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Come nuvole all’orizzonte
Come nuvole all’orizzonte
Come nuvole all’orizzonte
E-book336 pagine5 ore

Come nuvole all’orizzonte

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Info su questo ebook

“E solo ora mi rendo conto di come la malattia, così come le sofferenze ed i dolori, le paure e le angosce, altro non sono che come nuvole all’orizzonte: fugaci e passeggere incombenze della vita, la cui oscurità non elide la pienezza della gioia, ma la sovrasta per un tempo troppo breve per poterne cancellare la sontuosità”.
In questo romanzo autobiografico una giovanissima scrittrice racconta la ripida discesa nell’infernale gola dell’anoressia; un viaggio che non a caso definisce dantesco, popolato di demoni, paure e ossessioni  che prendono possesso della sua mente, confinandola in una zona d’ombra, lontana da tutti, preda della propria fragilità travestita da ostinazione, in un esilio forzato che troppo somiglia a una prigione. Ma Irene racconta anche la risalita, l’ascesa possibile grazie a una straordinaria forza di volontà, stimolata dal continuo affetto di familiari e amici, dalla fiducia infusa dal personale medico, specialisti del corpo e dell’anima, nonché da un sogno importante, fatto nella notte più scura.
Pagine dense di emozioni e sentimenti difficili da comprendere fino in fondo, a chi non abbia vissuto sulla propria pelle una esperienza tanto devastante. Rabbia, frustrazione, tristezza infinita; non c’è filtro, ti investono a volte in maniera soffocante. Per questo la GUARIGIONE è accolta con infinito sollievo e apre un orizzonte di speranza meraviglioso.

Irene Cortellessa è nata a Capua nel 1997 e vive a Marzano Appio, un paesino nella provincia di Caserta. Secondogenita al fratello, insieme alla sorella gemella, ha da sempre seguito la sua strada, conseguendo il diploma di Liceo Scientifico, opzione scienze applicate. Attualmente studentessa presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Luigi Vanvitelli di Caserta, esordisce con quest’opera all’età di 21 anni. 
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2018
ISBN9788830601642
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    Anteprima del libro

    Come nuvole all’orizzonte - Irene Cortellessa

    ANORESSICA!

    MARZO 2014

    Non sentirti diversa". Tu non sei diversa.

    Sei unica. Coccola il tuo bene, sopporta il

    tuo male. E ringrazia sempre di essere

    come sei. Persino quando esserlo significherà

    soffrire con un’intensità superiore a quella

    di qualcun altro".

    Massimo Gramellini

    CAPITOLO 1

    È appena finito il mese di febbraio, un mese che ha segnato l’inizio di una nuova vita: ho compiuto da poco i miei diciassette anni. La vita dovrebbe iniziare a guardarmi in modo diverso, gli altri dovrebbero iniziare ad avere uno sguardo meno vigile, meno protettivo nei miei confronti perché sarò più grande di un anno, più responsabile; ma sono consapevole che queste sono solo convinzioni che si trasformeranno in delusioni nel momento in cui verranno a patto con la realtà: nessuno mi considererà più grande perché non è il compimento di un anno in più a determinare la maturità di una persona, la sua crescita. Il compleanno è solo un mezzo simbolico per sottolineare che la vita, nonostante tutte le difficoltà, va avanti ed ogni anno si rinnova. Eppure mi piace pensare che le cose cambieranno.

    Con il termine inizio di una nuova vita. non mi riferivo solamente alla mia crescita fisica, ma soprattutto alla mia crescita psicologica.

    È dal termine della terza media che la mia vita ha subito un’incessante variazione. Sono frequenti i momenti in cui vengo assalita da crisi d’ansia: il respiro inizia a mancare, la testa a girare, la gola a chiudersi e il corpo a fremere. Sono passati tre anni dall’inizio di questo calvario, eppure non sono riuscita a porvi rimedio, non a trovare una causa scatenante. Nella maggior parte dei casi, e in quelli meno opportuni, la crisi pervade il mio corpo mentre sono a scuola. La mia presenza in classe si fa invadente, prorompente, perché a sottolinearla sono i miei ansimi nel cercare di recuperare un po’ di quell’aria che a stento giunge ai miei polmoni. La mia compagna di banco, ormai abituata a soccorrermi, continua a preoccuparsi ogni qualvolta la mia testa si abbassa ed il mio corpo inizia ad essere pervaso dal tremore; e sebbene siano tante le volte in cui lei è stata presente al mio tormento, è sempre come se fosse la prima volta, come se non sapesse cosa fare.

