Pervigilium Veneris
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Anteprima del libro
Pervigilium Veneris - Pio Mario Giuseppe Fumagalli
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
TRADIZIONE MANOSCRITTA
Il Pervigilium Veneris è il c. 191 dell’Anthològia Latina nell’edizione di Shackleton Bailey del 1982.
L’opera si fonda sui seguenti testimoni:
Salmasianus (S), del VII secolo, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi: il codice è in scrittura onciale (cioè a forma di oncia, arrotondata);
Parisinus Latinus 8071(T), del secolo IX-X, anch’esso conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, in scrittura corsiva;
Vidobonensis 9401 (V), del secolo XVI, conservato nella biblioteca nazionale di Vienna: questo codice, che ci interessa per 16 folia (26-43) dalla mano del poeta Jacopo Sannazaro, fu utilizzato solamente nel 1936 dal Clementi (Pervigilium Veneris, Oxford 1936);
Ambrosianus S. 81 sup. (A), del XVI secolo: questo codice riporta solo 43 vv. del Pervigilium Veneris; è in scrittura corsiva ed è appartenuto a Vincenzo Pinelli.
La storia del Pervigilium Veneris comincia nel 1577, data in cui Pierre Pithou lo scoprì nel codex Tuaneus, cioè nel citato Parisinus Latinus 8701 (T) e ne pubblicò lo stesso anno l’editio princeps.Nel 1619 Claude de Saumaise scoprì il codice che prende da lui il nome di Codex Salmasianus, cioè il Parisinus Latinus 10318 (S), più antico del T, e nel 1638 fu pubblicata l’edizione di Petrus Scriverius, Pervigili nova editio auctior et emendatior, in Dominici Baudii Amores, Amstelodami 1638, con le note dei principali eruditi. Da questo momento si succedono le edizioni nei vari paesi.
I codici più antichi sono dunque S e T : secondo Clementi (cit.) S deriva da una trascrizione B della compilazione originale dell’Anthologia Palatina, mentre da un’altra trascrizione C sono derivati i rispettivi esemplari di T e di V. – Ignazio Cazzaniga (Saggio critico ed esegetico sul Pervigilium Veneris,"SCO" 3, 1953, pp. 47-101) sostiene la derivazione di V da T e un influsso di S, quest’ultimo in grado di spiegare lo stato migliore del testo V rispetto a T.- Secondo Catlow (Pervigilium Veneris, Edited with a Translation and Commentary by L. C. , Collection Latomus
, vol. 172, Bruxelles 1980, pp. 14-15) S non ha esercitato nessun influsso su V, almeno non tale da eliminare errori grossolani che compaiono in quest’ultimo, ed esclude tassativamente l’ipotesi di Schilling (La Veillée de Venus. Texte établi et traduit par R.S., Paris 1944, pp. XI e LXII), seconda la quale le lezioni corrette in V in casi di errore di T sarebbero frutto della emendazione di Sannazaro. E. Valgiglio ritiene V testimone di uno stadio della tradizione più antico rispetto a T. – Secondo Clementi (cit.) e Rand (rec. all’ed. di Clementi, AJPh
, 58, 1937, p. 475) T e V si troverebbero su un piano equivalente da un punto di vista stemmatico, discendendo entrambi da un unico esemplare. – Per quanto riguarda il Codice A, Cazzaniga (cit., pp. 87 e 92) afferma: "Fonte di A(mbrosiano) è, per via mediata, T(uaneo): medesima è la serie degli epigrammi… Dunque il nucleo base è sostanzialmente T… Questa affermazione trova il suo conforto nel fatto che Grazio e l’Italieutica sono tramandati solo da T e non da S. Tuttavia -prosegue Cazzaniga-
A non deriva da V: poiché le poche concordanze che abbiamo elencato… significano ben poco rispetto all’entità delle discordanze, quindi conclude
Da quanto abbiamo mostrato e discusso, la tradizione del Pervigilium dipende in sostanza dal cod. T, poiché a lui si rifanno sia A che V; tuttavia non possiamo escludere che qualche lezione di S fu fatta nota in via privata, senza che di S venissero fatte copie. Secondo Valgiglio (cit.), A deriva da dallo stesso antigrafo di T, col quale concorderebbe contro V; secondo Catlow A "is derived from T with the inclusion of some humanist conjectures…is a worthless copy of T". Infine il Formicola (Pervigilium Veneris, introd., testo cr., trad. e comm. e Lexicon a cura di C. F., Napoli 1998, p. 13) osserva che A non sembra un descriptus di T, come qualche editore ha considerato, ma è testimone di scarsissimo valore e non fornisce nessun apporto alla costituzione del testo.
