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Il lato oscuro del tempo
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E-book507 pagine7 ore

Il lato oscuro del tempo

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Info su questo ebook

2024. Patrizio Nardi è un insegnante del liceo, in un'Italia flagellata dalla dittatura e dalle pandemie.Ha perso moglie e figlio durante una sommossa e non ha più niente. Perciò accetta di far parte dell'esperimento dello scienziato Eugenio Scalzi. Raggiunge il 2019, convinto di poter cambiare il suo mondo. Invece, scoprirà che il suo tempo potrebbe essere soltanto frutto di uno scherzo della mente. Persino lui potrebbe non essere mai esistito. Allora, chi è davvero Patrizio Nardi?Dalla teoria delle stringhe, un romanzo che mette a dura prova sensi e logica. Tra vicende di mondi paralleli che si intersecano e il male che cerca di diffondersi ovunque, una storia ricca di tensione, dove niente è ciò che sembra. Un altro rompicapo dall'autore del thriller IL SEGRETO DI LUKAS KOFLER.
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2022
ISBN9791221431575
Il lato oscuro del tempo

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    Anteprima del libro

    Il lato oscuro del tempo - Pasquale Di Matteo

    CAPITOLO UNO

    «Buongiorno ragazzi. Come va oggi?»

    Mi ero abituato al suono della mia voce. Non trasalivo più.

    Il silenzio della solitudine mi accompagnava in ogni stanza e le uniche voci che ascoltavo erano dei miei alunni e quelle trasmesse dalla tv, che accendevo di tanto in tanto per avere un po’ di compagnia.

    Quando insegnavo, era l’unico momento in cui sentivo la mia. Non era una voce impostata, da doppiatore, ma nemmeno stridula. Era la voce di un uomo qualunque che ben si sposava con ciò che ero diventato.

    Non ero un attore dalla dentatura perfetta, come quelli che in televisione si svegliano quando il sole è già alto nel cielo. Quelli che fanno colazione con bambini felici di andare a scuola e che poi si recano al lavoro in giacca e cravatta, alla guida dell’auto dei sogni.

    Non l’avevo neanche più un’auto. E neppure una famiglia. Ero un individuo la cui lista dei difetti era più lunga di quella dei pregi.

    I muri del mio appartamento delimitavano lo spazio della mia libertà. Ottanta metri quadrati incastrati in un condominio della bassa pianura lombarda, in mezzo ad altre scatole fatte di muri infilate una sopra l’altra. Case piene di mobili, di oggetti e di persone. Piene di pensieri, di rimpianti, di frasi dette e non dette. Piene di sogni e di speranze chiusi a chiave dalla paura.

    Per qualche tempo, le voci e i rumori dei vicini mi avevano tenuto compagnia, poi erano diventati parte dell’intonaco dei muri, sussurri del vento, bisbigli delle tubature quando qualcuno richiamava acqua ai piani superiori.

    «Buongiorno… buongiorno… buongiorno… buongiorno, professore…»

    Uno alla volta, tutti gli studenti della mia classe si erano connessi e vedevo le loro facce in altrettanti riquadri che frazionavano il monitor del mio portatile. Le stesse facce che quando la vita scorreva sui binari della normalità avevo visto ogni giorno dal vivo, mentre ora tutti eravamo costretti a restare a casa, con i problemi d’illuminazione, di connessione, di volumi, sospesi in una dimensione surreale che a volte lasciava spazio allo sconforto.

    Vivevamo una realtà virtuale, come se la vita vera fosse stata soltanto un’illusione. Bloccata al lontano marzo 2020.

    «Oggi vorrei spiegarvi il ruolo dell’arte durante i dispotismi.» Qualcuno mugugnò, altri si sistemarono sulle sedie, altri ancora aprirono il libro di testo in cerca dell’argomento che avevo appena proposto.

    «Quando finirà tutto questo, prof?»

    Non avevo bisogno di cercare tra i riquadri sul computer.

    Si trattava di Barbara Fastini. Me lo chiedeva ogni giorno, prima che potessi cominciare, e ogni volta la fissavo in quei suoi occhi nocciola che solleticavano l’anima.

    E quando quella rituale domanda non arrivava per tempo, attendevo apposta qualche istante, prima di cominciare la lezione.

    Anche quella mattina il suo viso era luminoso e perdermi a solleticare con lo sguardo i suoi lineamenti armoniosi incorniciati da una cascata di capelli rossi mi era sembrata una necessità.

    Un po’ ne ero spaventato.

    Sentivo il bisogno di quegli occhi, anche se sapevo che non era giusto. Avevo giurato fedeltà eterna a un’altra donna, che amavo con tutto me stesso.

    Ma cosa poteva esserci di giusto in quanto stava accadendo? Aprii il libro e cominciai a leggere.

    «I dispotismi che videro la luce agli albori del secolo scorso poterono contare tutti sulla paura generata dalla Grande Guerra. La paura fu amplificata attraverso grandi operazioni pubblicitarie, quali parate e manifestazioni, ricorrendo ai migliori scenografi e sceneggiatori dell’epoca. Hitler, Mussolini e Stalin devono al largo uso dello strumento della paura e dei meccanismi della comunicazione sociale la loro ascesa al potere...»