    Ricordo ancora la prima volta che mi successe al liceo, l’ansia e la preoccupazione dei docenti che si sentivano impotenti di fronte al mio supplizio.

    Era una fredda giornata di novembre. Fuori dalla finestra della mia classe vedevo le foglie dei cipressi ricoprire l’asfalto bagnato da quella lieve pioggerella che la notte prima era caduta dal cielo come un segno premonitore. Già dal mattino avevo avuto un pessimo presentimento perché quel giorno sarei dovuta essere interrogata, per la prima volta, in italiano e l’ansia mi aveva fatto compagnia sin dal risveglio. Erano le 11:30 quando la mia interrogazione ebbe inizio, intervallata da ansimi per la difficile respirazione.

    «Stai calma, nessuno ti uccide!» mi disse la professoressa con ironia, ed io avrei voluto risponderle che si sbagliava: era la mia ansia che in quel momento si stava trasformando nell’assassino della mia tranquillità. Quando l’interrogazione stava giungendo al termine, la tensione accumulata iniziava a farsi sentire: il mio corpo prese a tremare, come investito da scosse elettriche. La mia compagna di banco, Marta, si accorse che qualcosa non andava ma non sapeva di cosa si trattasse, né tanto meno come agire per farmi stare meglio. L’unica soluzione che le venne, forse la più sbagliata, fu quella di portarmi fuori dalla classe. Non appena mi ritrovai in posizione retta sulle mie gambe, mi accorsi che queste iniziavano a venire meno, e la testa mi offriva immagini del tutto distorte della realtà. Marta fu rapida nel sorreggermi quando le mie ginocchia cedettero, facendomi precipitare al suolo. Mi sorressero lei e la professoressa e mi condussero fuori dalla classe per evitare ai miei compagni di assistere a quella scena pietosa. La testa sembrava impazzire, il corridoio capovolgersi e le gambe essere troppo sottili per quell’eccessivo peso. Mi sentivo una stupida, una scema che non è nemmeno in grado di tenere a freno le proprie emozioni e la propria ansia. Finalmente non furono più le mie gambe a dover sostenere il peso del mio corpo perché mi avevano sistemata sul divano della vicepresidenza, il mio unico sollievo in quell’immane sforzo di sopravvivenza. Dopo non molto fui sorpresa nel riconoscere, tra la confusione che si era creata intorno a me, la voce del preside che suggeriva di mandare a chiamare mia madre, professoressa nello stesso istituto da me frequentato. I miei occhi iniziarono a chiudersi, la mia vista a sbiadirsi, i suoni giungevano come emessi in lontananza ed io finii per capire sempre meno. Furono degli schiaffi delicati ma abbastanza forti a farmi rinsavire. Quando i miei occhi riconobbero, tra i tanti, la sagoma di mia madre, fu istintivo cercare con le braccia di avvicinarmi a lei per potermi abbandonare in quella stretta materna che seguì. Servirono alcuni minuti ancora per tranquillizzarmi, durante i quali la professoressa mi coprì con il suo minuto cappottino per cercare di alleviare il tremore, non sapendo che non era freddo quello che sentivo. Non credevo che, ancora una volta, sarei riuscita a superare la crisi, ma finalmente mi alzai sulle mie gambe e, nonostante la debolezza, riuscii a rientrare in classe per scusarmi con tutti per l’accaduto.

