Turn Back Time
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Turn Back Time - Marco Lazzara
Marco Lazzara
Turn Back Time
Marco Lazzara - Turn Back Time
Immagini di copertina e di quarta di copertina da pixabay.com
Tutti i diritti riservati
Per me, una storia di viaggi nel tempo è interessante solo se può svilupparsi in una storia d’amore. Altrimenti non ha senso.
RICHARD MATHESON (Intervista)
Il tempo aveva perso la sua qualità pluridimensionale.
RICHARD MATHESON, Io Sono Leggenda
Tempo, fammi un ultimo favore. Fermati su questo momento sublime, in maniera che io possa viverlo per sempre.
RICHARD MATHESON, Appuntamento nel Tempo
PROLOGO
Ogni uomo ha una storia, e la storia è fatta di uomini. Ci sono uomini che fanno la storia e altri ancora che è la storia a fare uomini. Ma che cos'è poi un uomo? Un insieme di carne e ossa? Di cuore e spirito? O forse è qualcosa di più? È un viaggiatore, un'anima pellegrina, intento a cercare il suo posto nel mondo. Che percorre strade, attraversa fiumi, oltrepassa valichi montani e si spinge fino ai deserti sabbiosi. Che cerca, in questo suo cammino, di trovare la propria storia. Ma forse, alle volte, è la storia a trovare lui.
PRIMA PARTE
Il Fiume del Tempo
Il tempo è come un fiume: non risale mai alla sorgente.
ANTOINE DE RIVAROL
CAPITOLO I
Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita.
PROVERBIO CINESE
Era il 26 settembre del 1986, un venerdì. Il mattino, in quella che da molti era chiamata la città ventosa
, era stato segnato da un forte temporale, comprensivo di tuoni e sferzate d’acqua; poi, rapido com’era cominciato, così era terminato, lasciando inzuppata una sorpresa Chicago. Nel tardo pomeriggio era tornato a splendere il sole, che nel suo apparire repentino aveva asciugato la città. In quelle ultime settimane il clima era stato insolitamente mite per la stagione, quasi una dolce rimembranza dell’estate appena trascorsa. Doveva essere l'effetto dell’estate indiana, che presto avrebbe cominciato a far sentire il suo piacevole influsso, ricacciando ancora per qualche tempo il sopraggiungere dei mesi freddi. Le foglie avevano iniziato a ingiallire, in quel primo malinconico approssimarsi dell’autunno, e il comparire di un leggero venticello proveniente dal lago cominciava già a staccarne le prime dagli alberi; per qualche istante le faceva fluttuare in maniera giocosa nell’aria, per poi lasciarle ricadere al suolo, a radunarsi assieme alle compagne già cadute, formando dei tappeti fragranti dalle tinte gialle e marroni e rosse. Quell’anno la caduta delle foglie stava avvenendo con un po’ di anticipo: stando all’Old Farmers Almanac, compilato nel 1792, quello spettacolo di colori a Chicago avrebbe raggiunto il suo massimo splendore per il 21 di ottobre. Mentre il sole, adombrato di tanto in tanto da qualche nuvola di passaggio, si allontanava in direzione ovest, verso la California, un po’ per volta le ombre andavano allungandosi, intanto che le ore del meriggio trascorrevano inesorabili verso il tramonto e la conclusione di quella giornata.
Richard sedeva su una delle poltrone dell’elegante salotto di Albert Stockwell. Quella stanza aveva un suo profumo inconfondibile: anche a occhi chiusi, Richard avrebbe potuto riconoscerla tra mille. Era un misto dell’odore che proveniva dalla pelle dei divani assieme al legno dei mobili, ma c'era anche una velata traccia di essenza floreale.
