con il più alto tasso di suicidi al mondo. L’ambientazione infatti è più che un semplice sfondo, fa parte integrante della storia con i suoi contrasti e ambivalenze: la delicatezza senza tempo dei panorami, con gli onnipresenti fiori di ciliegio, ma anche il distacco e la disumanità della società, simbolizzata dalla città, immensa e incomprensibile, che fagocita il singolo e lo spersonalizza, rendendolo semplice ingranaggio, privo di reale importanza, di una macchina che prima lo sfrutta e poi lo getta via una volta divenuto improduttivo.

    Ma al di là di Yuki e dei suoi problemi, vera protagonista della storia è la depressione, il grande male della nostra epoca, e per questo la vicenda narrata è più attuale che mai e può essere letta in chiave universale. Non solo dunque la lotta di una ragazza contro i propri demoni interiori, ma quella di ognuno di noi contro il vuoto dilagante che ci circonda. Abbiamo tutto, eppure non riusciamo a essere felici. Sicurezza economica, salute fisica, piaceri e svaghi in quantità… A prima vista la nostra dovrebbe essere la società con il più alto benessere della storia umana. Eppure, in questo turbine di opportunità e scelte in cui siamo immersi ogni giorno, abbiamo perso di vista la cosa più importante: la centralità del contatto umano. Siamo sempre più connessi, grazie alle possibilità offerteci da Internet, eppure sempre più lontani l’uno dall’altro. La nostra capacità empatica si atrofizza sotto i colpi degli emoticon nelle chat e di like sui social network. Ci nascondiamo dietro nickname e foto profilo e così facendo non siamo più in grado di dirci le cose in faccia, di stare l’uno accanto all’altro, di sospingere un po’ più lontano il mal di vivere sempre in agguato nel mondo moderno. Il grande pregio de La bambola di pezza è proprio questo: rimettere al centro di tutto non il singolo individuo, ma i suoi rapporti con gli altri e ripartire da qui per trovare una dimensione d’esistenza più autentica e profonda.

    Luca Mencarelli

    Prologo

    Da bambina, mia madre mi aveva sempre rimproverato per come mi muovevo.

    Diceva che ero sgraziata e distratta, che non facevo mai attenzione a dove andassi. Diceva che per lei era uno strazio dovermi medicare quasi ogni giorno le sbucciature sulle ginocchia con il mercurocromo e diceva pure che quando camminavo dovevo alzare le suole e non trascinarmele dietro.

    – Non possiamo permetterci di comprarti un nuovo paio di scarpe ogni settimana, Yuki! – mi ripeteva.

    Ricordo che cominciò a inculcarmi nella testa la storia delle scarpe quando ero molto piccola.

    Allora avevo smesso di correre come piaceva a me, avevo iniziato a cadere per terra meno di frequente e così anche la pelle delle mie ginocchia mi aveva ringraziato, ma le suole… be’, quelle avevano preso a consumarsi con spaventosa rapidità. Avevo sempre i tacchi e le punte distrutti e il disegno sagomato della gomma si assottigliava con il passare del tempo, fino a lasciare una superficie ruvida e piatta.

    Molto spesso mi sono chiesta come mai smisi di correre così all’improvviso: era qualcosa che mi rendeva felice e spensierata. Quando prendevo velocità, ridevo. Sentivo l’aria accarezzarmi il viso e infilarsi tra le pieghe dei vestiti, aderirmi al corpo e, in qualche caso, riuscire addirittura a sostenermi. Allora allargavo le braccia, un po’ come gli uccelli. Aprivo le mie piccole e sottili alucce candide e mi lanciavo in avanti, desiderosa di spiccare il volo e di alzarmi in cielo, come una rondine. Libera e piena di vita.

    Forse era per tutti quei salti e quei sogni a occhi aperti che franavo a terra. Non piangevo mai, neppure quando il sangue mi scendeva fino alle caviglie. Non ci riuscivo, in effetti, tanta era la voglia di rialzarmi e riprovare.

