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Cristalli Aetirial: Il destino, Il fato e la forza dell animo
Cristalli Aetirial: Il destino, Il fato e la forza dell animo
Cristalli Aetirial: Il destino, Il fato e la forza dell animo
E-book386 pagine5 ore

Cristalli Aetirial: Il destino, Il fato e la forza dell animo

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Info su questo ebook

Fin dall'alba dei tempi. Entità bellamente evanescenti veleggiavano sulla suprema estasi d’esser vanitose custodi di poteri in grado di cambiare l’esser nella sua vita terra. 
Non essendo possibile chiamarle, le civiltà livyatan del passato, le raffigurarono nel corso di centinaia di anni attraverso un roseo anagramma quella del “Destino” e rosso quella del “Fato”.
Benché non si siano mai fisicamente manifestate nel corso degli eventi, ebbero comunque, secondo gli anziani livyatan, una forma d’influenza nell'operato quotidiano: una brezza mattutina poteva esser la manifestazione del Destino e una burrasca d’aria quella del Fato. Una carezza di una compagna poteva esser dettata dal Destino e un passionale bacio dal Fato. Due Entità essenziali e complementari. Talvolta congiunte. E il loro cooperare fu tramandato con il colore purpureo nelle leggende. 
L’equilibrio e la sovranità delle creature terrene sembravano scandite dal loro costante cedere il passo, l’una l’altra, senza mai proliferare in uno scontro o predominio.
Tuttavia un giorno, una di Esse propose una sfida per rallegrarsi. E dopo aver sigillato un comune accordo, decisero di donare uno dei propri tratti a una creatura prescelta, rendendola arbitraria di modificare il costante declino dei piccoli abitanti terreni. Ma il temporaneo dono si trasformò in un gioco. Il gioco crebbe in un’ossessione. L’ossessione placò la noia. E non ebbe più fine. 
La costante del vivere: l’amore e i ricordi. Si distrussero. Attraverso il loro incessante intervento pur di decretare quale sia la predominante in quel preciso squarcio di tempo.
Iniziarono. A loro insaputa. A incrinarsi verso una distorsione temporale: il vegliare divenne sempre più giocoso e padronale. Finché' un giorno, esattamente nel trecento trentanovesimo anno dopo la morte di Ahura Theli, nacquero tre bambine dai capelli color argento, oro e cenere…
LinguaItaliano
Data di uscita9 feb 2019
ISBN9788832512533
Cristalli Aetirial: Il destino, Il fato e la forza dell animo

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    Anteprima del libro

    Cristalli Aetirial - Enrico Fortuna

    alba

    Atto I

    L’ho incontrata.

    Unica nel suo genere.

    Tanto da volergli regalare,

    quella gioia di vivere,

    poiché non posso rimanere fermo

    nel vederla sgualcire,

    mentre viene sconfitta

    da un indegno avvenire.

    L’ho studiata.

    Per riaver indietro quel sorriso,

    arrivando perfino a scrivere

    un qualcosa non di mio;

    forse dettato dal voler divino,

    o forse da un desiderio egoistico,

    ritrovandomi cosi sospinto,

    ad ammirare quell’alba

    con la prospettiva

    di veder un raggio di sole,

    che dipinga il mio animo,

    del suo sol colore.

    L’ho intravista.

    Nello sguardo severo

    e privo di rimprovero.

    Nel coraggio di saltare

    e cedere il posto.

    Nel sorridere,

    a un sentimento non corrisposto.

    Ma ti posso assicurare,

    che c’è del buio in questo racconto,

    in qualche angolo remoto,

    in attesa di perdono.

    L’ho rivista.

    Nel ridere e cantare,

    proprio dove Ella risplende,

    toccando l’apice.

    E quando la vedi così in alto,

    legittimi la forza nel aver provato,

    anche se un fallimento sembrava chiaro,

    prima che iniziasse con un saluto,

    che ha creato in me,

    un atrio di ricordi senza eguali

    succinto da attimi indimenticabili.

    L’ho immaginata.

    Con parole d’amore e sofferenza,

    congiunte a quelle di potere e speranza;

    spero di esser stato bravo,

    a non trascendere nell’odio:

    un sentimento che non ti fa più rialzare,

    se non con una carezza d’amore,

    dal potere primordiale,

    che non ricordo più dove si possa trovare.