Quel luogo odorava soprattutto di familiarità, maturata nelle numerose volte che era venuto lì in visita: Albert era da più di vent’anni uno dei suoi più cari amici; l’aveva conosciuto quando era venuto a Chicago a lavorare per il dipartimento di psicologia dell’università. Nel corso degli anni Richard aveva sempre potuto fare affidamento sull’amico, e Albert era stato per lui quasi un secondo padre, che Richard aveva perso da ragazzo. Anche se Albert in effetti non era certo così vecchio. Questo nonostante il suo continuo schernirsi in proposito e nonostante negli ultimi anni avesse cominciato a sospirare sempre più spesso su quanto ancora gli mancasse per arrivare alla pensione e al meritato riposo. Ma Richard sapeva bene che in fondo si trattava tutta di una finta: Albert non poteva vivere senza il suo lavoro all’università, amava tenere corsi, esami, avere a che fare con gli studenti e coi colleghi, scrivere articoli e partecipare a conferenze e seminari. Forse solo di queste ultime due avrebbe fatto a meno: col passare degli anni, spostarsi da una parte all’altra del paese era diventato per lui sempre più gravoso, ora che i chilometri avevano cominciato ad assommarsi impietosi agli anni.
È una cosa che lascio più che volentieri a voi giovani, aveva cominciato a ripetere sempre più di frequente negli ultimi tempi.
Casa Stockwell si trovava a Glenview, una piccola cittadina situata a nord di Chicago, ad appena un’oretta di macchina dalla metropoli. Era una bella abitazione a due piani, frutto dell’espansione urbanistica della fine degli anni Sessanta. Dalla finestra Richard riusciva a scorgere il panorama all’esterno, il cielo azzurro, gli alberi dai colori autunnali allineati sui due lati del viale, qualche rara macchina che passava per la strada antistante. Una foglia, mossa dal vento, attraversò per un momento la sua visuale. Glenview, cittadina di periferia, era un posto molto più tranquillo rispetto alla caotica e trafficata Chicago.
Il suo vecchio amico gli aveva raccontato più volte dei piani che aveva per quando infine si sarebbe dovuto ritirare: avrebbe occupato il proprio tempo lavorando all’amato giardino, il suo più grande hobby. In particolare la sua passione era la coltivazione delle rose, di cui Albert possedeva diverse qualità, alcune delle quali piuttosto rare, e tutte davvero splendide. L’amico gli aveva fatto visitare spesso il suo giardino, mostrandogli contento i successi e scuotendo la testa insoddisfatto di fronte a quelle piante che non erano cresciute abbastanza robuste o che erano state attaccate dai parassiti, i più implacabili e odiosi nemici che Albert Stockwell avesse al mondo.
La terribile pestilenza di afidi del 1982 aveva quasi distrutto la sua intera coltivazione; in quella tragica occasione, di fronte alle sue povere rose devastate da quei malefici esserini, Albert aveva giurato loro tremenda vendetta, contrattaccando prima con i pesticidi – senza però ottenere molto successo – poi ricorrendo a un rimedio naturale, ovvero l’aglio. Aveva letto che i composti solforati che esso conteneva, responsabili del forte odore di quel bulbo, erano degli efficaci antiparassitari naturali. Aveva così preparato delle bottigliette d’acqua in cui aveva messo a macerare spicchi d’aglio per diversi giorni: al termine aveva poi spruzzato risoluto quel fetente estratto sulle sue rose. In quei giorni casa Stockwell – ricordava Richard con ironia – aveva un sentore che non ci si sarebbe stupiti di trovare in una magione transilvana del secolo precedente e lo stesso Albert ricordava più un contadino ottocentesco alle prese coi vampiri, che non un ordinario di psichiatria. Il trattamento con l’aglio aveva in effetti sortito qualche risultato, ma solo temporaneo: gli afidi alla fine erano ritornati, più agguerriti e devastatori di prima. Assolutamente deciso a non arrendersi senza lottare, alla fine Albert era ricorso a un altro rimedio naturale, ma che questa volta si era rivelato efficace, decisivo in quella sua guerra: le coccinelle, instancabili predatori di quei fastidiosi insetti, avevano infatti salvato le sue piante, divenendo da quel giorno l’insetto favorito di Albert, gli eroici paladini protettori delle sue amate rose, addirittura il suo talismano portafortuna.