    «Un po’ come oggi, prof!» Omar Scalzi.

    Era la sua voce. Attesi un attimo e ripresi.

    «L’immagine e la comunicazione visiva erano gli strumenti attraverso cui il potere alimentava la paura su cui costruiva il consenso. Non a caso, Giuseppe Bottai, ministro della cultura della dittatura di Mussolini, diede ampio risalto all’arte cinematografica, rispetto alla pittura, per due motivi fondamentali: innanzitutto la cinematografia veicolava i messaggi del regime a una fetta più ampia della popolazione rispetto ad altre forme di comunicazione. In secondo luogo, i pittori non erano tutti addomesticabili. Infatti, il mondo dell’arte fu perseguitato anche in Germania. Da giovane, Adolf Hitler aveva sognato di diventare artista, ma fu bocciato più volte all’esame di ammissione all’Accademia di Vienna. Forse proprio in virtù dei suoi fallimenti, una volta giunto al potere, egli si scagliò brutalmente contro i movimenti più innovatori del mondo dell’arte. Contro chiunque non rappresentasse la bellezza del corpo come colto dal senso visivo. Per il dittatore tedesco, l’arte doveva manifestare l’operosità della razza ariana, focalizzando l’attenzione sulla bellezza delle proporzioni del fisico, senza sperimentazioni cervellotiche che esaltassero l’analisi delle dinamiche sociali, deturpando tratti e fisionomie. L’imperativo categorico dei regimi era indottrinare le masse attraverso l’immagine, sfruttando ciò che era alla portata di tutti. Ecco perché Dadaismo, Cubismo, Futurismo, Espressionismo e Impressionismo furono in gran parte inseriti nell’Arte degenerata, in quanto incomprensibili da chi era incapace di andare oltre l’immagine e l’estetica... Ciò che balza all’occhio è il ruolo dei popoli durante i dispotismi. La paura diventa il motore che accende la propaganda del pensiero unico, secondo cui chi ha il potere sostiene l’unica verità e promuove solo azioni positive per la nazione. Ma in ragione di ciò, gli artisti animati dal dubbio e capaci di analizzare il loro tempo diventano un ostacolo. Infatti, furono proprio gli artisti i primi a denunciare le incongruenze dei regimi dittatoriali degli ultimi decenni. Gli artisti hanno la sensibilità necessaria per cogliere quanto si cela dietro una notizia e per spingersi oltre la superficie. L’arte è un codice in grado di decifrare le notizie criptate e le falsità di quanto ottriato attraverso i media. Come accaduto in ogni epoca e sotto ogni regime.»

    Sistemai un segnalibro nel punto in cui avevo interrotto la lettura.

    «Ci sono domande?»

    «Mi scusi, prof, ma ha ancora senso parlare di arte nel mondo di oggi?» Era ancora Scalzi.

    Non risposi. Cercai i suoi occhi intelligenti tra i riquadri che dividevano lo schermo del mio computer.

    «Sono più di tre anni che ci obbligano a stare rinchiusi in casa, che non possiamo uscire se non per fare la spesa. Il green pass è ormai obbligatorio tutto l’anno e, senza, non possiamo andare al cinema, a teatro, a fare la spesa. Senza lasciapassare, non possiamo fare niente.»

    Scalzi trascendeva lo stereotipo dello studente modello.

    Dotato di un’intelligenza superiore alla media della classe, era un genio del computer, ma spiccava anche nelle materie umanistiche.

    Era curioso come pochi, risultava spesso arrogante per colpa della continua sete di risposte, ma la sua mente aperta era una qualità non comune tra i giovani. E difficile da trovare anche in tanti adulti.

    Aveva il tipico volto che potevi trovare sui cartelloni pubblicitari e l’espressione di chi non la dà vinta facilmente. Era uno dei soggetti più conosciuti dal preside dell’istituto scolastico, ma non perché fosse insolente o maleducato.

    Tutt’altro. Nel mondo normale, quello antecedente l’avvento della prima pandemia, Scalzi non avrebbe avuto alcun problema, perché la sua indole era di quelli che nei film stavano sempre dalla parte giusta, anche quando interpretavano il ruolo del cattivo.

    Ma cos’era rimasto della normalità?

    «Beh, sul web ci sono molte iniziative e anche tante mostre, però…» precisò Anna Vailati, una delle studentesse più brillanti della classe.

    Il suo riquadro era spostato a sinistra rispetto a quello di Scalzi.

    Si trattava di una ragazza che, truccata e ben vestita, avrebbe fatto stragi di cuori per strada, ma era una di quelle rare eccezioni che non davano importanza all’immagine.

    Ricordo che, quel giorno in particolare, i suoi riccioli scuri erano ancora più selvaggi del solito. Non metteva mai un filo di rossetto, né un velo di trucco. Ma le bastavano due occhi intelligenti e vispi per esprimersi, arrivando al dunque, cosa che sapeva fare piuttosto bene. Era una ragazza destinata a diventare una grande donna, di quelle a cui è difficile mettere i piedi in testa.

    Nel mondo precedente all’avvento dei virus, Anna Vailati sarebbe stata una di quelle con le carte in regola per una carriera politica di primo piano, o per dirigere una banca, una grande azienda o qualsiasi cosa fosse complesso guidare.