    L’ho scritta.

    Senza epocali battaglie

    o altrettanti cruenti scontri;

    non ho voglia di raccontare

    di tali efferati affronti.

    Posso però dirti.

    Che questa via non manca di relitti:

    molti cieli ultimamente diventano grigi,

    per poi esser schiariti dal coraggio di eroi periti.

    L’ho descritta.

    Parlando di vite.

    che il Destino e il Fato hanno adottato.

    In cerca di virtù o prive di significato.

    E nel tentare di ben argomentare,

    mi scuso anzitempo,

    del mio stonato cantare.

    Note

    Buona lettura.

    Prologo

    Fin dall’alba dei tempi. Entità bellamente evanescenti veleggiavano sulla suprema estasi d’esser vanitose custodi di poteri in grado di cambiare l’esser nella sua vita terra.

    Non essendo possibile chiamarle, le civiltà livyatan del passato, le raffigurarono nel corso di centinaia di anni attraverso un roseo anagramma quella del Destino e rosso quella del Fato.

    Benché non si siano mai fisicamente manifestate nel corso degli eventi, ebbero comunque, secondo gli Anziani livyatan, una forma d’influenza nell’operato quotidiano; una brezza mattutina poteva esser la manifestazione del Destino e una burrasca d’aria quella del Fato. Una carezza di una compagna poteva esser dettata dal Destino e un passionale bacio dal Fato. Due Entità essenziali e complementari. Talvolta congiunte. E il loro cooperare fu tramandato con il colore purpureo nelle leggende.

    L’equilibrio e la sovranità delle creature terrene sembravano scandite dal loro costante cedere il passo, l’una l’altra, senza mai proliferare in uno scontro o predominio.

    Finché un giorno, una di Esse, presa dall’eterna noia propose una sfida per rallegrarsi. E dopo aver sigillato un comune accordo, decisero di donare uno dei propri tratti a una creatura prescelta, rendendola arbitraria di modificare il costante declino dei piccoli abitanti terreni. Ma il temporaneo dono si trasformò in un gioco. Il gioco crebbe in un’ossessione. L’ossessione placò la noia. E non ebbe più fine.

    La costante del vivere: l’amore e i ricordi. Si distrussero attraverso il loro incessante intervento pur di decretare quale sia la predominante in quel preciso squarcio di tempo.

    Iniziarono. A loro insaputa. A incrinarsi verso una distorsione temporale: il vegliare divenne sempre più giocoso e padronale. Tuttavia. Un giorno, esattamente nel trecento trentanovesimo anno dopo la morte di Ahura Theli, nacquero tre bambine dai capelli color argento, oro e cenere…

    Parodo

    «Ricordo quel volto.» disse sospirando il vecchio livyatan Merioth ammirando con sguardo fiero il primo, piccolo, a tratti impolverato, quadro appeso alle grandi mura della sua tenuta.

    Il tempo non gli aveva sorriso. Gli anni flessero la sua schiena. La sua pelle divenne floscia e le mani, non erano più in grado di stringere una qualsiasi elsa. Alzò lentamente il braccio cercando di distogliere quella polvere che offuscava il suo orgoglioso ricordo: il primo Re livyatan Muriles. Raffigurato con la sua maestosa armatura di placche dorate. Finemente ornata da delicate effigi raffiguranti il gambo di due rose simmetriche che si attorcigliavano per sbocciare tra spalla e petto. Sia l’arma sia l’armatura s’intonava con i suoi biondi capelli, così lunghi, da coprire la convergenza delle scapole. E in testa. Risplendeva l’emblema dell’aura livyatan: la corona con un rubino dalla forma di una pupilla di un vecchio drago che nel suo cromato risplendere, rifletteva il trono adiacente.

    La mano di Merioth si spostò lentamente sul secondo quadro. «Ho combattuto quella battaglia.» e il bastone iniziò a tremare. Un sentimento di paura e coraggio rintoccava nel suo cuore lento e placido. La furia di un cielo in collera, completamente privo del suo manto celeste e infestato da nubi impregni di oscurità ove il vento soffiava forte, quasi a voler trascinar l’odore dei morti sul campo di battaglia e la pioggia che scendeva irruente quasi a voler lavare il sangue dalle spade. A calmare queste velleità, vi era un fascio di luce che squarciava l’oscurità. E al suo interno una spada a due mani, il cui pomolo era scolpito a forma di rosa; l’impugnatura rivestita di pelle bagnata d’argento e la guardia sbocciava in due rose identiche. Infine la lama, completamente dorata, con incisa una frase livyatan che nella lingua comune recita: Il dono di tre rose. Una per la giustizia, una per la pace e una per la morte.

