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Le correnti del tempo
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Le correnti del tempo
E-book216 pagine2 ore

Le correnti del tempo

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Info su questo ebook

Immagina che il tempo sia un fiume. Le rive potrebbero essere l'insieme degli eventi che accadono nel tempo. Noi siamo immersi nel tempo, siamo dentro il fiume: diciamo su una zattera. E viaggiamo alla stessa velocità del tempo. È il tempo, con il suo scorrere, che ci mostra ogni volta un punto diverso della riva. La riva cambia e così noi capiamo che siamo dentro il fiume, dentro la corrente del tempo.

Elisa ha una fissazione: il viaggio nel tempo. Uno scienziato indiano presenta una nuova teoria che permette la costruzione della macchina del tempo. Ma i risultati non sono quelli attesi: il tempo ha molte correnti.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2019
ISBN9788855070041
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    Anteprima del libro

    Le correnti del tempo - Claudio Signorini

    Narrativa

    Claudio Signorini divide il tempo tra la famiglia, il lavoro e i suoi molteplici interessi: la chitarra acustica fingerstyle, la fisica e la matematica, la fantascienza, il gioco logico, il modellismo e le collezioni.

    Claudio Signorini

    LE CORRENTI DEL TEMPO

    Romanzo

    fingerpicking.net

    Tutti gli accadimenti narrati nel libro sono frutto di fantasia e non sono riconducibili alla vita di nessuno, né dell’autore né di nessun’altra persona, in nessun modo.

    Claudio Signorini

    www.claudiosignorini.com

    © 2019 Fingerpicking.net

    www.fingerpicking.net

    I edizione aprile 2014

    II edizione marzo 2019

    ISBN: 978-88-5507-004-1

    Codice: FNAR009E

    Tutti i diritti riservati

    Dipinto di copertina: Cinzia Praticelli

    Artwork: Luca Francioso

    A Maria, Stefano e Caterina:

    il futuro.

    Prologo: l’esperimento

    (12 giugno 2075)

    Il tempo scorre. Inesorabilmente.

    Viviamo costantemente rivolti verso il futuro: il passato non ci interessa e il presente è solo l’anticamera del domani. E per dare forma all’ignoto fissiamo appuntamenti e scadenze.

    Ma per quanto sia lontano, il giorno stabilito prima o poi arriverà. Non sarai pronto: non si è mai pronti! Il futuro diventa improvvisamente presente.

    Vorresti rimandare, avere più tempo, poter vivere ancora nell’attesa. Invece devi affrontare proprio quel giorno.

    Poi passa e puoi solo raccoglierne i frutti.

    Il nostro ufficio era immerso nel silenzio. Era il -1.47: uno dei tanti nel sotterraneo del Dipartimento di Astrofisica dell’Università de L’Aquila.

    Eravamo seduti alle scrivanie; i computer erano accesi e mostravano tutta una serie di indicatori. Ma non guardavamo i monitor; i nostri occhi erano fissi sull’immagine formata dal proiettore tridimensionale. Per poter vedere più da vicino la mia collega era addirittura riversa sul tavolo, con una gamba ripiegata sotto il corpo a mo’ di cuscino, come solo le donne sanno fare.

    Il proiettore mostrava, in scala uno a quattro, l’interno di un laboratorio situato sotto il Massiccio del Gran Sasso, a quindici chilometri da noi. Al centro dell’immagine c’era la macchina: un cubo di tre metri di lato, rivestito di vetro e racchiuso da una gabbia d’argento.

    All’improvviso la macchina scomparve.

    Non sapevamo cosa aspettarci dall’esperimento, ma la scomparsa momentanea era uno dei risultati possibili.

    Stavamo fermi immobili, quasi senza respirare. L’attesa doveva durare al più un minuto. Passarono i primi trenta secondi, poi cinquanta. Il computer segnalò con un trillo fastidioso lo scadere dei sessanta secondi; allungai una mano sulla tastiera per farlo tacere.

    Non accadeva nulla. Passò ancora un minuto, e un altro ancora...

    La mia collega non riuscì a reggere la tensione: cominciò a singhiozzare.

    Tentai di parlare, volevo dirle qualche parola di conforto, ma lei fu più veloce.

    «Idioti!».

    Mollò un colpo sul tavolo a mano aperta.

    «Siamo degli idioti!».

