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Quando Betta filava
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Quando Betta filava
E-book242 pagine3 ore

Quando Betta filava

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Info su questo ebook

Molto tempo fa, il mondo era pieno di meraviglie: folletti che burlavano i paesani, donne depositarie dei segreti delle erbe, cavalieri erranti in cerca di gloria e diavoli tentatori. Non era raro, per gli incauti viandanti, imbattersi in chimere e serpenti volastri, strigi e mannari. Ma solo chi aveva occhi attenti, e mente aperta, poteva ammirare i tesori nascosti negli anfratti delle Alpi Apuane e in Maremma, immergersi negli abissi del mare e camminare per l’antica Tirrenide.

Nelle pagine di questo libro rivivono storie e leggende dimenticate, creature fantastiche che popolavano la Toscana e, chissà, magari la popolano tutt’oggi, sfuggendo allo sguardo distratto dell’uomo moderno.

Quando Betta filava” contiene quindici racconti fantastici ispirati a leggende del folclore toscano, che offrono uno spaccato dell’immaginario della regione.

Col tempo, Jonathan aveva imparato che il diavolo esisteva davvero, in forme orribili e diverse, come esistevano torme di disperati pronti a evocarlo e a chiederne i favori. Aveva cacciato ed era stato cacciato, aveva visto gli orrori celati negli abissi del mare e nei boschi delle Alpi Apuane, creature dimenticate che attendevano nell’ombra il soffio del vento del riscatto.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2019
ISBN9788831910149
Quando Betta filava

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    Anteprima del libro

    Quando Betta filava - Alessio Del Debbio

    Rimbaud)

    IL DIAVOLO VEDE LUNGI

    Vista dall’alto della Torre delle Ore, Lucca sembrava una distesa di tetti color ardesia, che si spandevano a raggiera tutt’attorno, alcuni così vicini che Jonathan pensò che i palazzi fossero stati ammucchiati gli uni sugli altri, quasi i lucchesi avessero voluto sfruttare al massimo ogni spazio. Ma tra quegli antichi edifici, nei vicoli stretti della città dormiente, un’ombra si nascondeva al suo guardo attento.

    Jonathan la sentiva.

    L’aveva percepita subito, non appena varcate le mura, quella sensazione d’ansia e di fine incombente che anni di caccia gli avevano permesso di affinare. Così aveva sfoderato la spada d’oro, lasciando che i riverberi d’ancestrale potenza rischiarassero la notte, mentre Leo, al suo fianco, aveva messo mano all’arco, ma a parte qualche barbone rannicchiato sotto i portoni dei palazzi, la città era apparsa deserta, sprofondata in un silenzio irreale.

    C’era venuto spesso a Lucca, negli anni di gioventù, quando portava la sua ragazza a fare spese nelle boutique di Via Fillungo, mugugnando infastidito dietro pile di pacchi e vanità che non avrebbero salvato il loro rapporto.

    Ma quei tempi erano lontani e degli amori adolescenziali gli era rimasto appena il ricordo: adesso a Lucca ci veniva per cacciare. Era stato il vecchio Hob a dargli quell’ordine, il grande capo in persona, e anche se lo considerava un borioso incravattato, col culo sprofondato nelle poltrone del potere, gli doveva comunque obbedienza, tanto più che anche lo zio Jack aveva avvertito qualcosa, confermando i timori del leader dei Dodici.

    Così adesso era lì, in cima alla torre più alta della città, accanto a una banderuola di ferro con inciso il motto dell’antica Repubblica di Lucca: Libertas. E proprio per la libertà aveva scelto quella vita, per garantirla agli uomini ignari di ciò che strisciasse nelle tenebre del mondo.

    Mosse qualche passo sul tetto e gettò un’ultima occhiata sotto di sé, a Via Fillungo immersa nella bruma di una sera d’autunno, poi balzò nella cella sottostante, dove si trovavano le campane che da secoli scandivano il tempo dei lucchesi. Lo zio Jack gli aveva raccontato una storia, la prima volta in cui l’aveva portato sul campo, una di quelle che gli piaceva spacciare per mezze verità.