    «Vero, Anna, hai ragione» disse Omar Scalzi. «Ma è tutto così virtuale, intangibile, e falso. È virtuale il campionato di calcio. Sono virtuali la Formula 1, il tennis, l’NBA… tutto lo sport è virtuale, così come le mostre. Persino le rassegne teatrali e i programmi in tv, quando non sono repliche, si realizzano in collegamento web o con attori che si tengono a due metri di distanza… A me sembra tutto da fuori di testa. Tutto così falso!»

    «Finto, non falso» precisai.

    Gli occhi dei ragazzi si bloccarono in un punto preciso sullo schermo. Erano diciotto studenti.

    Al primo anno, quella classe era formata da venticinque allievi, ma tre si erano ritirati perché le famiglie non avevano i soldi dell’iscrizione, due erano morti durante i disordini dell’anno precedente e altri due erano stati reclusi in chissà quale carcere o campo di rieducazione istituito dal… regime.

    All’epoca in cui fissavo quegli occhi sul computer, non si poteva usare il termine regime. Il governo aveva emanato una serie di norme per limitare al massimo la diffusione di fake news e di notizie fuorvianti, di quelle che potevano generare odio e discriminazione. O, almeno, questa era la giustificazione dietro cui chi era al potere aveva mascherato una vera e propria censura.

    Perciò alcuni termini potevo sussurrarli nel silenzio della mente, almeno fino a quando non avessero scoperto anche un modo per leggere e limitare i pensieri, ma guai a pronunciarli.

    Stato di emergenza.

    Era quella la definizione ufficiale, quella pertinente, quella che non rischiava di essere spacciata per fake news, quella che veniva ribadita dai media e che ripetevano ogni giorno i vari guru che tessevano l’agiografia del potere nei talk show.

    Utilizzare termini diversi da quanto riconosciuto da chi governava non era soltanto a rischio di denuncia, di censure e di multe, ma era anche il modo più rapido per inimicarsi le masse che si nutrivano della paura.

    Perché la paura aveva sostituito ogni altra divinità. La paura era Dio. Utilizzare certi termini durante una lezione sarebbe stato come sbandierare la bandiera dell’ateismo durante la messa di Natale nella Basilica di San Pietro.

    La paura teneva a bada milioni di persone nelle rispettive abitazioni, conciliava il desiderio di libertà con le forti limitazioni imposte dalle necessità del momento e permetteva che milioni di cittadini si trasformassero in agenti segreti, in delatori pronti a segnalare il vicino che trasgrediva le regole.

    Scalzi aveva definito falso il mondo in cui la paura ci aveva incastrato. Anche se sarebbe stato più corretto dire che, in quella situazione, ci avevano infilato le azioni di chi usava la paura come un tempo la Santa Inquisizione aveva usato la croce.

    «Vedete, ragazzi, l’uomo ha conosciuto spesso forme di dittatura e non è nuovo a imposizioni che ne comprimono le libertà. Si tratta di circostanze che si sono ripetute in quasi tutti i secoli. Inoltre, oggi possiamo addirittura definirci fortunati.»

    «Fortunati?!»

    Sapevo che Omar si sarebbe scaldato, perciò non mi sorprese la sua costernazione. Non era scalmanato, ma pretendeva di capire sempre ogni cosa. Suo padre era stato uno scienziato noto. Aveva collaborato anche con l’Ente Spaziale Europeo e con la NASA.

    Le sue ricerche sullo spazio e sul tempo avevano fatto il giro del mondo, ma poi era caduto nel tritacarne delle lobbies scientifiche.

    Era stato dichiarato complottista, come chiunque suggerisse analisi alternative, come chiunque sperimentasse approcci diversi da quanto giudicato vero dai canali ufficiali.

    Una vera libertà di opinione era tabù già quando erano in vigore le regole della democrazia.

    Quelle volte in cui mi era capitato di leggere le pubblicazioni del dottor Scalzi, così come quando lo avevo seguito alla tv, mi aveva dato l’impressione di una persona seria e professionale.

    Mai quella di un folle, come, invece, lo avevano dipinto negli anni. Avevo la sensazione che Omar manifestasse con la curiosità, alcune volte asfissiante, la frustrazione provata per il padre rifiutato dal mondo accademico e fatto passare per un cretino, quando, invece, si trattava di un luminare di fama internazionale che era stato persino in odore di Nobel.

    Da un lato, ammiravo quel ragazzo, dall’altro avevo paura che si mettesse nei guai per via dei suoi modi e del carattere.

    D’altro canto, lui e i suoi compagni erano ragazzi che non avevano ancora compiuto vent’anni, costretti a restare quasi sempre in casa, catapultati in un mondo in cui gli arresti domiciliari erano la condizione di tutte le persone considerate libere.

    «Sì, Omar. Possiamo definirci fortunati. Immagina se le autorità dovessero rendere inaccessibile il web o arrestare chiunque sia critico nei confronti del governo. È vero che vediamo le nostre libertà compromesse e che la vita non è facile, ma potrebbe andare peggio. Proprio in virtù di tutto ciò, l’arte ha il compito di raccontare, di non omologarsi, di proporre alternative.»