Quando le escursioni nel giardino insieme ad Albert cominciavano a protrarsi troppo a lungo, puntualmente venivano interrotte da Nancy, la sua adorabile moglie, che cercava sempre di contenere l’entusiasmo del marito verso il suo passatempo favorito per non disturbare troppo i loro ospiti. E per farlo, ricorreva a un’arma davvero efficace: l’irresistibile richiamo della sua leggendaria torta di mele aveva il magico potere di far rientrare subito Albert in casa. Ma anche mentre ne gustava una fetta accompagnata da una tazza di tè, non riusciva lo stesso a smettere di parlare del suo amato giardino.
Sì – rifletteva Richard – per Albert passare le giornate a coltivare fiori sarebbe stato di sicuro il modo migliore per godersi la meritata pensione.
Dana, la moglie di Richard, era sembrata apprezzare più di lui, almeno in apparenza, quelle escursioni nel giardino di casa Stockwell; diverse volte, in passato, si era lanciata con Albert in approfondite discussioni sulla floricoltura, chiedendogli pareri e consigli in merito. A sentirla, si sarebbe potuto immaginare che anche lei avesse intenzione di cominciare a dedicarvisi, in quello striminzito giardinetto che avevano sul retro della loro casa, ma in realtà alla fin fine non ne aveva mai fatto nulla. Era il tempo, quello che le mancava, rispondeva a Richard quando lui l’aveva punzecchiata in proposito, perché i suoi impegni erano troppi perché potesse starvi dietro come le sarebbe piaciuto.
Ma del resto lui non riusciva proprio a immaginarsela armata di zappa e rastrello o a concimare o in una qualsivoglia altra attività lerciante che la cura di un giardino comporta, se non al massimo a innaffiare, sorridente e senza una traccia di sporco, con quella naturale eleganza che le era propria, come una di quelle donne che si vedono nelle pubblicità alla televisione oppure una di quelle cantanti alla moda dai capelli cotonati, tipo le Bangles o Samantha Fox. Bisognava essere onesti: Dana non era proprio il tipo per certe attività.
Era una donna affascinante, molto bella, ma sapeva anche essere volitiva e caparbia; sempre elegante in tailleur e trucco molto curato, portava tacchi alti per compensare la sua bassa statura, tratto che aveva eredito dalla famiglia materna e che aveva sempre trovato alquanto limitante. Era dotata di un caratterino lunatico, per cui spesso andava soggetta a periodi alternati di buono e cattivo umore. Molti uomini ironizzano sui cicli umorali delle donne, associandoli a certi periodi del mese correlati alle loro funzionalità fisiologiche, ma Dana sembrava ancor più seguire le fasi lunari, alternando periodi di gioiosa solarità ad altri di risentito cattivo umore. Richard, dopo vent’anni passati assieme, ci aveva fatto l’abitudine e si era rassegnato al dover convivere col suo ondivago caratterino.
Dana lavorava da molti anni nell’amministrazione comunale di Chicago. Aveva cominciato da giovanissima, alla fine degli anni Sessanta, quando aveva fatto parte della campagna elettorale per la terza candidatura di Richard Daley, il vecchio sindaco della città. Daley era stato primo cittadino di Chicago per 21 anni di fila, dal 1955 al 1976, quando era morto per un attacco di cuore all’età di 74 anni, e la sua amministrazione aveva lasciato una forte impronta sulla città. Diverse volte Richard aveva sentito Dana manifestargli l’intenzione di proporre la propria candidatura per quel seggio. Non sarebbe stata neanche una cosa inedita: nel 1979 Jane Byrne era stata il primo sindaco donna di Chicago. Comunque Dana la tenacia e la forza di volontà per riuscirci ce l’aveva tutta, spesso gli aveva ripetuto che il suo momento stava per arrivare. Forse le elezioni del 1987 sarebbero state la volta buona, ma c’era anche chi faceva il nome del figlio di Daley come possibile candidato dei democratici, e se le voci fossero state vere, per sua moglie sarebbe stato un difficile contendente da affrontare alle primarie.
Richard chiuse gli occhi emettendo un verso infastidito. L’aveva fatto un’altra volta. Aveva di nuovo pensato a Dana come a sua moglie. Non lo era più, da ormai un anno Dana non era più sua moglie.