    Si narra che questa spada presente nel dipinto, cadde dal cielo, durante la battaglia tra livyatan e umani per il dominio territoriale di Dimora di Luce, proprio nel cuore dello scontro tra il livyatan Muriles e il condottiero umano Cristian.

    Muriles la afferrò per primo e la usò più volte dopo quella battaglia finché non conquistò l’intero continente, ignaro di cosa richiedesse come controparte. Sconfisse fino all’ultima accozzaglia di umani che osava ribellarsi al predestinato, all’eletto dei cieli per governare Dimora di Luce.

    Dopo ogni scintilla scoccata dalla spada dalle tre rose, Muriles divenne sempre più debole; la sua salute cedette e la lucidità svanì in un lontano ricordo.

    «Riuscii a fermarlo in tempo.» disse il vecchio Merioth tremando e colpendo il quadro inavvertitamente. Fu proprio egli. All’epoca braccio destro di Muriles a convincerlo nel depositare la spada e seppellirla in un sarcofago come ringraziamento verso le Essenze per quell’infausto dono. Tornò alla luce ma il suo corpo rimase irrimediabilmente corrotto. Il suo viso, osannato dai bardi nelle più candide canzoni, mutò in lacerazioni come se del rovente ferro si fosse appena adagiato su di esso. Il suo corpo, cosparso d’aberrazioni, lo costrinse ad abbandonare l’osannata armatura. E nonostante la malattia infervorasse nel suo cuore. Si aggrappò al trono di cristallo pur di non volerlo cedere in età troppo malleabile, all’infante erede di una sorella priva di senno.

    Tre volte si sentii bussare alla porta. Nonostante l’eco che l’enorme tenuta produceva, il vecchio Merioth non ne percepì alcuno. Si perse nei suoi tristi ricordi e, quel lamento funebre, tuonò nella sua mente come se non volesse lasciarlo solo, ma una livyatan detentrice di una fresca bellezza e dei capelli argentati e occhi azzurri come il più bel cielo di mezz’estate, si espresse con una voce delicata, quasi a non volerlo risvegliare. Merioth non la vide. Nonostante la vicinanza. Ella appoggiò la mano sulla sua spalla tanto da farlo sussultare. «Evocatore Merioth.» ripeté la ragazza mostrando un profondo rispetto. Il vecchio si voltò leggermente. Fissò il volto della ragazza e  la riconobbe a stento.

    «Sono io, Eleanor.» si presentò a malincuore.

    «Oh, siete voi.» ribadì balbettando.

    «Vi è caduto un quadro, maestro?» si chinò per raccogliere i frammenti della cornice.

    «Lasciatelo stare bambina mia.» Merioth si avviò verso il camino, quasi come voler cercare del calore. Sentiva molto freddo nel cuore.

    Eleanor lo accompagnò in una delle due poltrone che emanavano un odore di nauseante muffa. Non sapeva se era più soave uscire e lasciarlo solo nei suoi più remoti pensieri, oppure tentar di decifrarli, anche se era conscia che nemmeno i saggi avevano accesso nella mente di un così anziano e vissuto livyatan.

    Rimase per qualche tempo. In piedi. Aspettando un invito. Infine decise di sedersi nella poltrona adiacente. L’affetto che provava verso Merioth, gli impedì d’ignorare quella situazione di disagio. Nessuno dei due elargì alcuna parola. L’imbarazzo nel volto di Eleanor e la tristezza in quello di Merioth, si raggelarono finché la ragazza non notò che il suo viso era umido. Come se una lacrima fosse scivolata fino ad arrivar all’altezza del mento, lasciando una scia percettibile.

    «Evocatore Merioth. Che cosa vi è successo?»

    «Fulgidi ricordi di un’Era passata.» rispose il vecchio e continuò «Vi serviva qualcosa?»