    «Bisognerebbe scendere in strada e lottare, prof! Altro che fare quadri! La gente non legge, si documenta giusto in tv e segue i media come fossero la Bibbia.»

    Non aveva tutti i torti. E gran parte dei riquadri sullo schermo del mio notebook erano di chi annuiva.

    Una delle poche attività rimaste in piedi era quella editoriale, sebbene, per lo più, gli autori regalassero le proprie fatiche sul web, poiché in pochi avevano soldi per acquistare libri.

    L’ultimo libro cartaceo pubblicato in Italia risaliva probabilmente all’estate precedente.

    «In parte ti capisco, Omar, ma prova a pensare: non sarebbe un dramma ancora più atroce una guerra civile? Ritieni che ce lo possiamo permettere? Non ci sono già stati troppi morti?»

    «E allora come se ne esce, prof?»

    Tornai a fissare gli occhi nocciola di Barbara Fastini.

    Mi confortavano. Avevano qualcosa di familiare che non mi spiegavo. Qualcosa che se solo avessi saputo all’epoca…

    «Ricordate Gandhi? Ci mise molto più tempo di quanto avrebbe potuto una guerra, ma ottenne gli stessi risultati con un numero modesto di vittime. In questo l’arte può dare un enorme contributo. Nell’educare, nell’insegnare, nel costruire una difesa culturale che possa esprimere opinioni diverse e, soprattutto, soluzioni differenti. Noi tutti siamo sostanzialmente agli arresti domiciliari, non per la vanagloria di qualche tiranno, bensì per colpa di virus in continua mutazione, per i quali da quattro anni si cercano disperatamente cure e vaccini efficaci, ma senza trovarne. Dopo il fallimento dei primi vaccini sperimentali, si è tornati alla quarantena prolungata, che ha causato la distruzione della nostra economia e non ci sono più soldi. È dura per tutti. Il governo si è anche trovato costretto a congelare le normali attività della popolazione, segregandola in casa. Se ci badate, spendere soldi solo per acquistare generi di prima necessità ci porta a risparmiare sul resto. Non viviamo, ma così riusciamo a farci bastare i sussidi e gli stipendi.»

    I dipendenti dello Stato si erano visti tagliare gli emolumenti di oltre il trenta per cento, mentre i sussidi per i milioni di disoccupati non coprivano metà della paga media di un operaio.

    L’industria italiana era in larga parte distrutta e lavorava soltanto chi era nel settore medicale e scientifico.

    Erano fallite quasi tutte le industrie produttrici di automobili e con loro l’intero indotto, da chi produceva ricambistica, alle concessionarie, fino ad elettrauti, meccanici e carrozzieri.

    In Italia era rimasta attiva soltanto una compagnia aerea, ma era stata acquistata a poco prezzo da un magnate cinese.

    Le entrate dello Stato erano garantite da quei settori definiti strategici e da quelli riconducibili alla medicina. Il ricorso selvaggio all’automazione degli impianti, per ridurre al minimo l’impiego di forza lavoro, aveva accentuato i problemi. Senza considerare i razionamenti di energia introdotti a causa delle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina.

    Gli aiuti giunti dalle istituzioni europee non erano stati il paracadute promesso dalla propaganda e restavano gli ingenti debiti da ripagare.

    Gran parte delle pensioni erano state abbassate ai livelli degli assegni sociali.

    Erano falliti molti istituti di credito, soffocati da milioni di inadempienze, e a nulla erano servite le espropriazioni di abitazioni, auto e altri beni, in un momento in cui quasi nessuno poteva permettersi più della spesa per vivere.

    C’era chi sosteneva che tutti i profili social fossero monitorati dalla polizia postale per soffocare sul nascere qualunque vagito di ribellione, altri lo auspicavano e chiedevano che i social venissero chiusi. C’era anche chi faceva notare come i social fossero una valvola di sfogo che aiutava a mantenere integra la stabilità psicologica delle persone. Almeno di quelle che ancora potevano permettersi di pagare le bollette per l’energia elettrica e un abbonamento a internet, in modo da collegarsi al proprio profilo.

    Ciascuno di noi era sotto pressione, tuttavia io ero l’insegnante e dovevo fare di tutto perché i miei studenti mantenessero la calma.

    Anche se l’esuberanza di Omar Scalzi era difficile da controllare.

    «Come possiamo cambiare le cose soltanto con la non violenza? Tra dieci anni potremmo essere ancora qui a parlare di questo davanti a un monitor, mentre là fuori ci sono bambini che muoiono di fame, come fino a cinque anni fa eravamo abituati a vedere soltanto in tv.»

    In un mondo normale, Omar sarebbe stato attorniato da tante persone.

    Il carisma non gli mancava e aveva l’aspetto da bello e dannato che ha sempre fatto colpo sulle donne in ogni epoca.

    Portava i capelli lunghi, stropicciati, con un ciuffo che ricadeva sulle sopracciglia, aveva tratti decisi, un naso importante e occhi di chi non accetta compromessi.

    «Tu cosa proporresti, Omar?»

    «Dovremmo abbandonare le nostre sedie e scendere in strada, per non farci mettere i piedi in testa!»