    Da allora chi mi sta vicino mi guarda come se potessi rompermi da un momento all’altro, mi guardano con sguardo attento, minuzioso, come se quel loro agire fosse una cura per evitare il dolore. Eppure non sanno che bisognerebbe cambiare qualcosa dentro di me, non nell’ambiente che mi circonda, per ottenere un miglioramento; perché il disagio è personale, non circostanziale. In tanti cercano di aiutarmi a trovare una soluzione, e tante sono le proposte a cui la mia mente ha prestato attenzione: alcune stupide, altre meno, ma pur sempre interessanti. Il problema è che sono io che ho paura di trovarla, una soluzione, perché, andando a fondo, il male che si nasconde dietro le crisi viene fuori, ed io non so se sono in grado di saperlo sopportare: è qualcosa di sconosciuto, qualcosa di ignoto e minaccioso, e, come tutti gli esseri umani, anche io tremo di fronte al buio dell’incertezza.

    È stata la mia professoressa di inglese, che non potrò mai smettere di ringraziare, a farmi vedere la realtà con occhi diversi.

    «Perché non prendi in considerazione l’idea di poter andare da uno psicologo?».

    «Non voglio. Me lo ha chiesto anche mamma. Ce la faccio da sola!».

    «Lo so, ne abbiamo parlato». Fa una breve pausa e continua dicendo: «Non devi pensare che lo psicologo sia il medico dei pazzi, assolutamente».

    Beccata: ha centrato in pieno le mie considerazioni riguardo i trattamenti psicoterapici, i miei pregiudizi riguardo i pazienti.

    «Ah no prof? E allora chi cura?».

    «No. Lo psicologo è un medico come gli altri. Come tu vai dall’ortopedico o dal pediatra, così vai dallo psicologo; solo che la sua specialità è quella di curare i disturbi dell’ansia, la paura, tutto ciò che è a livello subconscio. Tu non sei matta, devi solo imparare a conoscere te stessa e quello che ti fa stare male».

    Forse è vero: i miei preconcetti sono dettati solo da una scarsa conoscenza a riguardo; dal fatto che ad oggi è impossibile poter parlare di sostegno psicologico senza alludere a follia, pazzia, o a qualunque tipo di instabilità mentale. Ad ogni modo io non ne ho bisogno.

    «Io sto bene, non ho niente».

    «Certo che stai bene. Ma quando ti vengono le crisi non credo che bene sia il termine calzante la tua condizione! Io penso che quello che provi sia dolore, paura».

    Segue da parte mia solo un silenzio a cui si aggiunge un flebile accenno della testa.

    «E allora perché non vuoi darti un’opportunità? Perché non vuoi goderti l’adolescenza come ogni ragazza della tua età?». Fa un sospiro per trovare il coraggio di andare avanti. Anche lei si rende conto che è un argomento delicato per una ragazza di soli diciassette anni. «Non devi pensare che sei strana, pensa solo che non sei l’unica. Se in questa scuola non si verificano crisi come le tue, non vuol dire che non esistano al mondo. Datti un’opportunità!».

    «Ma io non riesco a parlare con la mia famiglia, che è la cosa più importante per me, come faccio a parlare con uno sconosciuto?». Gli occhi iniziano a riempirsi di lacrime: disperazione, frustrazione. «Cosa dovrei digli? Lui cosa può fare? Se c’è un modo per riuscire a calmarmi non sarà lui che potrà dirmelo! Solo io posso tenere sotto controllo le crisi e ci riuscirò!».

    «A volte non siamo abbastanza forti da riuscire a controllare tutto da soli».

    «Io ho paura. È... è così difficile!».

    «Lo so. Ma potresti stare meglio. Se solo ti lasciassi aiutare. Non è detto che uno psicologo riesca a risolvere il problema, ma tu prova. Anche se vai solo per una volta e poi non sei favorevole al trattamento... ma prova!».

    «Ma perché proprio a me? Gli altri sono felici, stanno bene, perché doveva succedere a me?».

    «Non lo hai deciso tu. Succede fuori dalla nostra capacità razionale. Per questo devi provare, anche per tua mamma che è molto preoccupata».

    «Ne sono consapevole e mi fa male». Dopo aver incrociato il suo sguardo, difficile da sostenere, ho ammesso la mia responsabilità. «È tutta colpa mia!».

    «Non devi assolutamente pensarlo. Non è colpa tua, né di nessun altro. Sono cose che succedono! E, in questo momento, i tuoi genitori stanno solo svolgendo il loro ruolo».