Questo riesame, breve e semplificato, della collazione dei quattro manoscritti S T V A è stato necessario per le discordanze che si evidenziano nelle varie edizioni. Il testo che si leggerà è, in gran parte, quello stabilito da Carmela Mandolfo, esimia studiosa dalla quale ho abbondantemente attinto (senza tralasciare il mio vecchio maestro Ignazio Cazzaniga, che ho avuto la fortuna di conoscere in occasione del mio esame di filologia classica, all’Università di Milano) e da A. Cucchiarelli e da C. Formicola. Il principio fondamentale è stato quello di rispettare il testo tràdito finché possibile; l’ordine dei versi segue quello proposto dai manoscritti.
NOTA ESPLICATIVA
Questa introduzione filologica, peraltro molto semplificata, vuole dimostrare che, quando vogliamo leggere un’opera di letteratura greca, oggi prendiamo comodamente dallo scaffale un libro stampato, di cui esistono molte copie, il cui testo greco è quasi sempre identico. I testi critici, cioè quelli che portano a piè di pagina le varianti ipotizzate durante i secoli, sono rimasti solo quelli di Oxford (Oxford Classical Texts, senza testo a fronte), della Belles Lettres (con testo a fronte in francese), della Harvard University Press (con testo inglese a fronte), della Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori Edizioni (testo a fronte in italiano). Il vecchio e prezioso Corpus Scriptorum Latinorum, in aedibibus Paraviae (senza traduzione in italiano) non esiste più da tempo. Ovviamente solo su questo testi, un tempo, si potevano dare gli esami di filologia classica.
In realtà nessun testo dell’antichità classica è giunto all’età moderna nell’autografo dell’autore. L’edizione di un testo antico, in realtà, richiede dunque una complessa ricostruzione dell’originale per via indiretta e approssimata, servendosi di copie derivate da esso attraverso una serie più o meno lunga di passaggi intermedi. Accade, inoltre, che molto raramente nei papiri un’opera sia conservata per intero: si tratta di testi più o meno mutilati, che ci provengono normalmente dai frammenti papiracei e pergamenacei che vennero copiati nell’età bizantina e poi nell’Europa umanistica. Queste sono le uniche risorse che il filologo ha a disposizione per preparare quella che si chiama edizione critica di un testo: si esaminano la storia o tradizione manoscritta dell’opera; quindi si vagliano attentamente le divergenze fra le diverse copie, si cerca di eliminare gli errori e i vari guasti prodottisi col tempo nella copiatura da un esemplare all’altro, con lo scopo finale di ripristinare il testo corretto (cioè voluto dall’autore). Si tratta di un’operazione molto delicata e faticosa, piena di problemi talvolta irrisolvibili, che richiede svariate conoscenze. Capita spesso, come nel nostro caso, che non si raggiunga la certezza su quale fosse il testo corretto; oppure capita che un nuovo ritrovamento oppure la nuova lettura o interpretazione di un manoscritto vengano a mettere in discussione i dati che per lungo tempo sembravano acquisiti. Scienza faticosa e affascinante, la filologia è il punto di partenza per la conoscenza e, talvolta, l’interpretazione di un testo antico.
DATAZIONE E AUTORE: UN PROBLEMA IRRISOLTO
La datazione del Pervigilium Veneris oscilla fra il II e il IV secolo d. C.; è un carme adespoto, cioè di cui non si conosce l’autore, che consta di 93 settenari trocaici, undici dei quali costituiscono un verso ricorrente (una sorta di ritornello).
E tuttavia questo gioiellino poetico, per molti versi, rimane un mistero.
Per un certo tempo l’operetta è stata attribuita a Catullo, ma l’ipotesi è stata da tempo giustamente abbandonata, perché, fra l’altro, l’autore del Pervigilium, indubbiamente un poeta di grande cultura, attinge e fa riferimanto soprattutto ad autori posteriori a Catullo e al movimento neoterico.
Alcuni attribuiscono il poemetto a Floro, scrittore dell’epoca di Adriano, l’imperatore poeta, la figura di maggior spicco del II secolo d. C. Sappiamo dai biografi che Adriano era uomo di cultura raffinatissima; la sua politica aveva come scopo un’integrazione universale di Roma con le province, in particolare la Grecia, ove molto spesso si recava, e l’Oriente, in uno sforzo di fusione culturale non meno che amministrativa. Egli aveva una profonda conoscenza della cultura greca e fu anche, per quanto ne sappiamo, un pregevole versificatore, sia in latino, sia in greco. Di lui ci restano pochi versi; tra essi quelli in risposta a uno scherzo
poetico di Floro (Adriano 1 Morel p.136 = 1 Buechner p.169): Non mi va d’essere Floro, / marciare per botteghe, / imboscarmi per locande,/ sopportar tonde zanzare.
Di Adriano ci rimane anche un’invocazione all’anima nel presentimanto della morte, che ci presenta l’aspetto più meditativo della personalità dell’imperatore. E’ un testo giustamente famoso per la sua musicale grazia, tipica dei migliori poetae novelli, all’apparenza facile
, primo annuncio del decadentismo della poesia latina (Adriano 3 Morel p.137= 3 Buechner p. 170):
Animula vagula blandula
hospes comesque corporis,