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Psicoanalisi del male e del dolore
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E-book396 pagine5 ore

Psicoanalisi del male e del dolore

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Info su questo ebook

Un viaggio ai confini del sapere, alla ricerca di risposte a domande impossibili ed al senso della vita stessa.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2018
ISBN9788827862445
Psicoanalisi del male e del dolore

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    Anteprima del libro

    Psicoanalisi del male e del dolore - Francesco Attorre

    senso.

    GENESI DEL DOLORE

    È una «sensazione». Una sensazione che si avverte attraverso i nervi, o meglio le terminazioni nervose, e si realizza quando è in atto un processo di tipo infiammatorio; in altri termini una situazione non fisiologica in cui a livello cellulare si assiste ad un vero e proprio conflitto, una guerra, con conseguenti danni, come è tipico di ogni battaglia. 

    Rubor, Calor, Tumor, Dolor. Celso, nel lontano II secolo d.C., aveva individuato in questi quattro segni cardinali ogni processo detto flogistico, ossia ogni processo infiammatorio. Rudolph Virchow, molto più tardi, ossia nella seconda metà dell’Ottocento, ne aggiunse un altro: Functio lesa

    Ogni processo infiammatorio presenta una alterazione funzionale di cellule specifiche, quelle appunto coinvolte nel conflitto di cui accennavo in precedenza. C’è rossore, calore, gonfiore infine compare dolore. Come vedremo tra poco anche il dolore non somatico, quello cioè dell’anima, finisce per avere la stessa funzione del dolore somatico, vale a dire quella di far parte di qualcosa di diverso in cui come risultato finale si assisterà ad un «danno». Una cosa singolare che forse non tutti sanno è che nella via del dolore entra in gioco una parte del nostro cervello chiamata Sistema Limbico, quella parte cioè deputata al controllo delle nostre emozioni e dei nostri «bisogni» primari, se vogliamo il cervello più istintivo, poco condizionato dalla dimensione razionale, in cui agiscono meccanismi molto arcaici, in altre parole primitivi, legati alla fuga ed all’attacco, alla lotta per la sopravvivenza, alla paura della morte. 

    Che sia nel corpo o nell’anima, il dolore nasce in tipici recettori, denominati nocicettori, per poi seguire la via nervosa del midollo spinale e giungere al Talamo dove viene poco dopo smistato in due importanti vie: Sistema Limbico da una parte e Corteccia Somatoestesica dall’altra. La via che marcia verso il Sistema Limbico trasforma la sensazione in qualcosa di più, la colora in buona sostanza dei ricordi, le fa incontrare l’inconscio misterioso e le tante emozioni che porta con sé. Lo fa diventare in una parola «affettivo», ponendolo in contatto con la Corteccia Prefrontale, così da arricchirlo altresì con gli aspetti variegati della personalità. La via invece che conduce alla Corteccia, crea la sensazione vera e propria. 

    L’esperienza del dolore agisce biologicamente sulla persona nella sua essenza, poiché ne altera in modo forte l’equilibrio interno. Basti considerare che il Sistema Limbico è formato da tre strutture ciascuna delle quali ha un importante collegamento con le funzioni della personalità stessa. Nella sua struttura persistono i ricordi che resteranno per sempre, perché legati alle emozioni ance- strali. Il «maltrattamento» subìto da bambini registrerà la propria storia stra- volgendo il presente ed il futuro di chi lo avrà sofferto, operando sul Sistema Limbico e sulle sue stazioni. L’Ipotalamo controllerà bisogni e desideri come il sonno, il sesso, la fame, la sete, le emozioni come la rabbia, la gioia, la paura; controllerà l’Ipofisi e con lei il Sistema Immunitario ed il Sistema Neuroendocrino. L’Amigdala è in gioco, dal canto suo, nella libera gestione delle relazioni sociali, modula il livello di aggressività ed in ultima battuta agisce sul tono dell’umore riportandolo in stato di equilibrio. L’Ippocampo effettua una importante azione nel processo di memoria a breve termine. Il modo in cui ciascun individuo vive il dolore è legato intimamente all’effetto che avrà proprio il Sistema Limbico. La soglia del dolore potrebbe man mano abbassarsi, facendolo percepire anche per piccole stimolazioni che toccano i sensi, oppure alzarsi sempre di più, rendendolo impercettibile anche dinanzi a stimoli di grosse dimensioni. È unicamente il Sistema Limbico a deciderlo, ossia l’emozione di base che la persona si trova a vivere in quel determinato momento in cui l’input algogeno entra in gioco. Un dolore acuto è momentaneo, e serve per lo più a salvarsi la vita evitando uno stimolo pericoloso, mentre il dolore cronico non ha tempo, e nel suo essere lungo può permettersi di durare anche tutta la vita, finendo per segnarla irrimediabilmente. 

    Incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare. Lei era Oriana Fallaci con la sua lettura di un dolore strano, quello dell’anima. Pensare ad una esperienza umana libera dal dolore significa non pensare ad una esperienza umana autentica. Già la nascita, per ogni singolo essere umano, è un momento di forte dolore, un dolore struggente che sfocerà in un pianto liberatorio.  Il canale del parto è assai stretto per il corpicino del bambino spinto dalla forza della vita ad oltrepassare il tunnel e regalarsi la libertà di respirare il piacere di vivere. La mamma urla per le doglie, il bambino perché deve superare ostacoli duri prima di dirsi finalmente libero di esistere. La nascita, quindi, come sosteneva Rank, è un trauma tremendo, un momento di forte dolore, un dolore condiviso ma ciononostante un dolore duro da tollerare. Ancor più perché si è soli. Dopo nove mesi di letizia e diletto nella percezione di essere realmente ospiti del Paradiso, tutti i bambini si trovano ad essere letteralmente strappati alla loro mamma, portati via per essere lavati e controllati, in un mondo assordante e pieno di luci. La percezione della morte sarà per loro drammatica più che mai, ed il senso di solitudine pervasivo ed immancabile. È il primo imprinting, il primo vero flash fotografico che gli umani si fanno della vita. La conferma la avranno negli ultimi atti con cui la vita stessa giungerà a conclusione. Appena prima di morire ci si ritrova prepotentemente soli, in balìa di emozioni che non si riesce a decifrare, al cospetto della propria solitudine e del suo profondo silenzio. Non c’è incontro così personale come quello con la morte. Un momento di ortodossa compostezza dei sensi, di stiloso abbandono all’abbraccio dell’ignoto, un matrimonio bianco col mistero di sé ed il senso di sé. L’idea del dolore, e nello specifico del dolore per qualcosa che finirà, come la nostra stessa vita, fa parte dello zigote prima ancora che si impianti e di ogni singola cellula del nostro organismo. In Medicina si definisce «Apoptosi»: morte programmata, la fine cioè scritta nei corpuscoli ribosomiali¹, nei lisosomi, nel DNA. In una parola ogni cellula ha dentro sé il proprio destino. Per chi non si sofferma a riflettere, quel destino sembra legato al futuro, a qualcosa che non è ancora accaduto ma che potrebbe accadere, o che forse accadrà. In realtà il destino è già accaduto, in un tempo passato che forse non sarà passato mai. La durata, scriveva Henri Bergson² nella sua celebre opera «L’Evoluzione Creatrice», è l'incessante progredire del passato che intacca l'avvenire e che, progredendo, si accresce. E dal momento che si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente.

    Il dolore nasce e cresce in quel passato che vorremmo fosse più che mai dimenticato, ma che invece è presente ogni istante della nostra quotidianità. Si fa a tratti inquietudine, malinconia, nostalgia, sa restare in silenzio, ma quando sceglie di farsi sentire emette un urlo selvaggio, perché lo ascoltino tutti, fino in fondo.   