    CAPITOLO 2

    Sono passati alcuni giorni dalla mia chiacchierata con la professoressa. Giorni in cui non faccio altro che ripensare alle sue parole, alla mia vita e alle mie remore. Alla possibilità di riscatto che potrei concedermi se solo riuscissi a vincere i miei limiti, i miei timori. Non ho ancora preso una decisione, non ne sono capace: vorrei che qualcuno la prendesse al posto mio. Eppure è bastato poco per farmi prendere coscienza della realtà: sono stata male! Questa volta la crisi è stata più forte del solito, ho avuto paura, ed il peggio è che di quell’interminabile ora di soffocamento non ricordo pressappoco nulla. Sono stata male e la mia capacità di raziocinio è stata messa in panchina dall’ansia. Il peggio è passato e l’unica cosa che posso volere è dare un taglio a questo malessere. Voglio guarire! Non voglio più mettere in difficoltà la classe né i professori, non voglio sentirmi debole, non fragile, né voglio aspettare che succeda in una circostanza importante. Non voglio combattere più con la resistenza dell’aria, né dargliela vinta e dargli la soddisfazione di vedermi al tappeto ogni volta che lottiamo. Voglio un nuovo inizio!

    La crisi questa volta ha spaventato tutti, i miei genitori soprattutto.

    «Amore mio, so che già ne abbiamo parlato e la tua risposta è stata ripetutamente negativa. Ma ti rendi conto che non puoi più soffrire? Devi impegnarti affinché le cose migliorino. Lo devi fare per te stessa, per la forza ed il coraggio che hai di lottare ogni giorno con la preoccupazione che hai di stare male».

    «Mamma cosa stai cercando di dirmi?».

    «Perché non prendi in considerazione l’idea di fare psicoterapia?».

    «Sì…».

    «Cosa sì?».

    «Voglio provare. Anche io sono stanca».

    «Parleremo con la dottoressa Ferentino, è la nuora di una mia cara amica ed ho molta fiducia in lei. È giovane e molto dolce, ti saprà accogliere ed aiutare. Va bene?».

    «Va bene mamma».

    Sono bastati pochi giorni per fissare l’appuntamento. Sono così preoccupati, desiderosi di vedermi guarita, che hanno fatto il possibile per farmi entrare in terapia al più presto. A dire il vero quella più preoccupata sono io; non solo per le crisi e per quello che si può celare dietro, più che altro per la paura che ho di stare al centro dell’attenzione, per la difficoltà che ho nell’esprimere le mie emozioni, per l’incapacità di sapermi fidare, per l’incondizionata testardaggine del mio silenzio.

    CAPITOLO 3

    È arrivato il giorno del primo colloquio. Sono in sala d’attesa con mia mamma. È un ambiente piccolino ma confortevole. Lo stile è misto: antico e moderno si fondono per dare una visione affascinante e per niente in contrasto della stanza. C’è armonia fra gli opposti e questo non può che attirare la mia attenzione. Avrei immaginato qualcosa di più allegro per il trattamento fornito, ma è questione di aspettative e soprattutto è la delusione di queste nel confronto con la realtà che fa cadere ogni certezza. Il punto è che a me non interessa niente dell’ambiente, non dei colori, né delle forme. Ho paura! Sono in piedi che cammino avanti e indietro, cercando di non essere prepotente con la mia presenza, poggiando lentamente il piede sul parquet che altrimenti emetterebbe un rumoroso suono ad ogni mio movimento. L’ultima cosa che voglio è farmi sentire! Mia mamma mi guarda dalla beata poltroncina di cui si è appropriata, consapevole della mia agitazione, della mia timidezza, del mio nervosismo. Ma non sa che i suoi occhi parlano più chiaro di me: anche lei sta morendo dentro, è agitata, preoccupata e riesco a leggere anche una lieve nota di imbarazzo.

    «Stai tranquilla. È solo un colloquio. Ti assicuro che ti troverai benissimo. Dai, vieni a sederti».

    «È meglio di no».

    Continua il mio andirivieni mentre in testa mi esplode il mondo: cosa le dirò? Cosa mi chiederà? Mi odierà? Sarò all’altezza della situazione? E se non dovessi piacerle? Se non mi dovesse accettare?... I miei pensieri sono interrotti da una voce dolce e flebile che con determinazione e padronanza, mista all’imbarazzo di un primo incontro, attira la mia attenzione.

