Armare il Principe: Per un umanesimo militante
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Anteprima del libro
Armare il Principe - Judith Frömmer
guerra
I. L’umanesimo machiavelliano (e machiavellico)
Niccolò Machiavelli non è passato alla storia come umanista. Al contrario, è opinione comune che la stagione dell’umanesimo italiano si concluda proprio con l’opera del Segretario fiorentino, tanto in un senso ideologico, quanto storico. [1] L’esclusione di Machiavelli dal canone umanistico non è attribuibile unicamente all’uso quasi esclusivo del volgare nelle sue opere, ovvero al suo automatico inserimento in quella tradizione volgare, [2] che, per esempio, Carlo Dionisotti nel suo famoso Discorso sull’umanesimo italiano distingue nettamente da quella umanistica latina. [3] In effetti, la ‘questione della lingua’ nel caso di Machiavelli, va posta anche su di un livello diverso da quello prettamente linguistico. Piuttosto i suoi testi osavano, in un modo finora inaudito, «del male [...] dire bene», come Machiavelli scrive nell’ottavo capitolo del Principe. [4] I suoi scritti dovevano cioè dare uno schiaffo morale al movimento umanistico e agli ideali politici da esso tramandati, in particolare quelli concernenti la tradizionale rappresentazione del principe fondata sulla distinzione categoriale fra potere legittimo e tirannia. [5] Insomma, il rapporto tra Machiavelli e l’umanesimo si sarebbe contraddistinto per il suo carattere dialettico e polemico, ovvero via negationis
. [6] Altrettanto difficile è stato inserire Machiavelli nella tradizione dell’umanesimo civile, i cui esponenti spostano il fuoco del discorso politico dalla figura del principe ai concetti di buon cittadino e di stato ideale, [7] rispetto alla quale il Segretario fiorentino appare una figura controversa. [8] Persino gli studiosi che si concentrano sul «Machiavelli repubblicano» dei Discorsi non possono fingere di non vedere l’abisso che si apre fra il pensiero machiavelliano e gli ideali politici dell’umanesimo quattrocentesco. [9]
Altre volte la rottura di Machiavelli coll’umanesimo è stata messa in relazione con alcuni aspetti della attività cancelleresca svolta in veste di segretario della repubblica fiorentina. [10] La polemica machiavelliana, indirizzata sia contro i suoi precursori umanisti, sia contro i suoi contemporanei risulterebbe dunque dalla tensione tra la sua «lunga esperienza delle cose moderne» e la «continua lezione delle antique», a cui l’Ex-Segretario fiorentino dichiara di attingere nella lettera dedica a Lorenzo de’ Medici. [11] Per Machiavelli l’ingresso in cancelleria sarebbe stato certamente impossibile senza la sua educazione umanistica. [12] Ciononostante alcuni studiosi hanno voluto contrapporre la pratica cancelleresca del Segretario fiorentino a una tradizione filosofico-politica umanistica, basata su una pura speculazione teoretica e incentrata particolarmente su una dottrina (cosiddetta) classica dello stato, all’interno della quale si delineerebbe la figura di un principe ideale distante dalla realtà contemporanea. [13] Eppure anche la maggioranza degli umanisti aveva ricoperto incarichi e uffici pubblici, di solito pedagogici o amministrativi, e intellettuali e letterati indipendenti come Petrarca o Boccaccio erano l’eccezione e non la regola. [14]
A prescindere dalle conclusioni specifiche, una tale opposizione fra Machiavelli e il movimento umanistico si fonda, implicitamente o esplicitamente, su una concezione ideologica dell’umanesimo che interessa per il suo contenuto e i suoi ideali pedagogici. Particolarmente nella cultura accademica tedesca, la nozione di umanesimo è tuttora condizionata dalla tradizione ottocentesca che rischia di essere anacronistica quando è riferita all’umanesimo effettivamente coltivato nei comuni italiani del Rinascimento. [15] Inoltre, i tentativi di collocare Machiavelli all’interno, oppure contro la tradizione umanistica, messi in atto dalla cosiddetta Scuola di Cambridge e da taluni esponenti della critica francese, sono il frutto d’una visione proto-democratica dell’umanesimo, [16] cui, naturalmente, un’opera come Il Principe non si adatta facilmente. Le fastidiose verità che questo «opusculo De principatibus» rivela spietatamente riguardo al ruolo della violenza, dell’astuzia e dell’inganno nella pratica politica, e ancor di più la rivelazione della storicità dell’agire politico, che è indissolubile dal proprio contesto, sembrano una polemica aperta contro certi ideali atemporali dello stato e della politica che richiamano piuttosto valori umanistici
universali.
Se si vogliono rintracciare i legami del Principe con gli ideali dell’umanesimo, si deve perciò fare ricorso a una lettura articolata, che consenta di ricostruire il fitto tessuto di significati del testo machiavelliano, come ad esempio i suoi aspetti di satira politica. [17] Oppure, come ha fatto Rousseau, va sottolineato il carattere equivoco e mascherato del Principe, quale manuale solo apparentemente dedicato all’educazione del sovrano, ma in realtà inteso ad insegnare al popolo a liberarsi dal potere tirannico. [18] Simili raffinatezze ermeneutiche, d’altronde, avevano caratterizzato già i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, pubblicati nel 1612. Quest’opera satirica ci presenta un Machiavelli davanti a un tribunale immaginario, arrestato in una biblioteca (topos umanistico per eccellenza) e quindi condannato a morte per essere stato trovato nella notte a munire di denti aguzzi le bocche delle pecore (usando la nota allegoria del popolo/pecora):
Grandemente si commossero i giudici a queste parole, e parea che trattassero di rivocar la sentenza, quando l’avvocato fiscale fece saper loro che il Macchiavelli per gli abbominevoli ed esecrandi precetti che si leggevano negli scritti suoi, così meritamente era stato condannato, come di nuovo severamente doveva essere punito per esser di notte stato trovato in una mandra di pecore, alle quali s’ingegnava di accomodare in bocca i denti posticci di cane, con evidente pericolo che si disertasse la razza de’ pecorai, persone tanto necessarie in questo mondo, i quali indecente e fastidiosa cosa era che a quello scellerato fossero posti in pericolo di convenirli mettersi il petto a botta e la manopola di ferro, quando avessero voluto munger le pecore loro o tosarle. [19]
La satira di Boccalini, nel linguaggio di questo tribunale letterario, trovava la sua espressione pittorica nell’immagine dei denti di cane. [20] Ma l’ironia rivolta verso il personaggio di un