    «Sono corsa qui.» il vecchio la interruppe tornando lucido. «Ah sì, vi avevo chiesto di quel liunrel.» Eleanor si adagiò sulla poltrona dopo aver sciolto la tensione e incrociò le braccia. «Possiede la mia stessa età ma non capisco le sue gesta. Si ostina a rimanere nella vostra casa di paglia senza muoversi.»

    «E’ difficile crescere senza conoscere la propria stirpe. Bambina mia.»

    «Da piccolo non era così. Tutti inseguivano il suo passo. Era così vivace da esser messo in punizione un giorno sì e l’altro no.»

    «L’incoscienza della gioventù svanisce nella razionalità della crescita.» Merioth accennò un sorriso.

    «Voglio soltanto che si svegli. Riposa in quella casa da immemore tempo. Adornato da quei libri dove vi sono scritte figure ambigue.»

    «Un libro non ha il potere di cambiare gli eventi, tuttavia può esser utile ad aprire la mente verso orizzonti occlusi.»

    «Anche se essa mormora di Dei sconosciuti?! Esiliati?! E per giunta perseguitati dal credo comune?!»

    «Non mi preoccuperei di questo, le leggi cambiano. Quello che un giorno è ritenuto illegale, un altro non lo è più. Tutto gira attorno nel riuscir a provare la benevolenza dell’ideale. Anche i cristalli, tempo fa, venivano perseguitati.»

    «Ne parlate con ammirazione. Che cosa sapete di eventi?»

    «Non disprezzare, non vuol dire ammirare. Sono solo affascinanti letture di popoli antichi, troppo in fretta dimenticati. A proposito. Una volta ho letto una scrittura di vostro padre, non molto tempo fa. Si mormora che il ragazzo abbia delle doti straordinarie. Peccato che non brilli nello studio. Non ricordo nessuno rimanere nel grado d’infante a quell’età. E’ un titolo di transazione, consegnato agli emarginati, per non farli sentire tali.»

    «Non ama l’accademia, la società, la vita e tutto ciò che ne deriva. Non so più che cosa fare maestro.»

    «Ciò che fa ardere il cuore è l’avere un sentimento costante che lo alimenti. Il principio di non possedere nulla, appartener a niente ed esser infine nessuno, porta solo all’oblio. Cercate di capire ciò che lo attrae. Assecondatelo. E vedrete che tornerà a guardarvi.»

    «N-Non che debba per forza guardarmi…mi basterebbe vederlo felice!»

    «I liunrel non godono d’ottima reputazione. Sono il primo a non esprimere pregiudizi e nel dire che ogni persona è fine a se stessa. Ma vedete, bambina mia, un’Era di pace è molto complessa. In guerra si possiede povertà e si ha un obiettivo, oltre che un nemico comune. Non si ha tempo di elargire pregiudizi e sentenze. Non importa di quale fede sia quello alla vostra destra, basta che sia coperta. Invece in pace bisogna trovare un proprio equilibrio. Si ha tempo per riflettere perché nessuno osa bruciare la vostra casa di paglia in preda a un istinto primordiale.» un forte scroscio provocato dalla legna che stava ardendo nel camino interruppe il vecchio. «Dovete aver chiara la prospettiva.» Merioth aumentò l’incidenza delle parole. «Che nessuno merita di esser lasciato solo. Neanche un assassino muore alla gogna in solitudine.»

    «La prossima volta gli tirerò i capelli! Vedrete come mi seguirà!» Eleanor mimò la scena. «Con tutta quella forza di volontà che possedete, bambina mia, non dovreste temer nulla.» Merioth sorrise. «Non v’è miglior cura di un sorriso per dissipare una parvenza d’oblio. Come si chiama quel liunrel?»

    «Eric è il suo nome.» rispose Eleanor.

    «E’ un nome umano? Lo trovo atipico e per nulla altisonante e di così breve scrittura.» ribatté Merioth.

    «In verità. E’ un nome che gli ha donato la mia famiglia quando lo trovarono davanti al cancello della tenuta.»

    «Siete ancora una così bambina ai miei vecchi occhi ma già è arrivato il tempo in cui pensate a qualcuno. E qualcuno pensa a voi. Ho saputo che un livyatan di distinta stirpe si è concesso il permesso di chiedervi la mano.»

    Merioth afferrò il bastone e si alzò dalla poltrona. Eleanor allungò le mani, con solita premura, per accompagnarlo.