    ASPETTI PSICODINAMICI DELLA PEDOFILIA

    Per provare a comprendere il perché di un male sottile, che fa male a chi ancora sta imparando cos’è veramente il male

    INTRODUZIONE E CENNI STORICI

    Cercare di far luce su di un fenomeno che con forza dilagante sembra essere divenuto incontrovertibilmente endemico, cioè più che mai diffuso e capace di cristallizzarsi in trame tanto sottili ed intimamente connesse col tessuto sociale e culturale di questa epoca storica, e provare a farlo ponendosi dalla parte di «richiami teorici» che dall’alto della loro organizzazione concettuale riescano a circoscrivere quegli elementi che si costruiscono nel loro insieme in qualità di agito (acting) e che marginano inesorabilmente una esperienza umana impregnata di sessualità, violandola drammaticamente nella sua dignità, non è compito facile. 

    Non lo è perché richiederebbe quasi di mettere da parte la possibilità di empatizzare³ con quella che è, a tutti gli effetti, una profonda e ingravescente sofferenza, un disagio in grado di lacerare dal didentro e soffocare la persona in un grido di disperazione che finisce per tingersi di vergogna, di stigma, di segregazione. 

    Quello che nasce e cresce come un mero malessere diviene, lentamente ed inevitabilmente, l’anticamera dell’oblio. 

    È per questo che ritengo giusto affrontare con gli strumenti della critica tale realtà, provando ad osservarla non già da un singolo e specifico punto di lucida osservazione analitica, bensì provando a scoprirla fenomenologicamente in una modalità il più possibile ateoretica⁴ affinché sia vero e proprio campo di indagine l’incontro delle due singole, individuali, personali dimensioni, ossia da una parte quella dell’abusante e dall’altra quella dell’abusato, e questo perché se di ripercussioni si può parlare, le stesse divengono assolutamente ed inevitabilmente «reciproche» e «reciprocamente» distruttive.

    Ripercorrendo il filo storico alla ricerca di quel continuum che possa in certa misura offrire un parametro di lettura omogeneo ed obiettivabile, è possibile notare ad esempio che se si fa un salto indietro nella Roma e nella Grecia antiche, si comprende come talune disposizioni sul sesso non rivestano affatto un carattere universale e di conseguenza come culture differenti, seppur geograficamente limitrofe, ammettano comportamenti progressivamente diversi se non addirittura dissimili. 

    Nella città stato di Sparta, contraddistinta da pratiche sessuali relativamente libere, le donne «congiunte» in matrimonio non avevano ad esempio il vincolo della fedeltà e se la coppia non era in grado di avere figli, esse potevano ottenere dal marito, di frequente più anziano di parecchi anni, il beneplacito per intrattenere rapporti con un altro uomo. La gelosia, così come era intesa ad Atene ed altrove, era invece vissuta come un fattore secondario a Sparta, dove si voleva soprattutto che i figli nascessero da genitori sani e dotati. La libertà di costumi delle spartane era però fortemente dettata dalla esigenza che non si scendesse al di sotto di un certo standard demografico, per non alterare il rapporto numerico con altre popolazioni o città nemiche. 

    Atene, al contrario, si distingueva per le norme in materia di pederastia⁴. Gli ateniesi ritenevano che l’amore, anche fisico, che poteva vedere legato un adulto ad un giovinetto, fosse un requisito favorevole alla diffusione del sapere e delle leggi della città. Ciò che interessava maggiormente del ragazzo non era la sessualità in sé quanto la sua plasmabilità e il relativo sviluppo della sua personalità. E così la pederastia non veniva soltanto ammessa ma addirittura considerata un corollario plausibile della relazione docente-discente. Gli ateniesi pensavano che l’amore provato da una persona adulta, considerata saggia, nei confronti di un qualsiasi giovinetto consentisse di trasmettere in maniera completa la saggezza acquisita con l’avanzare dell’età (una saggezza che, in pieno accordo con l’opinione maschilista di allora, le donne non potevano in alcun modo trasmettere perché dedite unicamente alla co-conduzione della casa ed alla riproduzione). 