    «Accomodatevi» sono le parole che annunciano la sua presenza.

    È minuta fisicamente, dolce e delicata negli atteggiamenti: leggera, si muove con armonia e coordinazione. Non c’è malizia nel suo sguardo, sola la bontà di chi sacrifica la propria vita per essere al servizio del prossimo. I capelli scuri, corti fino alla curva del collo sul quale aderiscono perfettamente come se quello fosse il tassello del puzzle al quale erano destinati, sono aggraziati su quel viso infantile che non mostra l’effettiva età. Ma quello che attira la mia attenzione sono i suoi enormi occhioni verdi che, messi in evidenza dalla luce che si specchia in essi, mostrano la franchezza e la sincerità con cui solo l’innocenza di un bambino può competere. Non c’è solo lei, ma il suo carisma, la sua grazia, il suo sorriso che riesce a tranquillizzarmi al primo accenno. Eppure, non è facile influenzare il mio umore. Non ero il tipo che ricambiava il sorriso solo perché era di dovere. Ero più quel genere di persona taciturno, un po’ isolato, che rideva solo se felice nel cuore. Ma purtroppo, era troppo tempo che le mie labbra non si schiudevano per mostrare una smorfia di piacere; così, per il bene di chi mi sta vicino, sono dovuta scendere a patti con me stessa e sforzarmi ad ammiccare anche quel briciolo di finzione che è la smorfia che perennemente giace sul mio volto.

    Entriamo. Quello che si presenta alla mia vista è uno studio spazioso forse il doppio della sala d’attesa. C’è una scrivania con una sedia dietro e due avanti. Ad attirare la mia attenzione è, però, un lettino medico di quelli che si vedono nei film; lo guardo sperando con tutta me stressa che non sia quello il posto a me riservato. Non voglio essere messa sotto un riflettore. La dottoressa ci invita a sederci. Siamo noi di fronte a lei. Sembra l’inizio di un duello: siamo in attesa che qualcuno faccia la prima mossa. Per fortuna è lei ad iniziare:

    «Irene, io già ho parlato con i tuoi genitori, spetta a noi il colloquio. Preferisci che tua mamma resti con te o vuoi rimanere sola?».

    «No... sola» sono le uniche parole che escono dalla mia bocca.

    Mamma esce da quel luogo destinato ed essere solo mio.

    Parliamo per un’ora, forse l’ora più intensa della mia vita. Andiamo d’accordo, o almeno io riesco a stare con lei. Quello che emerge è la mia difficoltà a separarmi da Mara, la mia gemella: il mio sintomo è dovuto all’ansia della separazione.

    APRILE 2014

    "Iniziare un nuovo cammino ci spaventa,

    ma dopo ogni passo ci rendiamo

    conto di quanto fosse pericoloso

    rimanere fermi".

    Roberto Benigni

    CAPITOLO 4

    È un mese che ho iniziato la psicoterapia. Un mese che le mie sedute vanno avanti a silenzi dovuti ad un mio blocco. Ma blocco di cosa? È questo il problema: non lo so. So solo che quando si tratta di parlare di me, la mia voce si trasforma nel più totale mutismo. La dottoressa non ha problemi a conviverci, per il momento. Mi aiuta a dargli forma, a comprenderlo, a non spaventarmi. Lei lo aggira, va oltre quel silenzio, arriva al fondo. Non so come faccia, ma riesce a comprendere la maggior parte delle cose che restano non dette.

    «Il tuo silenzio, il tuo corpo, i tuoi occhi parlano più di mille parole». Questo il suo modo di dire riguardo il mio atteggiamento remissivo. Non sapevo di essere così sotto controllo quando sono con lei: dietro ogni mio gesto riesce a leggere un significato che io non sono in grado di comprendere; questo mi spaventa un po’, ma non mi destabilizza. Quello che non mi sarei aspettata è che riuscissi a comunicarle tanto anche senza proferire parola. Pensavo che l’ostilità del mio silenzio fosse un limite, un qualcosa che mi sottraesse alla comunicazione, ed invece è quella mancanza che ha fatto sì che venisse fuori un altro modo di interagire con lei. Perché solo lei riesce a vedere oltre, solo lei riesce a interpretare il rumore del mio silenzio, solo lei si ferma ad osservare lì dove gli altri cessano di vedere. Fuori da quella stanza i miei spostamenti, i miei atteggiamenti non sono altro che quotidiana normalità; e i miei silenzi dannata stranezza.