Fece un sospiro, ripensando a quell'ultimo, difficile anno. Albert e Nancy gli erano stati molto vicini dopo il divorzio. Soprattutto Nancy, con fare un po’ materno, si era preso cura di lui durante il brutto periodo che aveva passato dopo la separazione legale. Il che non aveva mancato di scatenare qualche commento bonario da parte di Albert, ma Nancy sembrava aver preso molto a cuore la sua situazione e aveva cercato come meglio aveva potuto di essergli di conforto. E anche Albert, che era stato un prezioso amico con cui parlare e sfogarsi. Era stato a cena a casa loro molto più di frequente del solito, riuscendo così a riempire il vuoto di quelle sere divenute solitarie, dove il silenzio della casa abitata ormai soltanto da lui gli era pesato come mai prima di allora.
In quel momento Richard, perso nelle proprie riflessioni, stava giocherellando col bicchiere, ormai vuoto da parecchio, che teneva in mano, la testa leggermente rovesciata all’indietro a osservare il soffitto della stanza. Albert era un patito del whisky e del cognac – ma per qualche misteriosa ragione non sopportava lo sherry – per cui non mancava mai di offrirne un bicchiere ai propri ospiti. Lo sguardo di Richard si spostò dal soffitto vagando qua e là nell’esame del soggiorno: il tappeto ai suoi piedi, il caminetto di pietra, la libreria, le riproduzioni di impressionisti francesi appesi alle pareti.
L’anziano uomo aveva notato che qualcosa impensieriva il suo più giovane amico. Le preoccupazioni e soprattutto l’infelicità degli ultimi anni avevano cominciato a lasciare dei segni sul volto di Richard, che a tratti appariva scavato, smagrito, più vecchio di quanto fosse in realtà. Con una sensibilità dettata dall’abitudine, lasciò che fosse lui a parlargli di ciò che lo stava turbando.
«Questa non è una semplice visita di piacere, Albert. Sono venuto qui a chiederti un favore» disse infine Richard con aria grave, rompendo il silenzio.
«Qualunque cosa, Richard. Non hai che da chiedere.»
«Ho in mente di partire, e vorrei che mi aiutassi con i preparativi.»
«D’accordo, Richard» disse Albert un po’ sorpreso. «Non c'è problema.»
Non aveva idea che Richard intendesse fare un viaggio, da quando lo conosceva gli era sempre parso tanto sedentario. L’unico modo per allontanarlo da Chicago sembrava fossero i congressi a cui partecipava nelle altre università del paese. Doveva essere una decisione che aveva preso di recente, ma di sicuro, con tutto quello che aveva passato nell’ultimo anno, non avrebbe potuto che fargli bene.
«Dove hai intenzione di andare?» gli chiese.
«Non dove… ma quando» rispose Richard con una strana luce negli occhi.
«Temo di non seguirti, Richard.»
«Il viaggio che mi sto preparando a compiere è un viaggio indietro nel tempo» concluse.
Albert rimase a fissarlo senza sapere cosa dire. Un viaggio indietro nel tempo? Ma che cosa intendeva?
Forse voleva dire in senso metaforico, come quando si va a visitare un luogo di una qualche importanza storica e si ha l’impressione di essere tornati indietro nel tempo. O magari intendeva semplicemente che aveva in mente di tornare nella sua città natale, il che poteva essere come una sorta di viaggio nel tempo. Era così?
«Molto bene, Richard» disse quindi. «Non credo di aver capito bene dove tu abbia intenzione di andare, ma se hai bisogno di prolungare il tuo anno sabbatico, non c’è alcun problema. Parlerò di persona col rettore e…»
«Temo che tu non abbia capito. O forse pensi che stia scherzando» lo interruppe Richard con un sorriso divertito. «Ascoltami. Quante volte nella vita ci si dice: "Ah! Se solo potessi tornare indietro, allora…"? Immagina che sia davvero possibile tornare indietro nel tempo e modificare ciò che nella tua vita è andato storto; avendo la conoscenza del futuro si potrebbe evitare di commettere certi errori e in questo modo dare alla propria vita il giusto corso…»
Albert sospirò, un po’ più sollevato. Aveva cominciato a temere che la storia del divorzio alla lunga fosse stata molto peggiore di quanto lui e Nancy avessero immaginato.