    «E come pensi di sopraffare i militari di pattuglia a ogni angolo? Come i carabinieri e i poliziotti? Qualcuno dei tuoi compagni ci ha provato e… sappiamo bene come è andata a finire.»

    Non c’era regione italiana in cui non fossero state requisite fabbriche dismesse per trasformarle in carceri.

    Si vociferava che i detenuti fossero ridotti in condizioni disumane, costretti a lavorare anche dieci ore al giorno per fabbricare prodotti che le imprese fallite non garantivano più al mercato, in quello che era diventato un pernicioso cortocircuito tra dare e avere, con l’assenza di offerta che uccideva la già esigua domanda. Tuttavia, malgrado il meccanismo della paura avesse soppiantato la democrazia, la situazione d’emergenza risultava l’unica via per una larga fetta della popolazione. Ciò era dovuto in parte alla narrativa veicolata dai media, che, come in tutti i dispotismi della storia, alimentava l’agiografia del potere, per cui ogni opinione non allineata alla virtù di chi guidava il Paese in quei momenti difficili era giudicata fake news e motivo di derisione o di emarginazione.

    Ciò aveva esacerbato i toni sui social, dove dissidenti e coloro i quali si ponevano dubbi venivano biasimati, ridicolizzati, offesi, persino minacciati.

    Io stesso ero stato umiliato e minacciato più volte, motivo per cui usavo i social sempre meno e più per tastare il polso dell’opinione pubblica che per altro. Facebook, Instagram e Twitter erano i miei occhi più sinceri sul mondo.

    Osservai l’orologio sullo schermo del computer. Mancava una manciata di minuti al termine delle mie ore.

    «La lezione è quasi finita, ragazzi. Studiate le pagine del libro di oggi e per la prossima settimana vorrei che qualcuno mi inviasse una mail con la relazione scritta. E… mi raccomando: guardate che me ne accorgo se fate il classico copia e incolla.»

    Ci salutammo e chiusi la comunicazione.

    Per quella settimana, non avevo altre lezioni, né verifiche da correggere.

    Fuori dalla finestra, il ritaglio di cielo azzurro incastrato tra le tende del mio soggiorno invitava a gite spensierate, a prendere l’auto per andare da qualche parte. In tempi normali, avrei pensato al Lago di Garda.

    Quanto avrei voluto riavvolgere il nastro e tornare indietro di cinque anni! Umore diverso, vita diversa, mondo diverso. Avrei dato qualsiasi cosa per tornare a vedere bambini correre nei prati, persone passeggiare allegramente, altre fare conversazione sedute ai tavoli di un bar.

    Spensi il computer e presi un dvd dalla teca accanto al televisore. Il soggiorno era un trionfo di oggettistica cinese. Somigliava a un negozio di souvenir. A mia moglie Maria piaceva così e così lo mantenevo.

    Inserii il disco nel lettore dvd e accesi la televisione. Pochi istanti e lo schermo si illuminò, con un altro cielo azzurro a riempire l’orizzonte, sopra a un mondo vivo, in cui l’umanità correva sulla spiaggia e chiacchierava. Senza mascherine o distanziamento, né timori per le relazioni umane.

    Maria mi sorrise dallo schermo, con la solita finta espressione imbronciata di cui mi ero innamorato al liceo.

    Mio figlio costruiva un castello di sabbia.

    «Che bel castello, Seba» sussurrai.

    Che bel castello disse la mia voce nello schermo, un attimo in ritardo.

    Papà, da grande farò l’ingegnere, così costruisco una bella casa anche a te e alla mamma disse mio figlio.

    «Da grande potrai fare quello che vorrai.»

    Da grande potrai fare quello che vorrai replicò la mia voce in televisione.

    Già…

    Così sarebbe stato se la vita avesse seguito il corso della normalità. Ma così non era e me ne stavo seduto sul divano. Solo, nel mio appartamento, con l’asfissiante silenzio della solitudine a farmi compagnia.

    Era venerdì 29 marzo 2024.

    CAPITOLO DUE

    Ottobre 2023

    Quella mattina stavo tenendo una lezione in Dad, una delle prime da quando la didattica a distanza era stata resa obbligatoria per dare modo di riprendere l’anno scolastico, in seguito all’ennesima interruzione.

    La quarantena, introdotta nel febbraio 2020, era stata allentata una prima volta a maggio dello stesso anno, ma poi il virus aveva ripreso il suo cammino di morte non appena l’autunno aveva accantonato il sole caldo dell’estate.

    Per un anno e mezzo era sembrato che la normalità potesse tornare, ma poi il virus era mutato e a nulla erano servite cure e sperimentazioni della scienza. O, almeno, era ciò che raccontavano i media.

    Di stagione in stagione, avevamo vissuto momenti di apparente normalità e chiusure più o meno rigide.

    Per far fronte alla mancanza di fondi, erano stati posti in prepensionamento moltissimi colleghi e licenziati gli insegnanti assunti di ruolo da meno di cinque anni.

    Così come non erano stati sostituiti i tanti che non si erano piegati al ricatto del green pass e che risultavano ancora sospesi, senza stipendio, dall’autunno 2021.