    L’unica cosa che sono riuscita a raccontarle è la mia storia.

    Ho diciassette anni e sono una gemella monozigote. Lei si chiama Mara e, a mio parere, le si può attribuire l’aggettivo di perfezione. Non ci sono difetti nel suo fisico, non nel suo carattere, né nel rapporto con il mondo. Lei se la sa cavare in ogni situazione, sa affrontare i problemi, combatterli e vincerli. Ha un corpo invidiabile: è magrissima, longilinea, le curve al posto giusto, che giusto per lei non è, è donna e in quanto tale non potrà mai piacersi. Il suo andamento sensuale, attraente, seducente ma del tutto innocente. Non c’è malizia nella sua attitudine ad attrarre il sesso opposto. Tra la folla si riconosce per lo spettacolare color azzurro dei suoi occhi. Luminosi, discreti, docili, nascondono al mondo il suo vero essere che un po’ mi appartiene. Osserva in silenzio quello che la circonda. Sa essere minuziosa nel cogliere i più piccoli particolari. Una pecca che non posso non enunciare è la sua smisurata smania per l’apparenza. È così vanitosa e schizzinosa che potrebbero passare ore per prepararsi a uscire. È ritardataria, questo sì, e non poche volte abbiamo avuto diverbi per il suo fare lento e spocchioso. Ma a me piace così come è, altrimenti non sarebbe lei.

    Confrontarsi con la sua perfezione, nella vita reale, non è per niente facile. L’allegria, la spensieratezza, l’eleganza, la bellezza che accompagnano la sua presenza le permettono di essere costantemente circondata da qualcuno che non può resistere alla sua forza coinvolgente. Lei sa farsi accettare e sa lasciare il segno. La vedo ridere e scherzare, intraprendere nuove amicizie che non le si allontanerebbero mai, la vedo vivere e non posso non invidiare quella mia parte mancante. È come se alla nascita fossimo state un unico essere, successivamente scisso in due; peccato che a lei sia spettata la parte migliore: la parte che a me muore.

    Abbiamo frequentato le stesse scuole fino alla terza media. Non siamo mai state divise: dove andava lei, andavo io, la seguivo ovunque; ed ovunque l’avrei seguita ancora. Ero la sua ombra. Mai mi sarei immaginata una vita senza la sua presenza, senza la sua protezione, senza la sua guida. Non ho mai avuto una vita mia: lei viveva anche per me. Non si accorgeva che il suo fare determinava i miei comportamenti; il suo dire, i miei pensieri. Sono sempre stata nascosta dietro di lei, vivendo una vita che non era reale: mi rifugiavo nelle fantasticherie di un mondo che in quel momento apparteneva a lei.

    È arrivata, però, l’estate del 2011 e il mondo mi ha scaraventato contro il muro dell’incertezza. Quel muro che bisogna oltrepassare senza essere a conoscenza di quello che può nascondersi dietro. Il muro che separa il mondo dei bambini da quello degli adulti. Il muro della crescita.