    «Vi dovrei indicare la via più semplice. Di lasciar in pace quel liunrel per seguire la strada maestra ma sono convinto che se il primo Re livyatan Muriles avesse scelto cosi, ora non vi sarebbe la pace da diversi anni a questa parte.»

    «Ne sono certa anch’io, maestro. Le vostre parole significano molto per me. E’ un peccato per quel bel quadro».

    «Certe cose sono meglio non rimembrarle, bambina mia.»

    «Non v’è bisogno che mi accompagnate all’uscita!»

    «Vorreste negare a un povero vecchio, una passeggiata a braccio a braccio, con una così bella fanciulla?»

    Entrambi sorrisero e scesero la sontuosa rampa di scale che convergeva all’ingresso della tenuta. Il vecchio urlò «Fidel! Vieni qua!»

    Arrivò di corsa un garzante: magro e dall’aspetto un po’ sciupato. «Eccomi, sua maestà.» e s’inchinò.

    «Fidel! Non vedo nessun Re in questa tenuta. Piuttosto. Accompagnate Eleanor fino alla sua!»

    «Non ve n’è alcun bisogno, maestro. Posso andare da sola.»

    «Non manderei neanche l’ultimo dei miei garzoni da solo, e per giunta di notte, figuratevi voi.» le replicò Merioth non ammettendo nessuna risposta.

    L'oscurità era avanzata da qualche tempo. La strada da percorrere fino alla sua tenuta era breva ma priva di una qualsiasi luce lungo il cammino. Benché non vi fossero segnalate alcune attività pericolose, l’oscurità riempie anche il più coraggioso cuore di una velata paura. Paura, di cui Eleanor, dettata forse dall’innata genuinità, non ne fu mai vittima.

    Saranno ormai passati cento anni dall’ultima minaccia. Le vie erano diventante sicure, le città affollate e le persone arricchite. La paura verso l’ignoto venne a mancare. La nuova stirpe sembrava non temere nulla, se non lo specchio di se stessa.

    Scia d’argento

    Quella mattina, Eleanor Tùnviel, si alzò alle prime luci dell’alba. Il fragore dell’aria e il bagliore intenso dell’ascesa della primavera la spinsero verso la maestosa finestra della sua camera. La aprì con forza, facendola battere ai lati, per sporgersi al balcone, bellamente abbracciato da una rigogliosa wisteria sinensis: una pianta vigorosa, robusta e violacea che si era arrampicata nel lato est della tenuta.

    Compì un profondo respiro in modo da catturarne il suo più forte aroma e gettò uno sguardo verso l’orizzonte tinteggiato di rosso ma sfumato da un velato azzurro che voleva prevalere per annunciare il nuovo giorno. Percepì una leggera e fredda brezza sfiorarle i capelli e tanto bastò per farli ondeggiare. Quest’insieme di sfumature donò a Eleanor la sensazione di poter fuggire da questo mondo e accarezzarne l’essenza di un altro ancora sconosciuto.

    Era usanza livyatan rendere omaggio l’arrivo del giorno con un inchino, un pensiero o una canzone, ma delle volte poteva bastare anche un battito forte del cuore; era considerato fortunato chi, in passato tempo di guerra, sopravvivesse alla notte per arrivar ad ammirare l’alba del giorno successivo.

    Così gridò: «Benvenuto giorno!» distendendo il corpo, in modo non proprio egregio per una giovane nobile donna. Una voce in lontananza arrivò a sollecitare le ricurve orecchie livyatan: «Signorina, siete sveglia?»

    «Entrate pure Margherita!» rispose senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte.

    Margherita era un’umana robusta dotata di possenti braccia ma di un’altezza minuta rispetto alla sua compagine. Vestiva il solito abito da serva in tinta unica che sfociava in una lunga amplia gonna e alla vita portava un grembiule. Il suo unico compito, non banale, era di badare la sua vivacità.

    «Quante volte vi ho pregato di non affacciarvi con la sola vestaglia. Potete ammalarvi cosi facilmente.»

    «Guardate! Guardate Margherita! Che stupenda stella sta nascendo oggi!»