    Io ero uno dei pochi privilegiati che avevano mantenuto il posto, ma immagino che, nel mio caso, avesse giocato un ruolo essere l’autore del libro di Storia dell’Arte in adozione presso il liceo dove insegnavo. Non sarebbe stato facile spiegare il licenziamento di chi aveva scritto il libro in dotazione per poi sostituirlo con qualcun altro.

    O forse era stata solo fortuna.

    Quel giorno d’autunno, mia moglie Maria era uscita per andare a fare la spesa, portando con sé nostro figlio.

    Si girava con le mascherine, che ormai erano diventate icone più indispensabili degli ultimi modelli di dispositivi elettronici.

    In quel periodo, l’infezione sembrava essersi ridimensionata, tant’è vero che l’approccio alla pandemia aveva visto un nuovo alleggerimento delle misure restrittive.

    La spesa si poteva fare solo una volta a settimana e soltanto per acquistare i prodotti indicati nella tessera annonaria che era stata consegnata dallo Stato a ciascuna famiglia, per far fronte alla carestia, tuttavia era consentito spostarsi anche con i bambini.

    Cercavamo di andarci a turno io e Maria, portandoci appresso sempre Seba per non fargli perdere il contatto con il mondo esterno, il piacere di muoversi all’aria aperta, di sentire il tepore del sole, di vivere la sensazione travolgente di respirare il profumo dei fiori e di assaporare il tocco frizzante del vento.

    Stavamo dando fondo a tutti i risparmi e a poco servivano il mio stipendio, ridimensionato dalle esigenze dell’economia di guerra, e il sussidio di disoccupazione percepito da Maria. La sua impresa era una di quelle che era stata costretta a chiudere già nel 2020 e che a giugno di quell’anno, quando si era allentata una prima volta la stretta della quarantena, non era stata in grado di riaprire, soffocata dai debiti e dalla fuga dei clienti esteri.

    L’auto ci era stata pignorata per un debito con una banca, ma, per fortuna, non abitavamo molto distanti da un supermercato che si poteva tranquillamente raggiungere a piedi.

    Quando Maria e Seba erano usciti di casa, circa un’ora prima, stavo ultimando la correzione di alcune relazioni.

    Le avevo chieste ai miei alunni perché volevo tastare il polso della preparazione dei ragazzi dopo il ripasso effettuato in quelle prime settimane di scuola. Poi mi ero collegato per la lezione.

    Maria e Sebastiano sarebbero rincasati a breve. D’altronde, non potevo immaginare cosa fosse accaduto al supermercato. Lo appresi successivamente.

    La temperatura era ancora mite e l’autunno sembrava essere giunto in punta di piedi. Maria e Seba si erano goduti la passeggiata che li aveva condotti al centro commerciale, ma poi era accaduto qualcosa che in tempi normali sarebbe stato inverosimile, mentre nel mondo dei virus era diventata un’eventualità non così remota.

    Un gruppo di terroristi aveva preso in ostaggio chiunque si trovasse all’interno del supermercato. In cambio del loro rilascio, chiedevano soldi e libertà, con la cancellazione immediata di ogni misura restrittiva adottata dal governo, a cominciare dal lasciapassare.

    Quel green pass il cui nome alludeva a qualcosa di naturale, ma che era espressione della repressione. Di fatto, una patente per vivere.

    I terroristi avevano chiuso tutte le uscite e ucciso a bruciapelo gli operatori del servizio d’ordine che avevano tentato una timida reazione.

    Mentre a casa stavo parlando dell’influenza che Puntinismo e Divisionismo avevano suscitato in molti artisti di diverse correnti, il cellulare si era illuminato e aveva cominciato a vibrare.

    La suoneria era silenziata per non disturbare la lezione. In un primo momento, non me ne curai e lasciai che la luce si spegnesse. Stavo lavorando e non avevo alcuna intenzione di interrompere la lezione. Maria aveva le chiavi e poi sapeva che a quell’ora ero impegnato con la scuola. Ma il telefono si illuminò di nuovo. Un freddo improvviso s’impadronì di me, pizzicandomi ogni centimetro del corpo. Sensazione che, alla luce di quanto accadde, potrei definire premonizione.

    Mi scusai con gli allievi imprigionati nei rettangoli che segmentavano lo schermo del mio computer e afferrai il telefono. Sul display c’era scritto MARIA.

    Non mi diede il tempo di dire niente. Soffocò ogni mia domanda con una serie di parole frenetiche.

    Ho paura! Ci hanno fatti sedere tutti al centro del corridoio… A occhio e croce saremo un centinaio di persone, tra clienti e dipendenti del supermercato, in prevalenza donne e bambini… Un paio di uomini hanno provato a reagire, sfruttando l’intervento degli operatori del servizio d’ordine, ma li hanno uccisi tutti… Non hanno alcuna pietà! Ho paura…

    Maria aveva parlato sottovoce, ma le frasi le uscivano come in una gara di velocità a suon di scioglilingua. Nella mente si materializzò la faccia di mia moglie, sudata e con gli occhi di chi aveva annusato il tanfo della morte. In sottofondo sentii Seba singhiozzare e mi si raggelò il sangue.

    Ora ci sono uomini armati fino ai denti in fondo al corridoio, mentre il grosso del gruppo si è mosso, non so per fare cosa. Ho paura, Patrik, ho pau… No… No… La prego… Noo!.