    Un salto fulmineo e la sedia cadde a terra rumorosamente. La guardavo spaventato.

    «Idioti!».

    Il suo viso era rosso e bianco. Con due passi mi fu davanti, minacciosa.

    «Lo capisci cosa significa questo? Abbiamo fallito! Mesi e mesi di lavoro buttati al vento. Milioni di euro spariti nel nulla. Idioti siamo!».

    Sentivo gocce di saliva sul viso.

    Si voltò di scatto, trascinando a terra un pad. Con due passi fu davanti alla porta, abbassò con violenza la maniglia ed uscì. La porta si richiuse con un colpo secco; uno stipite si schiodò dalla parete.

    E tornò il silenzio.

    Fissavo l’uscita, preoccupato che l’erinni potesse tornare indietro.

    Abbiamo fallito. Ma perché si comporta così?

    Elisa

    (20 maggio 2072)

    Migliaia di copie dello stesso volantino ricoprivano tutte le bacheche dell’Università:

    Conferenza pubblica

    IL VIAGGIO NEL TEMPO

    20 maggio 2072

    16.00 – 18.00

    aula N14

    relatrice: dott.ssa Elisa Fermi

    Gli studenti non avevano gradito l’esagerazione di tanta pubblicità. Molti volantini erano strappati, altri scarabocchiati, diversi contornati da frasi poco complimentose. Ma le decorazioni catturavano gli occhi e il volantino divenne così ancora più visibile.

    Le sedici erano ormai passate da una buona decina di minuti, ma nelle università non si è mai persa l’abitudine del quarto d’ora accademico.

    L’aula era una di quelle a forma di teatro: ciascuna fila era rialzata rispetto a quella antistante di circa mezzo metro. La stanza era completamente rivestita di legno e anche i banchi erano dello stesso materiale: inutile dire che tutti li trovavano estremamente scomodi. C’erano un centinaio di posti a sedere, ma l’aula ospitava solo una trentina di curiosi tra docenti, dottorandi e studenti.

    Non ero particolarmente interessato al tema, ma non avevo niente di meglio da fare. Mi ero accomodato nell’ultima fila, quella più in alto, pronto ad uscirmene se la conferenza non fosse stata interessante. Nell’attesa completavo alcuni calcoli per la tesi.

    L’ingresso della relatrice fu accolto dal solito chiacchiericcio. Sebbene possa denotare una certa mancanza di rispetto, anche questa è una di quelle usanze del mondo accademico che non moriranno mai: prima di fare silenzio si aspetta che il docente si accomodi, prepari gli appunti e, soprattutto, richiami l’ordine.

    Ma la dottoressa Fermi non aveva nulla in mano. Si avvicinò alla cattedra e con un movimento fluido vi si sedette sopra. Era decisamente un atteggiamento poco consono, soprattutto per una dottoranda che di lì a un mese avrebbe presentato la tesi finale: uno dei docenti presenti in sala avrebbe potuto essere nella commissione d’esame.

    Il parlottio cessò di colpo.

    Capelli neri, lunghi, incredibilmente ricci. Non aveva un filo di trucco. Gli occhiali avevano un disegno antiquato: la rendevano anacronistica ancora più dei blue-jeans e della camicia a fiori. Spiccavano le scarpe, di vernice rossa.

    «Buona sera a tutti. Vi ringrazio fin da subito per la vostra partecipazione a questa conferenza. Quello che oggi vorrei presentarvi...».

    «Fermati, Elisa!».

    La voce veniva dalla porta; mi voltai e rimasi colpito. Stava entrando una donna del tutto identica alla dottoressa Fermi, compresi occhiali, blue-jeans e scarpe rosse. Solo la camicetta era diversa: aveva un taglio più moderno rispetto ai fioroni della prima.

    Lo shock fu tale che la relatrice obbedì alla nuova venuta per quasi un minuto, prima di riuscire a dire: «E lei chi è?».

    «Io sono Elisa Fermi, sono te, ma con dieci anni di più».

    «Cosa?».

    «Stavi per presentare le tue ricerche sul viaggio nel tempo, vero? Ebbene: tra dieci anni inventerai la macchina del tempo... ed eccomi qui! Quale migliore occasione di questa per dimostrarti che avevi ragione?».

    Il silenzio che si creò nell’aula era disturbato solo dal rumore dei condizionatori.