    Poi però, a sette anni, qualcosa iniziò a tarparmi quelle minuscole ali e io mi resi conto che volare non m’interessava più. Volteggiare tra la pioggia o essere sospinta dalla brezza primaverile non aveva più senso. Le mie alucce candide si erano indebolite, si erano fatte ancora più piccole e ben presto si erano trasformate nell’appendice atrofica di un corpo che stava crescendo troppo, di una mente che non credeva più in loro. Le mie ali erano un ricordo e i miei desideri dimenticati.

    Le scarpe, quelle sì, erano rimaste. Loro e i rimproveri di mia madre. – Cammina dritta! – mi diceva. – Stai attenta a dove metti i piedi.

    Facevo tutto quello che lei mi ordinava, mentre mio padre era sempre in ufficio.

    – Non trascinarti dietro quelle suole, santo cielo! – sbuffava la mamma. – Guarda come le rovini!

    Con il passare del tempo imparai a rialzare le gambe e a non consumare più le suole in quel modo sciocco e infantile, però mi resi conto che se non erano più i miei piedi ad affondare e a essere strascicati, era qualcos’altro. Qualcosa d’invisibile e silenzioso, ma sempre lì accanto a me.

    1.

    Akishima, Tokyo. 5 dicembre 2014

    Camminavo nella penombra della sera.

    Era il momento tranquillo delle mie giornate, quello, e io ero tranquilla, o almeno così avrebbe detto chiunque mi avesse vista in quello stato: avanzavo lentamente, lo zaino su una spalla e la borsa della spesa nella mano opposta, a fare da contrappeso nel sottile e dinamico equilibrio della mia esistenza.

    Stavo tornando al mio appartamento.

    Era trascorso più di un anno da quando mi ero trasferita nella periferia di Akishima, eppure il luogo in cui passavo le mie notti non riuscivo proprio a chiamarlo casa. Era qualcosa di estraneo che, nonostante tutti i miei sforzi, non mi appariva ancora come un rifugio intimo e accogliente. Era un regno avulso dalla realtà, un piccolo reame d’impersonalità che non mi apparteneva.

    Il luogo, o momento, in cui mi sentivo a mio agio era la strada, quella breve passeggiata dalla stazione all’appartamento che ogni sera, di ritorno dal mio ufficio nel centro di Tokyo, ripercorrevo meccanicamente, passo dopo passo, prima di rinchiudermi di nuovo nella mia personale prigione. Avanzando tra la baraonda della grande città salivo sempre sull’ultimo treno, evitando la ressa dell’ora di punta, dopodiché, terminata la corsa verso la periferia, aspettavo che la stazione di Akishima si svuotasse e infine me ne andavo. Attendevo a lungo in un sottoscala vicino ai binari, nascosta agli occhi della gente. Vedevo scemare una miriade di persone di fronte a me e nessuno che si fermasse per chiedermi perché stessi lì, se avessi qualche problema, se avessero potuto aiutarmi, in qualche modo. Avevano tutti fretta di scappare alle loro case.

    Anche quella sera non fu diversa.

    L’aspetto della mia vita che apprezzavo, nonostante tutto, era la ripetitività. Qualcuno potrebbe trovarla noiosa, ma a me invece piaceva perché era un modo semplice ed efficace per controllare le cose e le persone. Le improvvisate non le avevo mai accettate, tantomeno gli imprevisti. Avevo sempre trovato frustrante dover fare i conti con situazioni che non potevo calcolare e tenere sotto controllo, perché poi sono queste cose che finiscono per distruggerti, come una bomba che ti esplode in faccia prima che la disinneschi.

    Vivere quotidianamente la routine per me era stato semplice. Lo trovavo un anestetico ideale per non soffrire e per non pensare troppo. Le frustrazioni, sposate con le delusioni, nascono da illusioni malcelate e l’imprevisto è sempre la causa di ogni male, pensavo.

    Mi fermai all’incrocio mentre alcune automobili sfrecciavano sulla carreggiata. I clacson di due automobilisti si parlarono a voce acutissima e qualcuno, allo scattare del rosso, imprecò mentre percorreva il grande marciapiede affollato ad ampie falcate. Un giovane con i finestrini abbassati, nonostante la bassa temperatura, aveva la musica a tutto volume.