    C’è da sottolineare un aspetto però, gli ateniesi di allora rivolgevano le loro attenzioni erotiche soltanto a ragazzi che fossero puberi e consenzienti, mentre il sesso con i fanciulli cioè con soggetti che fossero visti come prepuberi, e di conseguenza il comportamento pedofilo vero e proprio così come lo intendiamo oggi, veniva punito con condanne rigide fino alla pena capitale. 

    Nella letteratura greca emerge spesso il tema dei vantaggi dell’amore per i giovinetti rispetto all’amore eterosessuale. Al contrario le testimonianze sull’omosessualità femminile non risultano consistenti perché questa non era accreditata quale strumento di formazione del cittadino. Nei Tiasi comunque, i «collegi» in cui le fanciulle ricevevano un’educazione prima del matrimonio, i rapporti sessuali tra le ragazze erano approvati. Famoso fu il Tiaso diretto da Lesbo, che nelle sue liriche descrive il proprio amore per le fanciulle che educava. L’insegnamento dato dalla celebre poetessa alle giovani che le venivano affidate assomigliava molto alla forma di iniziazione dei pedagoghi maschi nei confronti dei giovinetti. 

    Nell’antica Roma omosessualità e pederastia erano diffuse, senza però il riferimento a quella giustificazione pedagogica e filosofica tipica dei greci. La pedofilia, come nella vicina Grecia, era ufficialmente deplorata, sebbene la prostituzione maschile e femminile fosse largamente diffusa e le prostitute fossero generalmente schiave e giovanissime. 

    Nel corso del Medioevo e nei secoli a seguire vi fu sempre più una notevole promiscuità tra adulti e bambini, anche per la condivisione degli spazi abitabili sia durante il giorno che di notte. Quasi nessuno dormiva da solo e tanto meno i bambini, che rimanevano spesso nel letto o nella stanza dei genitori, o in quella di altri parenti e servitori, anche quando erano ormai grandicelli. Ne consegue dunque che essi potevano, per certi versi, non soltanto assistere o intuire le effusioni sessuali degli adulti, ma anche risultare facilmente oggetto di attenzione e molestie da parte di qualche membro della stessa famiglia (famiglie allargate di cui facevano parte anche zii e cugini, servitori e nonni) o di qualcuno che fosse ospite della casa per periodi più o meno lunghi. 

    Tale consuetudine rimase in auge fino all’inizio del Seicento e oltre, sia tra il popolo che tra i membri della nobiltà. 

    Verosimilmente il matrimonio di un ragazzino di quattordici anni non costituiva la regola, al contrario il matrimonio di una ragazzina di tredici era invece abituale. Un certo disagio però doveva esistere se, a partire dalla seconda metà del Seicento, si incominciò a guardare con evidente riprovazione a questo tipo di tradizioni e, proprio alla corte di Francia laddove tali comportamenti erano divenuti oramai una «legittima» pratica, ebbe origine una letteratura pedagogica, ad uso dei genitori e degli educatori, che aveva lo scopo preciso di tutelare al più alto grado l’innocenza infantile. Si raccomandava ad esempio di non far dormire più bambini nello stesso letto, di evitare di coccolarli, di sorvegliare le loro letture, di non lasciarli soli con i domestici. Si incominciava a paventare che certi scherzi, certe licenze e certi linguaggi, potessero travalicare i confini del gioco e lasciare delle tracce negative nella psiche ancora in formazione. 

    Si stava gradualmente diramando un nuovo atteggiamento nei confronti della sessualità dei bambini e degli adolescenti, che raggiunse il culmine due secoli più tardi. 

    Nell’Inghilterra vittoriana e puritana il timore del sesso portò ad adottare misure molto restrittive. Per evitare che i ragazzi si masturbassero vennero addirittura realizzate delle gabbie che venivano applicate e chiuse ermeticamente di notte sugli organi genitali, per poi essere riaperte soltanto al mattino. Il massimo ritrovato della tecnica fu però un apparecchio che in corso di erezioni spontanee faceva suonare un campanello per richiamare l’attenzione dei preoccupati genitori. Inutile dire che oggi queste trappole del sesso verrebbero considerate una forma di grave maltrattamento, così come oggi consideriamo negativamente lo sfruttamento che, ancora nel Seicento e nel Settecento in varie parti d’Europa, veniva perpetrato ai danni di molti trovatelli, allevati come schiavi da chi li trovava e sfruttati sia per i lavori manuali che a scopo sessuale. 