    «Vuoi dire che tu sei la me del futuro?».

    «Sì, esatto! E sono qui per evitarti una brutta figura. Stai per presentare delle teorie che tra dieci anni sarai costretta a rivedere. Lascia che sia io a parlare ed esporrò la vera teoria del viaggio nel tempo».

    «Ma... ma... ma come ti permetti?».

    «Già, come ti permetti?».

    E dalla porta entrò un’altra donna. Questa aveva un completo nero e i cappelli, lunghi e ricci, erano leggermente brizzolati. Ma indossava le stesse scarpe rosse: era chiaramente un’altra Elisa Fermi. Qualcuno sottolineò l’ingresso con un’esclamazione poco ortodossa.

    Le prime due risposero in coro: «E tu chi sei?».

    «Vengo dal 2092, da vent’anni nel futuro. Sono venuta a correggere la storia. Ho ripensato più volte a quanto è successo in questa giornata: alla mia presentazione e al mio viaggio nel passato per presentare la teoria corretta... Mi sono resa conto che è stato un’errore modificare la storia: avevo fornito dei dati che nessuno avrebbe potuto capire per almeno altri dieci anni. Quindi tu, cara me stessa del futuro di questo giorno e del mio passato, ritornatene pure nel tuo presente».

    L’aula era sconcertata. Qualcuno rideva, più per la confusione che per un’effettiva comicità della scena.

    La relatrice proveniente da futuro, quella di dieci anni più vecchia, proruppe in una risata: «Cosa vorresti cambiare, tu? Ormai qui è tutto alterato: sei arrivata troppo tardi! Se volevi correggere la storia dovevi arrivare prima di me, o impedirmi di partire. Guarda che pasticcio che hai combinato!».

    «Sì, hai ragione, ho sbagliato i calcoli. Ma sono ancora in tempo per impedire a te di fare altri guai».

    «Ti ricordo che tra le due sono io quella che ha più potere; potrei perfino cambiare la tua storia! Sei già stata a Berlino?».

    «No, non ancora: il lavoro non mi ha ancora permesso di coronare questo sogno. Perché?».

    «Perché ho appena deciso che, quando tornerò nel mio presente, andrò a visitarla!».

    L’espressione della più anziana cambiò di colpo: «Come ti dicevo, sì: ci sono stata. Ho qui sul mio pad una foto fatta di notte davanti alla Porta di Brandeburgo!».

    «Visto?», disse la mediana facendo l’occhiolino alla più giovane.

    Questa non aspettava altro che poter riprendere l’iniziativa.

    «Aspetta un attimo: questa me la devi spiegare. Vuoi dire che io posso cambiare la vostra storia?».

    «Certo, noi siamo il tuo futuro e il futuro è aperto. Ogni tua scelta ha influenza su di noi».

    «Allora ho io la soluzione a questo impasse. Basta: da questo momento rinuncio ad ogni pretesa di inventare la macchina del tempo!».

    Dalle due donne più mature si alzò all’istante un denso fumo che invase tutta l’aula. Tutti cominciarono a tossire. In breve l’impianto di areazione aspirò il fumo. Quando l’aria fu nuovamente respirabile, dalla cattedra si udirono giungere delle risate. Erano ancora presenti tutte e tre le donne.

    Fu la più giovane a prendere la parola.

    «Vi chiedo scusa se abbiamo rischiato di soffocarvi con tutto questo fumo. Le copie di me medesima avrebbero dovuto approfittarne per scomparire, ma a quanto pare abbiamo esagerato con le dosi. E per fortuna non si è accesso l’impianto antincendio! Ebbene, come ormai avrete capito, era tutta una recita: un modo simpatico per iniziare questa conferenza».

    Qualcuno dal fondo dell’aula cominciò a battere le mani timidamente, ma presto tutti si unirono all’applauso. Uno studente seduto vicino a me si azzardò perfino dire: «L’avevo capito subito che ci stavano prendendo in giro».

    «Queste sono Luisa e Marta», le ragazze più grandi si tolsero occhiali e parrucca, «le mie viaggiatrici del tempo. Grazie mille ragazze, ora potete andare e risparmiarvi i dettagli matematici di questo gioco».

    Un ultimo applauso accompagnò l’uscita delle due ragazze.

    Il tempo

    (20 maggio 2072)

    «Ora che abbiamo rotto il ghiaccio, possiamo cominciare».

