La rivincita di Monna Lisa
Di Anna Nihil
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Anteprima del libro
La rivincita di Monna Lisa - Anna Nihil
onestà
Pavia, 19 settembre 1494
«Con il vostro permesso, vorrei ritirarmi nelle mie stanze.»
«Come volete, mia cara sposa.» La guardò con tenerezza, indeciso se salutarla o no con un bel bacio sulle labbra.
Isabella, conoscendo l’indolenza del suo Gian Galeazzo, prese l’iniziativa, come sempre del resto, e lo baciò. Poi, lentamente, si alzò da tavola e abbandonò la cena salutando con un lieve cenno del capo gli altri commensali.
Scortata dalla sua cameriera più fidata, salì le scale e raggiunse il primo piano.
«Voglio vedere la mia bambina.»
«Certo, mia signora.»
La cameriera aprì la porta.
La balia, di guardia accanto alla culla, si alzò di scatto e improvvisò un inchino. «La duchessina Bona sta dormendo come un angelo!» la rassicurò.
Isabella si avvicinò stando attenta a non fare rumore. Appena si affacciò sulla culla e vide la faccetta rosea e paffutella della sua piccola, un sorriso le illuminò il viso.
Si voltò verso un comò di legno scuro, ricco di graziosi decori, desiderosa di aggiungere una copertina in più nella culla. Era una fredda sera di fine settembre, e la piccola Bona era ancora così fragile con i suoi sette mesi.
Isabella si vide riflessa sul vetro della finestra. L’oscurità all’esterno e le fioche luci delle candele nella stanza facevano emergere il suo colorito chiaro e i tratti decisi del suo volto. Non si era piaciuta molto nella bozza che il pittore di corte le aveva mostrato, e invece doveva riconoscere di essere molto più simile a quel disegno di quanto pensasse.
Già dal suo arrivo a Milano, come fresca sposa, aveva richiesto un ritratto con un bel mare blu sullo sfondo, ma il pittore si era ostinato a voler dipingere montagne rocciose e impervie. Alla fine, nemmeno l’artista fu soddisfatto del risultato e lasciò il dipinto incompiuto.
Qualche anno dopo, la convinse a farsi ritrarre di nuovo. In quell’occasione il pittore rivelò tutto il suo genio e la sua capacità di leggere l’animo umano. Le disse: Ho sempre adorato il vostro viso, il vostro sguardo indagatore, ci giudicate e vi prendete gioco di tutti noi! Il bello è che non resistete dal farcelo sapere con quel sorriso beffardo, dietro al quale nascondete tutte le vostre amarezze… ma stavolta più che problemi, sento una buona notizia…
Era così, l’erede tanto atteso stava arrivando, ma non si poteva mai cantare vittoria prima che il bambino nascesse.
Fortunatamente, quel 30 gennaio 1491, tutto andò bene, e venne alla luce un maschio come il popolo sperava. Il bel Francesco, per tutti il Duchetto.
Due anni dopo, nacque Ippolita, e l’anno dopo ancora Bona, e adesso? Isabella si toccò la pancia. Chissà chi sarebbe arrivato? Il suo intuito le diceva che sarebbe stata una femmina, a cui avrebbe insistito per assegnare un nome più carino rispetto alle sorelle. Ippolita aveva preso il nome della sua amata madre e Bona di sua suocera, così come voleva la tradizione.
La tradizione avrebbe voluto anche che suo marito, Gian Galeazzo, fosse il duca di Milano. Lo era, ma solo sulla carta. Un velo di delusione si posò sul suo viso. Ad atteggiarsi da vero duca, approfittando dell’ingenuità di Gian Galeazzo, era il loro zio, Ludovico il Moro. Egli dettava legge e stipulava nuove alleanze stando nella bella reggia di Milano, mentre aveva confinato lei e il marito, giovane coppia ducale, a Pavia.
Gian Galeazzo aveva accettato questa soluzione senza battere ciglio. Mai una protesta o un gesto di dissenso nei confronti di suo zio.
Isabella era stanca di essere messa in secondo piano nel suo ducato, prima dalle amanti e adesso dalla consorte di Ludovico. Se suo marito poteva accettare un simile affronto, lei no. Lei era figlia del re di Napoli. Dovevano riprendersi Milano e far rispettare i loro legittimi diritti. Soprattutto pensando al bene dei propri figli. Non c’era un attimo in più d’attendere.
D’improvviso, si sentirono delle urla, dei passi concitati.
Isabella, allarmata, uscì subito dalla stanza. Si ritrovò dinanzi una delle dame di corte tutta tremante. La donna appena incrociò gli occhi della duchessa scoppiò in lacrime, si portò le mani sul viso e si buttò a terra in ginocchio. «Mia signora» mormorò stando ai suoi piedi.
«Parla!» le ordinò Isabella.
«Il duca Gian Galeazzo è morto!»
Pavia, 20 ottobre 1494
Suo marito era disteso sul letto. Il poveretto non faceva altro che contorcersi dal dolore da un mese, e gli ultimi cinque giorni erano stati tremendi. Una sofferenza così intensa e devastante da non sembrare naturale.
Quando la dama le aveva comunicato quella terribile notizia, Isabella era corsa subito nella sala da pranzo dove, pochi attimi prima, aveva lasciato suo marito, debole ma in vita. Lo trovò a terra. Era crollato dalla sedia su cui era solito sistemarsi a tavola.