    «Sì. Signorina. Suvvia. Venite dentro e soprattutto vi prego di vestirvi!» Margherita rovistò nell’armadio cercando il più opportuno abito per il giorno corrente. Prese tre lunghe vesti e le adagiò nel letto. La verde, raffigurava il color preferito di Eleanor. La bianca, s’intonava con i suoi capelli argentati. E l’azzurra, rifletteva i suoi occhi. Eleanor prese una rincorsa e schizzò dal balcone fino a sopra il letto. Si distese maldestramente sopra i vestiti in precedenza levigati.

    «Fate attenzione signorina! Così potete farvi del male! Una nobile non si agita per nessun motivo.»

    «Quanto siete pignola!» le sorrise.

    «Scegliete pure l’abito odierno, così posso aiutarvi nel vestire e pettinare.»

    «Non sono mica una bambina.» ribatté Eleanor. Scelse senza soffermarsi il vestito che gli era sotto il ventre: il bianco. E lo indossò in fretta e furia. Margherita assaporò la scena e non la interruppe mentre era in vestizione. E nell’osservarla, accennò un lieve sorriso. «Signorina. La vestaglia da notte dovrebbe essere tolta prima di indossare l’abito.»

    «Ah. Già!» Eleanor si diede un colpetto in testa.

    «Venite, signorina. Vi aiuto a togliervelo.»

    La gradevole luce del sorgere di un nuovo giorno aveva illuminato la camera di Eleanor, la quale, si stava accingendo a  indossare il suo abito da passeggio. «Sedetevi, signorina. Vi sistemo i capelli.»

    Eleanor si adagiò nell’accurato sgabello davanti allo specchio. La domestica si mise alle sue spalle e prese la spazzola più grande. Iniziò un movimento calmo per addolcire i suoi lunghi e spettinati capelli.

    «Ieri sono andata a trovare l’Evocatore Merioth.»

    «Ho visto che siete tornata a notte fonda. Fate tanto preoccupare tutti noi. Delle volte è davvero impossibile tenere il vostro passo.»

    «Mi sono fermata più del dovuto, sembrava assopito. Mi ha fatto impensierire!»

    «Dalla morte del primo Re livyatan non è più se stesso. La Grande Guerra l’aveva reso famoso. Si mormorava possedesse uno dei più potenti cristalli del tempo. Purtroppo, vederlo cosi, in quel pessimo stato in cui versa e con la sola difficoltà nel volersi alzare, posso realmente credere che sia stata dura per un livyatan così orgoglioso perdere il suo amico di tante battaglie.» Margherita cambiò spazzola e aggiunse «Ci sono ferite a questo mondo che non possono esser curate neanche dai cristalli, soprattutto quelle che colpiscono il cuore.»

    «Credo invece che tutto si possa curare! Se solo riuscisse a intravedere una prospettiva, un qualche obiettivo, potrebbe riaccendere lo splendore di un tempo! Non siete d’accordo?» Eleanor si girò per guardarla.

    «Beata giovinezza.» sospirò Margherita. «Signorina. Guardate lo specchio per favore, o rischiate di arrivar tardi per la colazione.» la badante arricciò il naso ed Eleanor tornò in posa.

    «A proposito di ferite, parlavate dell’Evocatore Merioth o di quel giovane liunrel? Entrambi sono soggetti ambigui. Ah, perdonamenti, se mi permetto d’ammonirvi, ma farsi trasportate dalla passione o compassione è pericoloso. Non è qualcosa cui siete abituata. Non è qualcosa che potete controllare senza esserne bruciati.»

    «Non capisco perché dobbiate parlar di Eric in quel modo!»

    «I liunrel sono pericolosi per natura, un’indole instabile e incrollabile.»

    «Sono solo pregiudizi! Non è mai successo nulla fin da bambini. Chi muove accuse, non possiede certezze! Anche mio padre che disapprova ogni mia scelta, non ha mai elargito nessuna sentenza nei suoi confronti e anzi, l’ha tenuto sempre sotto la nostra protezione. Vorrei solo riuscir ad aiutare chi non possiede la mia fortuna.»

    «E’ molto lodevole da parte vostra.»

    «Vorrei anche un’enorme carrozza. E anche tanti piccoli livyatan. E uno di quei stupendi dolci umani che sapete fare così bene!»