    «Pare che nel Seicento una nobildonna lucchese, Lucida Mansi, abbia tentato di strappar via la lancetta del grande orologio della torre, per fermare il tempo e spezzare un patto contratto con il diavolo, un patto che le aveva garantito l’eterna giovinezza».

    A quelle parole Jonathan s’era messo a ridere, ma lo sguardo serio del suo mentore l’aveva fatto arrossire e costretto a chinare il capo. Col tempo aveva imparato che il diavolo esisteva davvero, in forme orribili e diverse, come esistevano torme di disperati pronti a evocarlo e a chiederne i favori. Aveva cacciato ed era stato cacciato, aveva visto gli orrori celati negli abissi di fronte a Viareggio e nei boschi delle Alpi Apuane, creature dimenticate che attendevano nell’ombra il soffio del vento del riscatto.

    Un brivido lo assalì in quel momento, facendolo voltare verso la Torre Guinigi, qualche isolato più in là, dove Leo si era recato per tener d’occhio l’altra metà della città. I flebili raggi di luna illuminavano le fronde dei lecci sulla sommità della costruzione, che fremevano come esposte alla furia di un uragano, ma l’aria era ferma, stantia persino, al punto che a Jonathan si erano incollati i capelli sulla fronte. Chiamò l’amico e la sua voce echeggiò nel dedalo di strade della città medievale, perdendosi nella notte.

    Fu allora che esplose il lampo, poi un altro, squarciando la cima della Torre Guinigi con vampe di fuoco nero, e Jonathan vide enormi ali di tenebra sorgere dal giardino panoramico, per poi richiudersi in un abbraccio mortale. E Leo era là, a scoccar frecce e a recitare qualche antico mantra che potesse tenerle a distanza.

    Per Jonathan fu abbastanza. Agganciò un rampino alla balaustra della cella campanaria e si calò giù, rimbalzando a piedi uniti sul corpo della torre, fino ad atterrare sul tetto di un palazzo. Sganciò la fune e prese a correre verso la Torre Guinigi, saltando da un edificio all’altro, senza togliere gli occhi da quel vorticare di fiamme e tenebre che ne avvolgeva la sommità. I lecci piantati da Paolo Guinigi strillavano di dolore e in mezzo a quel dolore Leo stava combattendo.

    Jonathan strinse i pugni e imprecò. Aveva già perso troppe persone negli anni, altre aveva dovuto metterle da parte quando aveva scelto quella vita, quando era diventato un membro dei Dodici, ma Leo era l’unico amico che gli era rimasto, l’ultimo retaggio del suo passato, sopravvissuto, proprio come i lecci in cima alla torre, alla moria del tempo. E non avrebbe permesso che degli uccelli di tenebra glielo portassero via.

    «Strigi maledette!» ringhiò, giungendo infine sul tetto del palazzo di fronte alla Torre Guinigi.

    Subito uno stormo di creature oscure piombò su di lui, sbattendo le putride ali e allungando le zampe artigliate per graffiargli la pelle, ma Jonathan fu lesto a mulinare la spada d’oro. Ne squarciò un paio, ne trafisse altre, spingendo le restanti indietro, intimidite dal taglio luminoso della lama ancestrale. Una strige, con l’ala spezzata, si trascinò fino ai suoi piedi per azzannarlo, ma lui le piantò la spada tra gli occhi, osservando compiaciuto lo spegnersi di quei malvagi lumi giallognoli.

    Quel che restava dello stormo si disperse, dilaniato dal riverbero di luce che si levò dall’arma. Jonathan la tenne alta, rischiarando la cima della Torre Guinigi, da cui provenivano rumori di lotta, poi la ripose nel fodero dietro la schiena. Scagliò un rampino, fissandolo sotto una monofora, e iniziò ad arrampicarsi sul fianco della costruzione, proprio mentre un’esplosione di ombre e fumo la faceva tremare. Fece appena in tempo a vedere una sagoma precipitare di sotto che si ritrovò Leo addosso.