Tutti i presenti lo guardavano e nessuno di loro muoveva un dito per aiutarlo.
S’inginocchiò accanto a lui, lo strinse tra le braccia e si accorse che respirava ancora. Presto! Chiamate il medico! Portatelo nella sua stanza! Forza! Non state lì a guardarlo come se fosse già morto! Non lo è! Respira! È vivo e vivrà!
gridò con energia.
Le ubbidirono. Lo portarono sul suo letto, ma al contrario di altri malori che avevano afflitto il duca, stavolta non sembrava esserci possibile soluzione.
Gian Galeazzo era sempre stato cagionevole di salute. Quando era a Pavia. Ogni fastidio spariva appena, sotto consiglio dei medici, partiva per qualche giorno di villeggiatura, per poi tornare a stare male appena rientrava a corte.
Isabella ricordò un particolare.
Gian Galeazzo aveva cacciato un servo, un tale Franceschino Beccaria, imputandolo di avere il brutto vizio di offrirgli del vino di pessima qualità. Senza quel servo a riempirgli il boccale, non accusò più i suoi soliti sintomi a fine pasto.
Dopo un paio di giorni, il servo tornò a corte per volere di Ludovico il Moro.
Proprio quel giorno, quell’infausto 19 settembre, Beccaria era lì a servirgli il vino.
«Monna Lisa» le disse con affetto una dama di alto lignaggio, «nelle vostre condizioni non potete affaticarvi…»
«Che sia chiaro, una volta per tutte, non lascerò mio marito. L’ho trascurato anche fin troppo e questo è il risultato.»
«Non avete colpa della sua malattia.»
«Ho colpa di non essermi avveduta prima degli inganni orditi alle sue spalle! Uscite tutti da questa stanza! Vi chiamerò, se necessario.»
Appena si ritrovò da sola con il marito, lo guardò con amorevole compassione. «Vero che vivrai? Rispondimi! Dammi un segno» gli disse ancora, per la millesima volta, accarezzandogli il viso. «No, non è una malattia ad averti ridotto così, è veleno!»
In questo lungo mese di sofferenza, in tanti erano giunti al capezzale di Gian Galeazzo per accertarsi delle sue condizioni. La prima, naturalmente, fu sua madre, Bona.
Cara!
disse a Isabella e l’abbracciò. Alla giovane sembrò strano, frutto di un momento di massima disperazione, mai in altri frangenti sua suocera le avrebbe regalato un gesto così affettuoso.
La prima volta che Isabella l’aveva vista era stata dopo la celebrazione delle sue nozze. Una festa magnifica, seguita da una prima notte deludente. Isabella capì la timidezza del suo sposo, ma non era facile sopportare i tanti pettegolezzi infamanti che circolarono in quei giorni. Quando per cortesia raggiunse Abbiategrasso, dove la duchessa madre era stata confinata da Ludovico il Moro, la suocera, invece di accoglierla e darle coraggio, le riempì la testa di altre terribili storie sulla famiglia con cui si era appena imparentata.
Deve essere tremendo per te
aggiunse, scaricandosi da ogni responsabilità. Sarebbe stato gradito un ti aiuterò
, starò qui io, riposati
. Guardò il figlio agonizzante, piagnucolò e se ne andò. Sarà il caso che mi trovi un posto dove stare. Dovresti cercartelo anche tu. Io credo che andrò in Francia
.
Isabella non rispose, impietrita dall’indifferenza che sua suocera aveva mostrato nei confronti del figlio. Appena quella gelida donna uscì dalla stanza, rivolse uno sguardo colmo di compassione a suo marito.
Non fu l’unico incontro sconfortante di quei giorni. Il peggio arrivò il 14 ottobre con Carlo VIII, re di Francia, cugino di primo grado di Gian Galeazzo. Le loro madri erano sorelle.
Isabella malvolentieri lo accolse nella sua dimora e lo accompagnò al capezzale del marito.
Carlo VIII guardò distrattamente il cugino e poi se ne andò. Il suo era stato un atto formale.
Isabella non si aspettava di più, ma provò a dare un senso a quella visita parlando con grande onestà al re francese: So che il vostro obiettivo è conquistare il Regno di Napoli, dove siede sul trono mio padre, e prima di lui mio nonno. Vi prego di avere pietà per la gente del regno, fate in modo che la vostra discesa, in quei bei luoghi a me tanto cari, non provochi solo morte e distruzione. Non siate troppo crudele con la mia famiglia
. Isabella lo fissò con gli occhi lucidi, ma tutto quello che ottenne fu di essere scansata in malo modo.
Dopo esserle passato oltre con tale arroganza, Carlo VIII si fermò. Isabella pensò che si fosse pentito di quel gesto e fosse pronto a farle una promessa, a dirle qualche buona parola consolatoria. Siete sicura che Gian Galeazzo non sia contagioso?
disse il re pulendosi le mani su un arazzo.
Isabella avrebbe voluto che lo fosse. Avrebbe voluto far sparire quel re invasore e risolvere ogni problema per la sua famiglia e il suo popolo. Potete stare tranquillo, il veleno non è contagioso
replicò Isabella con spavalderia.
Sorpreso da una simile risposta, Carlo VIII non aggiunse altro. La guardò con disprezzo,