    Come abbiamo visto, pur non dilungandoci in una disamina approfondita e dettagliata, in tema di sessualità si è lasciato molto, troppo spazio, nel percorso storico, alla cultura sociale in cui l’eticità e soprattutto il valore intrinseco sul piano della maturità dell’essere umano che la sfera della sessualità comporta, viene relegata ad un livello assolutamente marginale. 

    Risulta quindi relativamente facile comprendere sin da ora il perché, in un panorama culturale che al giorno d’oggi sembra frammentarsi, quasi stesse implodendo, sulla pericolosa spinta di un soggettivismo⁵ a tratti più che mai incontrollabile, tale  comportamento stia assumendo proporzioni assai marcate e sfumature altrettanto crescenti. 

    I - ELEMENTI DIAGNOSTICI

    Il DSM 5 classifica il Disturbo all’interno del capitolo delle Parafilie, laddove per Parafilia viene ad intendersi la fantasia o il susseguirsi di impulsi e comportamenti sessuali di tipo insolito che si presentano in modo pressoché ricorrente producendo eccitazione sessuale. 

    Tali impulsi e comportamenti devono verificarsi per almeno sei mesi e devono causare, per essere clinicamente rilevanti, un significativo disagio o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. 

    Le fantasie sessuali specifiche e l’intenso bisogno di attività e pratiche sessuali sono solitamente ripetitivi e angoscianti per chi le prova. 

    Una «fantasia» particolare, con le sue componenti consce ed inconsce, è l’elemento patognomico, cioè in grado di far fare diagnosi, mentre l’eccitamento sessuale e l’orgasmo sono visti come fenomeni associati. 

    L’influenza della fantasia e delle sue associate manifestazioni comportamentali si estende oltre rispetto alla sfera sessuale, e va a pervadere la vita della persona. 

    Per parlare di pedofilia occorre rilevare la comparsa, in un periodo non inferiore ai sei mesi, di intensi impulsi sessuali ricorrenti verso bambini o anche di un crescente eccitamento evocato da bambini di 13 anni o meno. La persona affetta da pedofilia ha in genere almeno 16 anni di età e risulta di almeno cinque anni più grande della vittima. 

    Quando la dimensione pedofila si inquadra in un ragazzo nella tarda ado- lescenza, coinvolto in una relazione di tipo sessuale continua con un dodicenne o un tredicenne, non vengono ad essere soddisfatti i criteri diagnostici. 

    La grande maggioranza delle molestie rivolte verso i bambini coinvolge le carezze o il sesso orale. La penetrazione vaginale o anale del bambino è una evenienza infrequente, tranne che nei casi di incesto. 

    Coloro i quali compiono questi atti riferiscono che, quando «toccano» i bambini, nella maggior parte dei casi (60% circa) agiscono su vittime di sesso maschile. 

    Questo dato è in netto contrasto rispetto a quello relativo alle pratiche contro bambini senza contatto diretto, come lo spiare dalla finestra e l’esibizionismo, che nel 99% dei casi vengono compiute verso le bambine.

    Il 95% dei pedofili è eterosessuale e il 50% ha consumato una quantità eccessiva di alcool⁶ al momento dell’incidente. Oltre alla pedofilia tout court, un significativo numero di pedofili è contemporaneamente, o è stato in precedenza, coinvolto in episodi di esibizionismo, voyeurismo o violenza carnale. 

    L’incesto è correlato alla pedofilia per la frequente scelta di un bambino immaturo come oggetto sessuale, per il subdolo o aperto «elemento» di coercizione e, occasionalmente, per la natura preferenziale del legame adulto-bambino. 