    Maria? Maria?.

    Il mio corpo si fece di cemento. Urlai, ma non servì a niente. Il tu, tu, tu del telefono, che prese il posto della voce di mia moglie non volle saperne di spegnersi.

    Abbandonai la lezione che stavo tenendo sul web e mi precipitai sulle scale. Le affrontai saltando gli scalini sei o sette alla volta, con la paura che picchiava le tempie e un tamburo al posto del cuore.

    Corsi come non avevo mai corso in vita mia, nemmeno alle gare di atletica dei giochi universitari.

    Chiamai i soccorsi al telefono, dando fondo alle mie riserve d’ossigeno, mentre correvo, e la polizia rispose alle mie parole affannate rassicurandomi: erano già intervenuti.

    Svoltai l’angolo in fondo alla via di casa mia, dove di solito stazionavano i militari che controllavano permessi per le uscite, lasciapassare e documenti vari. Non c’erano.

    Continuai a correre a perdifiato, fino a quando non scorsi il parcheggio del supermercato dietro una cortina di alberi.

    Un elicottero della polizia disegnò una retta nel cielo nuvoloso, prima di scendere lentamente accanto a un gruppo di volanti e di pantere con le sirene accese.

    Il centro commerciale era composto da alcuni parallelepipedi di mattoncini bianchi e vetri a specchio.

    Attraversai la strada ed entrai nel parcheggio, quando due carabinieri mi bloccarono.

    «Ci sono mia moglie e mio figlio, lì dentro. Hanno preso la mia famiglia!»

    «Si calmi!» intimò un ragazzotto con la stessa espressione smarrita di Ivan Drago nelle ultime sequenze di Rocky IV.

    Il collega in divisa mi teneva fermo per le spalle. Avevano visi da ventenni, forse reclutati all’inizio dell’emergenza sanitaria, e le loro espressioni erano più spaventate di quanto immaginavo potesse essere la mia.

    «Si calmi!» ripeté il carabiniere davanti a me.

    Mi sforzai di dare un seguito alla sua richiesta, perciò restai in silenzio. Le scene catturate dai miei occhi sembravano quelle di un set cinematografico.

    C’erano militari che correvano intorno all’edificio più grande, quello in cui si vendevano gli alimentari e dove erano stati sequestrati gli ostaggi. Un uomo in mimetica strillava da un megafono, intimando ai sequestratori di arrendersi, mentre continuavano a giungere altri mezzi e ulteriori uomini nel parcheggio.

    Booom!

    Le vetrine esterne del supermercato esplosero in miliardi di schegge e fui sradicato dal suolo. Finii scaraventato contro alcune auto parcheggiate alle mie spalle.

    Aprii gli occhi, ma non so dire se immediatamente o dopo chissà quanto tempo.

    Vedevo rosso.

    Sembrava che qualcuno mi stesse segando le gambe senza avermi somministrato anestetici, mentre altre mani strizzavano la mia testa in una morsa.

    C’erano uomini che correvano da una parte all’altra, allungando tubi grotteschi e gridando parole che non riuscivo ad afferrare. Altri venivano portati via da gente vestita con tute arancioni, con la faccia e le mani coperte di sangue. C’era chi piangeva, altri ancora gridavano, ma le voci mi giungevano da lontano.

    A fatica riuscii a guardare oltre e individuai una massa priva di forma avvolta dalle fiamme dove prima c’era il supermercato.

    Poi qualcuno mi afferrò da dietro e provai un dolore ancora più forte, fino a che tutto non si fece bianco, infine nero.

    Riaprii gli occhi. Tutto era tornato bianco.

    Non avvertivo più alcun dolore. Nessuno stava dilaniando le mie gambe o schiacciando la testa. Le alternative erano che mi avessero somministrato una quantità industriale di antidolorifici oppure… oppure cosa? Il mio corpo era leggero, come fluttuassi nell’aria, sospeso, etereo. Tentai di sollevarmi. Un dolore mi infiammò la schiena dal coccige all’atlante.

    Ruotai la testa, ma il velo bianco davanti agli occhi non sbiadì. Il dolore si fece più intenso e penetrò nel cranio dall’osso occipitale. Assottigliai gli occhi e misi a fuoco un muro bianco. Era il soffitto di una camera d’ospedale.

    Accanto al letto era appesa una flebo con un liquido trasparente che scivolava nel mio braccio.

    Non so per quanto tempo rimbalzai tra l’incredulità e l’incoerenza dei ricordi, in un turbinio d’immagini, di macchie impazzite che svolazzavano nell’infinito di quel soffitto bianco.

    Fuoco, grida, vetri infranti, erano proiezioni create dalle mie connessioni sinaptiche nel limbo dello spazio che mi separava dal muro, colori e rumori che acceleravano e si fermavano, inseguendosi nello spazio anarchico dei miei ricordi incoerenti.

    Poi, una voce mi giunse più chiara e reale di ogni altro suono, così come reale mi apparve definita una massa di colori che si fece largo alla mia destra.

    «Come si sente?»

    Posai gli occhi su un camice bianco sotto un viso paffuto.

    «Non lo so» risposi. «Non sento le gambe.»

    L’infermiere mi mostrò le mani aperte e mi regalò un sorriso.