    «Sono sicura che avrete dalla vostra vita di tutto e di più. La vostra bontà sarà sicuramente premiata. Il dio livyatan vi donerà tutto ciò che desiderate: una famiglia, un buon marito e una longeva vita. Ora potete andare. La colazione dovrebbe esser già pronta. C’è una sorpresa di sotto, anche se vostra madre mi ha redarguito di non farli, vi ho comunque preparato i vostri dolci preferiti. Almeno un desiderio lo esaudiamo subito.» Margherita si diresse verso il letto disfatto, conscia di dover riordinare la stanza. Eleanor la abbracciò e uscì. Percorse le grandi  scalinate di marmo fino al pian terreno dov’era situata la sala ricevimenti e quella del ristoro.

    L’intera tenuta era rivestita di un bianco candido, sia all’interno sia all’esterno, un colore simbolico di sfarzo nella cultura livyatan. E quadri, con cornici argentate rappresentanti grandi condottieri livyatan, addobbavano il muro in entrambi i lati; uno dei quali raffigurava l’Evocatore Merioth e il defunto Re Muriles.

    «Quante volte vi ho detto di non correre!» gridò Niass Tùnviel, madre di Eleanor e signora della tenuta.

    «Tante e tante volte! E nessuno vi servirà a fermarmi!»

    «Non rispondete così a vostra madre! Non vi dovete permettere! Porta rispetto alla famiglia almeno, ma sono a conoscenza del perché siete così impertinente. Sono le vostre amicizie. Quella gentaglia che frequentate, in primo quello straccione liunrel.» 

    «Ogni miseria che si abbatte su questa casa è colpa di Eric. Quando un giorno aprirete gli occhi e vi accorgerete che il mondo non è tutto bianco e nero. Allora, e solo allora, vi sforzerete di non considerarlo un portatore di sventura.»

    Eleanor si sedette a capo tavola e per dispetto, in un posto non di suo possesso. La stanza reggeva un grande candelabro, formato da trenta lumi che si accendevano al semplice battito delle mani e una grande tavola da pranzo ornata da rose blu, con ben quattordici siede alte almeno fino al petto di un uomo e della consistenza del maestoso abete originario della regione Baliur. Adagiata sulla tavola, su dei piatti d’argento, era servita la colazione: una fetta di pane di prima scelta, quattro dei più prelibati frutti della regione e in altre ciotole si celavano i biscotti fatti da Margherita.

    «Non conoscete lo sforzo che compiamo ogni giorno per portarvi questi frutti in tavola. Per questo, vi ostinate a mangiare quei pessimi biscotti impastati dalla badante a tempo perso. L’avevo avvertita di non farli più. Nessuno sembra ascoltarmi in questa tenuta!»

    «Sono buoni invece!» esclamò Eleanor a bocca piena mentre stava afferrando un biscotto dietro l’altro.

    «Cercate di avere un minimo di grazia. Non siete la figlia dello stalliere, del fabbro, del tessitore o del pescatore. Siete mia figlia. Almeno questa dote dovreste averla ereditata. L’essere accorti è un simbolo di educazione verso chi siede con voi. Almeno in mia presenza!»

    Eleanor l’accontentò. Allineò subito i piedi. Raddrizzò la schiena. E tolse i gomiti dalla tavola rispettando di punto, ciò che aveva appreso nei rari momenti di attenzione. «E mangiate anche i frutti. Non dovete lasciar nulla. Non osate almeno sprecare il cibo.» Niass si portò una mano al mento come voler regger la testa per l’assurdità che stava per chiedere. «Andrete anche oggi da quello straccione?» Eleanor reagì alla domanda prendendo con un pugno tutti i frutti e li mandò giù con un sol colpo glissando la risposta. «Sono asperrimi! Perché devo soffrire ogni mattina per colpa del Rhiuls? Non è possibile! Il suo forte odore arriva dalla bocca fino al naso senza preavviso! Inoltre mi crea un gran prurito alle mani!»

    «Rispondimi.»

    «A cosa?»

    «Sai bene cosa!»

    «No. Non lo so!»

    «Non fingete con me!»

    «Non potete ripetere?»

    «Non fate la sciocca con me! Ora basta! Non siete più una bambina! Ditemi dove andrete!» Niass batté un pugno sul tavolo.