    È stata per me un’estate di profondi cambiamenti: non solo il liceo, che stava per iniziare, mi avrebbe diviso per sempre dalla mia gemella; ma anche a casa non avremmo più condiviso la stessa stanza. Infatti, a mio discapito, è stata la stagione in cui ci siamo trasferiti in una casa in costruzione da anni. È molto più grande della vecchia, ragion per cui c’è più spazio per le stanze e, con l’innocenza e la spensieratezza che solo i bambini hanno, ci siamo intestardite per avere due stanzette differenti nelle quali ognuno avrebbe avuto il proprio spazio e avrebbe potuto dare sfogo alla propria personalità. Purtroppo i risultati di quest’avventata scelta li ho pagati sulla mia pelle nel momento in cui non avevo più nessuno dietro cui nascondermi. Al liceo lei aveva le sue amiche, i suoi professori, i suoi voti ed io, intrappolata nella gabbia dell’ingenuità, non sapevo come andare avanti senza il mio scudo. Mi sono così ritrovata in una classe di sconosciuti, in una città che non conoscevo, del tutto vulnerabile agli attacchi di un mondo che non accetto come mio. Sono riuscita a sopravvivere portandomi dietro il dolore di chi si ritrova improvvisamente in una realtà avanti anni luce rispetto alle proprie capacità. È come se un bambino, privo di esperienza, fosse stato gettato nel mondo degli adulti: deve imparare in fretta quello che tutti hanno appreso con il tempo, acquisito con certezza. Dovevo recuperare in pochi secondi quello che Mara mi aveva sottratto coprendomi le spalle. E come fare a tenersi al passo? Come seguire gli andamenti del presente senza smettere di imparare dal passato? Purtroppo questa corsa nel tempo mi è costata la felicità e la salute.

    La dottoressa, sentendo la mia storia, non può che confermare che la mia ansia è dovuta ad un processo evolutivo che la mia mente non ha avuto modo di compiere. È paura della separazione, paura degli altri, ma, soprattutto, paura di me stessa. Non riesco a crescere così rapidamente ed il mio corpo ha sviluppato un sintomo per dirlo al mondo, ma più di tutto il mio malore è un urlo della mia mente: il silenzio che accompagna quotidianamente la mia vita, purtroppo, ha nascosto emozioni che ora hanno trovato il modo per fuoriuscire.

    La terapia settimanale inizia a far parte della mia vita, ma con lei anche un malessere psichico che in breve tempo si sta trasformando in qualcosa di ben oltre la mia portata: non solo non riesco a parlare, a stare con gli altri, non più a sorridere, ma piano piano anche la mia voglia di mangiare sta diminuendo. Un po’ è il confronto con Mara che mi porta ad una voluta riduzione dell’alimentazione ma dall’altra è qualcosa che difficilmente riesco a controllare. Fatto sta che prima di iniziare la terapia la mia bilancia segnava un peso ottimale di 55 kg per 1,63 cm di altezza. Adesso il mio peso si è ridotto notevolmente a 49 kg senza svolgere alcuna attività fisica. Senza dubbio anche lo stress per la vita che sto conducendo ha portato un calo ponderale; ma quello che mi preoccupa non è la mia salute, bensì quella dei miei genitori. Sono preoccupati, nervosi, avviliti ed io vorrei tranquillizzarli, ma ormai non è più nelle mie capacità.

    CAPITOLO 5

    Oggi è Pasquetta e sto festeggiando la ricorrenza con i miei amici a casa del mio ragazzo, Raul. Ha una casa abbastanza spaziosa, ma quello che fa al caso nostro non è tanto l’interno, quanto l’immenso giardino nel quale abbiamo potuto trascorrere la giornata grazie, anche, al beneficio delle condizioni atmosferiche. Ho giocato a pallone, proprio come un maschiaccio; ma non ci posso fare niente: il calcio è la mia passione. Se mi offrite un pallone, non sono quel tipo di ragazza che propone una partita a pallavolo bensì preferisce una sana e salutare competizione calcistica. Questa mia attitudine è dovuta a mio fratello maggiore, Davide, dal momento in cui da piccoli mi allenava a calciare una mini-ball nel corridoio antistante la cucina. La cosa più divertente non era tanto la partita, quanto la corsa nel nascondere il nostro piccolo reato all’arrivo di mamma che, ovviamente, non fuoriusciva dal suo ruolo di garante della sicurezza, vietandoci categoricamente di giocare con la palla in casa.

    Sicuramente oggi, in questa giornata di festa, sono l’unica femmina che intende giocare, eppure Raul non me lo vuole permettere.

    «Sei troppo debole per sfrenarti dietro ad un pallone».

    «Non dire sciocchezze». Ovviamente io continuo a vedermi una balena in terraferma, nonostante le continue suppliche dei miei amici a riprendere qualche chilo.

    «Allora vieni con me: mangiamo prima e poi ti

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