    Finalmente il semaforo per il passaggio pedonale divenne verde. Attraversai sulle zebre e, arrivata sull’altro lato, ripresi la mia camminata. Potevo vedere il grande complesso di condomini a qualche centinaio di metri da me e proprio dietro stava una costruzione più bassa, con meno appartamenti, che era il luogo dove vivevo.

    Allontanandomi dalla parte più rumorosa della città, iniziai a udire qualche cinguettio di uccelli, le fronde degli alberi che frusciavano e i campanelli delle biciclette. Mi accostai ai muri di cinta e alle siepi delle case. Lasciavo libero tutto il marciapiede e la pista ciclabile e mi rannicchiavo in disparte, per non infastidire nessuno, portandomi appresso lo zaino e la borsa. Più camminavo, più mi rendevo conto che quelle due piccole zavorre non erano poi così pesanti, eppure avevo rallentato molto la mia marcia e i passi si erano fatti sempre più brevi e insicuri.

    Mi guardai le punte delle scarpe un po’ sbucciate, poi continuai a studiare il marciapiede, la siepe, la stradicciola che iniziava a inerpicarsi verso la piazzetta. Arrivai in cima alla dolce salita e vidi il solito sentiero che si dipanava tra due file di sempreverdi che formavano una cupola impenetrabile dalla luce. Dovevo attraversare quei pochi metri per arrivare dall’altra parte e trovarmi davanti all’ultimo tratto di strada.

    Avanzai un passo alla volta e la sentii, all’improvviso. La disperazione mi afferrò e fu come se mi trovassi di fronte a una porta incantata, spalancata sopra un mondo sconosciuto e terribile.

    Dovevo andare avanti, ma le mie gambe non si mossero. Mi voltai indietro: la via alle mie spalle si era fatta silenziosa, il vento aveva cominciato a ululare sinistramente e pareva che una voce mi chiamasse e mi dicesse di muovermi.

    Feci il primo passo, poi il secondo e ancora il terzo. Non accadde nulla. Era tutto come prima. Allora tornai a udire gli uccelli, qualche campanello di bicicletta, un cane che abbaiava a un isolato di distanza. Era tutto normale.

    Dopo alcuni istanti mi ritrovai quasi dall’altra parte. Una decina di metri e sarei uscita da quel piccolo bosco di conifere. Che cos’è successo? mi domandai. Non riuscivo a spiegarmi cos’avessi provato poco prima.

    Sentii il magone salirmi nel petto e fitte forti attraversarmi il ventre. Incespicai e mi afferrai a un grande ramo per restare in equilibrio.

    Devo uscire da qui! mi dissi. Mi mancava l’aria. Non riuscivo a respirare. Sentivo il cuore martellarmi nel petto con dolore e le gambe trasformarsi in gelatina. Mi sforzai di inalare aria e sentii gonfiarsi il mantice dei polmoni: mi girava la testa e mi sentivo confusa.

    Ancora qualche passo, mi dissi, per confortarmi. Ti prego, tieni duro.

    Fu un momento. Superai l’ultima coppia di alti alberi scuri, uscii all’aperto con il cielo sopra la testa, limpidissimo e nero, costellato di punti bianchi. Vidi una palla bianca e tante altre luci più grandi delle stelle. Notai le costruzioni attorno a me e il mio piccolo appartamento al quinto piano. Poi inciampai in una radice che sporgeva dalla terra e caddi.

    Rimasi immobile per qualche secondo, alzando lo sguardo. Lo zaino era finito in mezzo al sentiero, mentre la spesa era rotolata fuori dalla borsa e si era sparsa sull’erba di fronte a me. Senza rendermene conto cominciai a singhiozzare e poi a piangere sempre più forte, ma non c’era nessuno che potesse ascoltare il mio lamento. Solo qualche uccello mi rispose, poi il vento coprì la mia voce.

    Quando rientrai, era quasi mezzanotte.

    Ripensai a quanto era successo. Ero caduta, semplicemente. Caduta per un inciampo. Poi ero scoppiata a piangere e non ero più riuscita a smettere. Ero rimasta accucciata contro un tronco per diversi minuti senza sapere che fare e infine mi ero rialzata, barcollando, avevo raccolto la spesa rinfilando ogni cosa nella borsa, avevo recuperato lo zaino e con passo insicuro mi ero allontanata.