    La pedofilia di per sé non comporta, in genere, atteggiamenti violenti, né aggressivi. 

    Quando presenti, queste tendenze possono essere riferite a parallele spinte sadiche. 

    Nel 50% ed oltre dei casi si rileva inoltre un’alta associazione all’alcolismo ed assai spesso vi è un passato di esibizionismo, voyeurismo o violenza carnale (Kaplan, 1996).

    II

    È di Sigmund Freud il pregio di essersi occupato in maniera sistematica della sessualità infantile e, sebbene tra gli studiosi della psiche molti non siano d’accordo sul rigido assetto in stadi da lui suggerito, in accordo al quale il piacere erotico è dapprima centrato nella regione della bocca (fase orale, da zero a 18 mesi), poi nella regione dell’ano (fase anale, da 18 mesi a 3 anni), quindi in quella dei genitali (fase fallica, da 4 a 6 anni), per poi congelarsi nel periodo di latenza (da 6 a 12 anni) e riprendersi con la pubertà nella fase genitale, è indiscutibile che i bambini possano esperire delle forme di piacere fisico fin dalle primissime fasi della vita. 

    Per la psicoanalisi, esiste una marcata conformità tra le spinte pulsionali dei bambini e quelle degli adulti e già nei primi anni di vita sarebbero operanti quelle stesse pulsioni che generano i desideri sessuali dell’adulto. 

    In realtà la sessualità infantile è dissimile ed incompiuta rispetto a quella adulta. Anche ai bambini piace essere tenuti stretti, carezzati, baciati, stimolati dolcemente nelle zone intime del loro corpo, ma queste manifestazioni non conservano ancora quella carica erotica che potranno avere in seguito. 

    Gli ormoni giocano un ruolo importante nel desiderio sessuale ed è inconfutabile il fatto che la quantità di «ormoni» presenti nel corpo di una bambina o di un bambino sia decisamente inferiore rispetto a quella presente nel corpo di un ragazzo o di un adulto. 

    In più i bambini difettano dell’esperienza, non possiedono cioè le memorie e le aspettative di una mente adulta; essi vanno scoprendo incidentalmente il piacere che dal loro corpo può di colpo scaturire. Lo scoprono magari nei giochi, in fugaci tensioni muscolari, oppure semplicemente toccandosi. Il tutto secondo una progressione cadenzata dallo sviluppo. 

    Le fondamenta della sessualità, e quindi anche del piacere, sono già insite nella struttura biologica che presiede alla vita uterina, quando si avviano ad affiorare le diversità tra i due sessi. 

    All’inizio il «cervello» dei feti di sesso maschile e di sesso femminile è piuttosto simile: a causa se vogliamo di una sorta di operazione al risparmio della natura, il programma genetico fa sì che venga pianificato per ambedue i sessi un cervello di tipo femminile, provvisto cioè di nuclei nervosi che saranno utili in futuro a regolamentare i cicli mensili, e di sostanziali differenze tra i due emisferi cerebrali, laddove quello di destra risulta più empatico e percettivo, mentre quello di sinistra più razionale e logico. 

    Anche i maschi possiederebbero pertanto un cervello di tipo femminile se ad un ben determinato momento, nel corso degli ultimi mesi dello sviluppo fetale, i testicoli del feto (gonadicamente maschile) non iniziassero a produrre e poi ad inviare in circolo gli «ormoni» maschili, ovvero gli androgeni. Questi agiscono direttamente sul cervello, durante la gravidanza, e ne arginano le caratteristiche femminili come, ad esempio, le attività ritmiche di quei nuclei nervosi che scandiscono il ciclo mestruale e inducono una produzione ormonale (estrogeni e progesterone) che varia nell’arco dei 28 giorni del ciclo; nei maschi, invece, la produzione di ormoni tipicamente maschili (o androgeni) non presenta questa ciclicità e si mantiene costante nel tempo. 

    Indipendentemente dal sesso, nel feto incomincia man mano a svilupparsi un universo di sensazioni e di esperienze che con il tempo risulteranno basilari nel dar vita al piacere sessuale. 