    La dottoressa Fermi tornò a sedersi sulla cattedra. Sopra di lei il proiettore tridimensionale mostrò le parole:

    Quid ergo est tempus?

    Si nemo ex me quaerit, scio:

    si quaerenti explicare velim, nescio.

    «Cos’è il tempo?

    «No no, aspettate. Lasciate perdere per un attimo la definizione operativa, quella con cui noi fisici lavoriamo tutti i giorni.

    «Cos’è il tempo?

    «Riuscite a spiegarmelo in poche parole? Oppure, come diceva Agostino», ed indicò le parole sopra di lei, «se nessuno ve lo domanda lo sapete, ma se volete spiegarlo allora non lo sapete più?».

    Attese qualche secondo prima di ricominciare a parlare.

    «Noi esseri umani percepiamo la realtà attraverso i sensi, e questi ci mostrano un continuo equilibrio tra l’essere e il divenire.

    «Quando incontriamo un amico lo riconosciamo perché la vista coglie quei tratti che sono costanti in lui, che rappresentano il suo essere visibile. Ma notiamo anche che l’amico cambia, invecchia e muore. L’essere è in divenire e quello che prima c’era poi non c’è più, o è diventato altro.

    «Alziamo lo sguardo al cielo e vediamo il sole; ripetiamo l’osservazione in un altro momento e vediamo l’astro in un punto diverso. Poi ci accorgiamo che non c’è più, è diventato buio, e sopra di noi ci sono le stelle. Ma presto torna la luce e il sole ritorna al suo posto.

    «Così cogliamo che c’è un prima, c’è un dopo, e c’è un contemporaneamente.

    «All’intuizione del cambiamento e della successione abbiamo dato il nome di tempo. Il concetto è talmente legato alla nostra percezione che Agostino diceva: Non può esistere tempo senza creatura. Agostino nota, infatti, che il passato non esiste, perché è già trascorso, ma ne rimane memoria nell’uomo; e non esiste nemmeno il futuro, perché non è ancora, ma l’uomo lo attende. Il tempo e il suo trascorrere sono presenti solo nella coscienza dell’uomo, coscienza che vede il cambiamento, che vede l’essere in divenire.

    «Il grande filosofo Immanuel Kant va oltre. Osserva che l’uomo non sarebbe in grado di percepire lo scorrere del tempo se in lui non ci fosse già qualcosa, un a priori, che glielo rappresenti. Il tempo deve essere nell’uomo prima che nella percezione: deve essere una funzione stessa dell’uomo. Il tempo, quindi, non è un concetto empirico. Per dirlo con le sue parole, cito dalla Critica della ragion pura: Solo se presupponiamo il tempo, è possibile rappresentarsi che qualcosa sia nello stesso tempo, o in tempi diversi».

    I miei studi di filosofia erano terminati con il liceo; facevo fatica a seguire l’argomentazione della relatrice. Eppure le sue parole mi catturavano: era chiaro che parlavano di me e mi facevano pensare: sì, è sicuramente così. Ma la complessità dei concetti mi faceva perdere il senso profondo.

    Ascoltare un filosofo è come guardare un trapezista: i concetti base dei ragionamenti sono gli attrezzi che gli permettono di volteggiare. Ma una mente a digiuno di filosofia non è in grado di vedere tali attrezzi: non capisce pertanto come l’atleta possa volteggiare e perde il senso dei movimenti. Tuttavia può sempre cogliere la bellezza di quello che sta vedendo, ed è un qualcosa di sublime.

    «Ma l’uomo», continuò la relatrice dopo altre riflessioni filosofiche, «non può accontentarsi di percepire: ha bisogno di misurare. Misurare il tempo significa essenzialmente contare: contare quante volte si ripete un certo fenomeno periodico durante il tempo che stiamo misurando. Quanto ci metterò ad attraversare questa stanza? Basta contare i secondi che scorrono tra il primo e l’ultimo passo. Così come dalla misura dello spazio nacque la geometria, dalla misura del tempo nacque l’aritmetica.

    «Galileo Galilei è stato forse il primo ad affrontare in modo scientifico il problema della misura del tempo. Studiando la caduta dei gravi aveva bisogno di uno strumento per contare il tempo e lui utilizzò un pendolo. La leggenda secondo la quale Galileo scoprì la periodicità del pendolo nella cattedrale di

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