    «Non è affare vostro!» Eleanor gettò via la fetta di pane e corse fuori dalla stanza. Attraversò l’ingresso spalancando il portone, uscendo così dalla tenuta. Continuò a correre senza scorgere l’orizzonte, oltre la lunghezza di tutta la tenuta. Non si voltò nemmeno una volta.

    Si fermò lungo la strada battuta che collegava la sua tenuta con quella dell’Evocatore Merioth. Portò le mani ai fianchi e cercò, con un lungo respiro, di riportar pace in un cuore in perenne subbuglio. «Che corsa! Ormai non posso più tornare indietro. Avrei almeno dovuto portarmi Goccia di Luna. Lei non mi tradisce mai. Lei mi vuole sempre bene. Già mi manca la sua dolce criniera.» Eleanor si voltò verso la tenuta. Sembrava rammarica per l’accaduto.

    Vi erano tre modi per muoversi all’intero di Dimora di Luce. Cavalcare o attendere l’arrivo di una nave volante che si fermavano in ognuna delle sei grandi città di Nuril e in aggiunta a metà percorso tra una e l’altra; oppure il metodo più lento e anche l’unico alla portata di Eleanor, quello di mettere i piedi ben fermi sulla strada, affrettando un passo dietro l’altro.

    La stella Tähti non si trovava ancora a metà del suo percorso, ma il suo intenso calore penetrò comunque tra i capelli argentati della splendida livyatan. Le pianure della regione di Nuril erano famigerate come le terre più prosperose e rigogliose di tutta Dimora di Luce. L’esaltazione dei vivaci colori che tinteggiavano l’immensa distesa fu donata dalle piante di frumento, mais e girasoli. E grazie alla carezza del vento del sud portava con sé un clima caldo non umido tanto da render possibile la raccolta degli otto basilari ortaggi usati nelle cucine livyatan.

    Mercanti di tutto il continente si recavano ivi, muniti di carro, per strappar il miglior prezzo ai contadini umani che seminavano i propri raccolti per pagare le tasse al proprietario terriero livyatan. Dopo la sconfitta nella Grande Guerra e la conseguente confisca delle proprietà, non tutti abbandonarono le proprie terre per andare nel gelido continente del Baliur, il luogo consigliato di esilio dal primo Re livyatan. Alcuni decisero di non emigrare, mossi anche solo dall’orgoglio di poter lavorare le proprie terre anche se da schiavi.

    Dalla sacra scrittura di Ahura Theli: "Tutto ciò che partorisce una guerra non è mai giusto ed equo. L’impeto e l’orgoglio vi trascinano in essa, ma il dolore e la povertà vi riportano indietro con altrettanta precocità."

    Eleanor proseguì con passo svelto ma si fermò a un bivio con un cartello che indicava due strade: nord-est Tenuta Miass e nord-ovest villaggio di Telos . Verso sud-ovest, priva di alcuna indicazione, vi era un passaggio stretto e dissestato da avvallamenti e buche, tanto esaltate, da non poter esser percorse dai carri. In direzione di quest’ultima, si scorgeva una piccola casa in pietra con il tetto coperto di paglia. Eleanor gioii quando la vide e come una freccia scoccata da un arco, iniziò a correre saltando le impervie buche. Irruppe nel piccolo cortile spaventando gli animali che giacevano e gridò: «Sono arrivata!» con impeto tirò la maniglia di una porta denigrata da lunghe crepe. Purtroppo invece di spalancarsi, cadde rovinosamente provocando un gran frastuono e alzando una vasta nube di polvere. Si portò una mano al viso, coprendo la bocca e distogliendo lo sguardo, chiuse gli occhi per evitar che la polvere li sfiorasse. Tossì più volte per aver respirato quell’odore intenso di marcio provenire dall’interno.  Lentamente dischiuse gli occhi, ma non riuscì a distinguerne la differenza, vista l’immensa oscurità che aleggiava all’interno. Non distolse la mano dalla bocca e con l’altra afferrò un bastone di legno. Cercò di portare una fioca luce, agitandolo con forza e spostando la paglia che era adagiata su dei fini assi di legno. Eleanor insistette a scostarne alcuno e una scia luminosa squarciò la tetra casa.

    Dalla sacra scrittura di Ahura Theli: "Osservando la luna scendere e il sole sorgere, credo sia in questo momento in cui i nostri avi abbiano inventato la parola amore."

    Poté scorgere un tavolo marcio accostato al muro e

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