    Le esperienze del piacere e del dispiacere costituiscono il nucleo intorno al quale si edifica la nostra personalità. Fin dagli ultimi mesi di gravidanza il feto è in grado di avvertire alcune sensazioni, sia pure in modo indistinto, e di reagire a degli stimoli tattili spostando in modo riflesso gli arti e il corpo; cosicché alla nascita presenta una capacità embrionale che gli consente di differenziare le situazioni piacevoli da quelle sgradevoli. Piacevole risulta, per esempio, l’esperienza dell’allattamento, non solo in quanto soddisfa la fame, ma anche perché procura un piacere fisico, sensuale o meglio sessuale (non dimentichiamo che il ciucciare delle labbra sul capezzolo stimola le numerosissime terminazioni sensitive presenti a livello labiale e conferisce il primato a quella zona che darà poi il nome alla fase orale). 

    In questa fase però la sessualità è più parte di un intero che qualcosa di differenziato, anche se è possibile scorgervi alcuni tratti anticipatori della sessualità matura. 

    Nel corso del primo anno di vita, in entrambi i sessi, si possono considerare, seppur molte volte per tempi assai brevi, movimenti del bacino, tensioni muscolari e conseguente rilassamento. 

    Tra zero e tre anni l’erezione spontanea del pene e la tensione del clitoride possono produrre delle sensazioni fugaci, come fugace può essere anche il piacere che un piccolo avverte allorquando, esplorando il proprio corpo, giunge a tastarsi gli organi genitali. Sono però sensazioni che si mescolano con stimolazioni in altre parti del corpo prodotte, per esempio, dal solletico, da un massaggio caldo, dal toccarsi e accarezzarsi vicendevolmente. 

    Questa è anche la ragione per cui in questa età della vita si privilegia adottare il termine di «sensualità» più che di vera e propria sessualità: le sensazioni erotiche, se così vogliamo definirle, sono invero ad un livello embrionale e sporadico in quanto non sono ancora state ridestate, come invece avverrà nella pubertà, da quella corrente ormonale che è essenziale affinché si inneschino le fasi mature della libido (ossia del desiderio sessuale). 

    La sensibilità diffusa del piccolo nei primi anni di vita resta, in ogni modo, una precondizione alla sessualità degli anni successivi. 

    L’erotismo evolve, allora, per stadi consecutivi anche se la successione, come pure la durata, non è da intendersi in modo rigido: è di fatto più che mai possibile come alcuni aspetti di una determinata fase siano già presenti nella precedente e come, viceversa, modalità tipiche di una fase più antica perdurino poi, in forma più accentuata, in epoche successive. 

    Ricerche condotte dai coniugi Kinsey (1950, 1955) e da altri studiosi come Niels Ernst (1979) e il norvegese Bjerring Hansen (1977), segnalano che approssimativamente un quinto dei bambini scopre il piacere della masturbazione fra 3 e 6 anni, anche se le sensazioni che provano possono essere più o meno intense e solo in un numero ristretto di casi essere simili all’orgasmo. 

    Tra i quattro e i sei anni, di pari passo con la scoperta degli organi sessuali e delle differenze anatomiche tra i due sessi, insorgono anche, in un discreto numero di bambini, le prime fantasie cosiddette a sfondo sessuale (non necessariamente riferite all’altro sesso). 

    Ed è anche a questa età che incomincia ad affiorare il «senso del pudore» il quale, secondo il parere di alcuni, è legato alle sensazioni che il bambino prova mentre, secondo altri, trae origine invece soprattutto dal tipo di ambiente e di cultura in cui il bambino vive e cresce. 

    La masturbazione andrebbe a ragione considerata come una evenienza normale assai diffusa, anche se non tutti i bambini la praticano. Questo comportamento diventa anomalo quando è esagerato o quando avviene in luoghi non appropriati (in pubblico o in classe) e i bambini infatti si rendono conto del legame che esiste tra determinate azioni e luoghi.

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