«Beh, immagino di sì, non credo esista persona al mondo che almeno una volta nella vita non abbia pensato qualcosa del genere.» Annuì impercettibilmente. «Ho capito dove vuoi arrivare: se potessi tornare indietro, faresti in modo che tu e Dana non arriviate a divorziare e...»
«Non è a Dana che pensavo.»
Albert notò un’espressione curiosa sul volto di Richard nel nominare la sua ex-moglie. O meglio, una mancanza di espressione, come se oramai fosse cosa di cui non gli importasse più.
«Ti racconterò una storia, Albert» continuò Richard. «Come sai vengo dalla California, è lì che sono nato e cresciuto. L’anno in cui mi laureai a Berkeley, conobbi una ragazza. Si chiamava Laura ed era meravigliosa. Lei… beh era lei, il vero e unico amore della mia vita. Ma questo purtroppo l’ho capito solo dopo, col passare degli anni. Rimanemmo insieme qualche tempo ed eravamo anche molto felici. Poi, poco dopo essermi laureato, ricevetti un’offerta per un posto qui a Chicago, come assistente del professor Fisher. Te lo ricordi il vecchio Fisher?»
«Sì, certo» trasalì Albert a quell’interruzione del discorso. «Saranno già dieci anni che è andato in pensione, dico bene?»
«Sì, forse anche di più. Se non mi sbaglio è in quel periodo che ci siamo conosciuti, quando ho cominciato a lavorare nel suo gruppo.»
«Mi pare proprio di sì, Richard.»
«Comunque, avevo fatto richiesta qualche tempo prima che ci conoscessimo, e in effetti all’epoca neanche ci speravo troppo. Invece venni chiamato. A Chicago avrei potuto seguire i corsi propedeutici all’ammissione al dottorato e avere una sicura carriera accademica, mentre in California non avrei avuto le stesse opportunità. Probabilmente sarei finito a insegnare in un qualche liceo della zona… Fu una decisione un po’ sofferta, ma alla fine pensai che quella poteva essere la grande occasione della mia vita e che non potevo lasciarmela scappare… Fisher era un’autorità e avrei potuto raggiungere un’ottima posizione entrando a far parte del suo gruppo. Così accettai e venni qui a Chicago. Laura invece rimase in California a terminare gli studi. Nessuno di noi due voleva una relazione a distanza, così ci lasciammo in amicizia e tra di noi finì tutto.»
«L’hai mai più rivista?»
Richard fece cenno di no. «Ho saputo che qualche anno dopo si è sposata con un tipo dell’esercito... un ufficiale dell’aviazione, se non ricordo male. Comunque, io venni a stare qui a Chicago, dove conobbi Dana, e poi…»
Albert annuì. «Sì, ho capito dove vuoi arrivare. Se avessi saputo ciò che ti aspettava nel futuro, forse saresti rimasto in California.» Fece una risatina sollevata. «Sai, per un momento mi hai fatto preoccupare con quella storia del viaggio nel tempo... Avevo temuto che avessi avuto un crollo nervoso o qualcosa del genere, e che magari ti fossi messo a costruire nella tua cantina una qualche sorta di strano trabiccolo per viaggiare nel tempo…»
Richard sorrise di nuovo. «Tu non capisci. Io ho già viaggiato indietro nel tempo. Prima di tutto avevo bisogno di verificare che fosse davvero possibile, un piccolo esperimento prima del vero viaggio, così sono tornato indietro esattamente di ventiquattro ore. Cioè a oggi.»
Albert rimase in silenzio a contemplare il suo amico, in preda alla confusione. Ma allora stava proprio dicendo sul serio! Richard si era davvero convinto di poter viaggiare nel tempo!
Giusto l’anno prima era uscito al cinema un film con quel giovane attore di Casa Keaton – in quel momento gliene sfuggiva il nome – in cui il protagonista viaggiava indietro nel tempo fino agli anni Cinquanta a bordo di una macchina sportiva, e poi incontrava i suoi genitori da giovani. Una roba assurda.
Nel frattempo Richard gli sembrava del tutto a proprio agio. Aveva sganciato la bomba e ora se ne stava lì