    «Non si preoccupi. È l’effetto dell’anestesia. Vedrà che tra qualche ora comincerà a sentirsele di nuovo.»

    L’anestesia? Per cosa…?

    «Ricorda che cosa è successo, signore? Ricorda il suo nome?»

    Ma che domande…?

    Il mio nome… Il mio nome?!

    Nella testa si riaccesero i rumori e le immagini ripresero a danzare sul soffitto. Qualcuno digitò il tasto del fermo immagine e alcuni ricordi si affacciarono dal ripostiglio della memoria.

    Ricordai un boato, una serie di mattoncini bianchi, gente insanguinata, vetrine infrante e il fuoco.

    Fiamme ovunque.

    E ricordai anche il mio nome.

    «Patrizio Nardi» affermai. «Mi chiamo Patrizio Nardi.»

    L’infermiere si allungò verso la testata del letto. Quando si ritrasse, nelle sue mani era spuntata una cartelletta blu su cui appuntò qualcosa. «Ricorda cosa è successo?» ripeté.

    Aveva un’inflessione siciliana e la mole tradiva la passione per il cibo.

    Mi venne in mente la mia insegnante di matematica ai tempi del liceo, che era di Siracusa. Donna simpaticissima, ma esigente nel suo lavoro e più severa di quanto non fossi io con i miei studenti.

    La ricordai per l’accento, non certo per il fisico. La prof aveva un fisico da modella.

    L’immagine della mia insegnante sbiadì e fissai negli occhi l’infermiere.

    «Ricordo un boato e di essermi ritrovato per terra, accanto ad alcune auto in sosta nel parcheggio» dissi.

    «C’è stato un attentato al supermercato: un’esplosione, signor Nardi. Poi lei è stato investito dall’onda d’urto. Ha riportato la frattura di entrambi i femori, un taglio superficiale sul lobo temporale destro ed escoriazioni alle braccia, causate dalle schegge delle vetrine esplose. L’hanno sottoposta a un intervento chirurgico per sistemarle gli arti inferiori ed è andato tutto per il meglio... vedrà che tra qualche settimana tornerà come nuovo. Non potrà stabilire il nuovo record mondiale sui cento metri, ma potrà camminare e correre senza problemi.»

    L’esplosione, i mattoncini bianchi, le gambe fratturate, i tagli alle braccia, l’intervento… in testa si manifestò di nuovo un groviglio di dolori, un vortice che premeva sugli occhi, una corona di spine conficcata nel cranio. Bagliori sul soffitto mi costrinsero a vedere diapositive sulla mia vita.

    Forse anche Gesù Cristo si era sentito così sulla croce?

    Tuttavia, io non ero inchiodato a una croce, ma incastrato in un letto d’ospedale e al mio capezzale c’era soltanto un infermiere.

    Mi resi conto che l’uomo stava parlando ancora, ma non riuscivo a cogliere il senso delle sue parole. Le labbra circondate da un folto pizzetto si muovevano e sentivo la voce, ma le lettere scivolavano via prima che riuscissi a decifrarle.

    Più che sentirle, le vedevo. Uscivano sottoforma di fili sottili, poi lievitavano, fino a trasformarsi in bolle di sapone, che mi scoppiavano in faccia.

    Sul soffitto si materializzò l’immagine del marciapiede che scorreva sotto i miei passi veloci quando avevo corso a perdifiato per raggiungere il supermercato.

    «Mia moglie e mio figlio??!! Erano nel supermercato. Li hanno trovati? Come stanno?»

    Le labbra dell’infermiere si bloccarono e il suo volto s’incupì.

    «Credo sia meglio che le spieghino tutto altre persone» disse, poi si allontanò prima di darmi il tempo di replicare.

    Lo spazio nel mio campo visivo del suo faccione fu preso dal viso smunto di Luigi Panetti, il mio miglior amico fin dai tempi del liceo. Durante gli ultimi anni delle superiori eravamo stati compagni di banco. Io conoscevo i suoi segreti inconfessabili e lui i miei. Era stato il primo a sapere della mia cotta per Maria, così come io ero stato il primo a sapere di lui e della figlia del preside, di quella che sarebbe poi diventata la madre dei suoi figli.

    Luigi era un uomo simpaticissimo, lo era sempre stato, ma quando la situazione lo esigeva, sapeva essere di ghiaccio. Se c’era un uomo a cui potevi raccontare un segreto e dormire sonni tranquilli, quello era certamente Luigi.

    Notai i suoi occhi e un brivido s’infilò tra le vertebre e il materasso. Non li avevo mai visti così. Non ridevano, erano privi di luce. Erano persino lucidi.

    Non ebbi il coraggio di aprire bocca.

    Mi strinse la mano del braccio dove stava infilato l’ago collegato alla flebo. Una stretta vigorosa, non alimentata dalla voglia di infondere coraggio o dai sentimenti di amicizia, bensì dalla disperazione.

    Capii, ma rifiutai di accettarlo.

    «Mi dispiace» disse Luigi e scoppiò a piangere come non lo avevo mai visto in oltre trent’anni.

    Si chinò disperato al mio capezzale e solo allora mi accorsi dell’uomo vestito di nero dietro di lui. Indossava un clergyman e fui scosso

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