    Quando la porta si chiuse alle mie spalle, lasciai cadere a terra tutto quello che avevo in mano. Mi spogliai rimanendo con la sola gonna e il dolcevita nero indosso e mi guardai allo specchio. Il mio corpo magro ed esile traspariva dai vestiti, le mani ossute si richiudevano a pugno e si nascondevano tra le braccia conserte. Il mio volto delicato e triste si rifletteva, mostrando un’espressione sofferente: gli occhi gonfi e arrossati lacrimavano ancora, la bocca era contratta e la fronte aggrottata. Scrutai con rabbia i lucciconi che scendevano lungo la pelle, giù fino al mento.

    Provai a gridare perché il mio corpo me lo stava ordinando, ma gemetti appena e frignai per un po’, come una bambina capricciosa che non riceve il regalo di compleanno che tanto desiderava. Mi allontanai dallo specchio e infilai le gambe al caldo, sotto il kotatsu. Nell’oscurità guardai fuori dalla finestra la luna che saliva ancora più alta nel cielo. Allungai senza motivo la mano accanto a me: non c’era nessuno. Ero sola.

    Allora afferrai un cuscino e lo strinsi al petto. Singhiozzai di nuovo, a lungo, soffocando il pianto con ogni molecola di me e infine, quando mi fui calmata, tornai all’ingresso, dove avevo abbandonato lo zaino, ancora chiuso e sporco di terra: lo aprii, vi infilai una mano, afferrai un piccolo corpicino di pelo, morbido e voluminoso, e mi rintanai nella camera da letto.

    Scivolai sotto le pesanti coperte continuando a fissare fuori dalla finestra e, mentre la morsa sempre più forte e straziante mi distruggeva il cuore ancora una volta, lentamente caddi nelle tenebre e chiusi gli occhi umidi.

    – Shin, ti prego – mormorai nell’oscurità. Strinsi al petto la bambola di pezza e percepii la sua pelliccia morbida aderire alla mia pelle. – Resta con me – insistei. Potevo sentirlo, quel pupazzo ripieno di gommapiuma, ricoperto da fibre sintetiche. Lo sentivo e lui sentiva me. Io ero viva e così era vivo anche lui.

    Era l’unico modo che avessimo mai avuto per stare insieme davvero. Ci era rimasto soltanto quel legame. Da troppo tempo quel semplice contatto ci teneva uniti.

    La voce mi parlò di nuovo, amorevole e calda. È passato tanto tempo, sussurrò. Percepii la carezza delicata.

    – Non è abbastanza – supplicai. – Devi rimanere, altrimenti… come farò…?

    Yuki, ce la farai, rispose dolcemente. Ce l’hai sempre fatta. Pensa a questo, sorellina.

    – Non ci riesco, Shin… Non ce la faccio – sibilai fissando negli occhi la bambola dalle fattezze di volpe.

    Lei mi rispose con il suo sguardo felice e il sorriso sul muso appuntito. Non potrò esserci per sempre, lo sai.

    – Non voglio – singhiozzai. E scoppiai a piangere. – Non è giusto, non voglio.

    Nemmeno io, replicò Shin.

    – Resta con me – dissi. – Io resterò, te lo prometto.

    Vorrei poterlo fare anch’io, sorellina, mi confidò. Vorrei rimanere qui con te per sempre e giocare.

    – E perché non lo fai? – supplicai a metà tra la delusione e la rabbia. – Perché non resti?

    Mi dispiace, rispose Shin.

    2.

    Sakyō-ku, Kyoto. 25 marzo 2005

    Era finalmente primavera e a ricordarlo non servivano il calendario o le scuole chiuse della città. C’era quell’arietta frizzante, c’erano gli uccelli che avevano ripreso a cinguettare con amore, i vestiti più leggeri e le magliette a maniche corte e infine c’erano i ciliegi. Le grandi chiome rosa e bianche parevano enormi e leggerissimi batuffoli di cotone

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