    L’urto lo sbilanciò e quasi perse la presa sul cavo, strapazzando il braccio sinistro, ma riuscì ad agguantare l’amico e a scivolare assieme verso il tetto più vicino. Ruzzolarono sul tegolato, fermandosi proprio sul bordo del tetto, in un acciottolio che risvegliò alcuni cani e che rubò a Jonathan un sorriso.

    «Almeno qualcuno non dorme!» ironizzò, mentre Leo si rimetteva in piedi e lo aiutava a fare altrettanto. Ma appena lo afferrò per un bracciò, Jonathan represse un gemito. «Spalla lussata» disse, prima di alzare lo sguardo verso la cima della torre, dove vampe di fuoco nero stavano divorando i lecci secolari. «Che diavolo è successo là sopra?»

    «Diavolo? Sì, forse c’è il suo zampino» borbottò Leo, ancora un po’ intontito.

    Jonathan notò l’espressione pensierosa, quasi corrucciata, e i tagli sul viso dell’amico, persino uno squarcio sulla tuta protettiva che dall’ascella correva fino al ventre.

    «Io… ho sentito qualcosa» disse Leo. «Sembrava provenire dal duomo. Mi sono sporto per guardare e sono comparse queste immense ali di tenebra che hanno avvolto la cima della torre».

    «Erano strigi, portatrici di guerre e conflitti civili. Mio zio dice che appaiono ogni volta che una carneficina è alle porte, per banchettare col sangue dei caduti».

    «Perché distruggere i lecci?»

    «Come?» esclamò Jonathan, mettendosi seduto a fatica.

    «I lecci della Torre Guinigi. Perché?»

    «Forse era te che cercavano».

    «Forse. Mi è tornata in mente una cosa che ho letto su un manuale di storia di Lucca».

    «Sempre letture leggere, eh?» disse Jonathan, tenendosi la spalla indolenzita, ma Leo non lo ascoltò, preso dalle sue riflessioni.

    «Secondo la leggenda fu Paolo Guinigi, Signore di Lucca agli inizi del Quattrocento, a piantare i lecci nel giardino in cima alla torre, lui a volere proprio i lecci. Sono gli alberi della fertilità e crescono solo su terreni felici, una protezione contro l’ombra. Quando Paolo morì, da solo, nella lontana Pavia, dopo la congiura che pose fine alla sua signoria, i lecci appassirono, piangendo la sua morte».

    «Quindi qualcuno morirà stanotte?»

    «Qualcuno, o la città stessa?»

    Per qualche secondo rimasero in silenzio, mentre le ceneri degli alberi secolari si disperdevano sopra Lucca, quasi fossero le lacrime di un angelo. Jonathan le fissò, infastidito per quell’irrisolta situazione, finché non notò che il loro fluttuare non era casuale.

    «Guarda! Seguono un tracciato! Vanno verso sud».

    Leonardo strinse gli occhi e annuì, stupefatto.

    «Anche dopo la morte, i lecci continuano a proteggere la città».

    «Dobbiamo seguir…» mormorò Jonathan, cercando di alzarsi, ma una fitta alla spalla lo piegò di nuovo a terra. «Prima però devi fare una cosa che mi farà urlare di brutto».

    Leonardo sorrise, si chinò e gli raddrizzò l’arto scomposto, strappandogli il primo grido di dolore di quella notte. «Come nuovo!» gli diede una pacca su una spalla e lo aiutò a tirarsi su. «Sei pronto?»

    «Sono nato pronto».

    Leo annuì e lo abbracciò, poi lanciò un rampino, fissandolo al terrazzo di fronte, e si gettò di sotto. Rimbalzò sul muro un paio di volte, finché non furono a terra. Una veloce occhiata al cielo e notarono che, oltre alle ceneri, qualcos’altro stava svolazzando sopra la città. Qualcosa di oscuro.

    «Le strigi si stanno radunando».

    Imboccarono Via Guinigi e presero a correre per le antiche strade, gli scarponcelli che sfioravano appena i sanpietrini della pavimentazione, due fantasmi a difesa degli uomini dormienti. Le porte tutte chiuse, le finestre sprangate, l’unico rumore il loro ansimare ritmato, pareva che una cappa d’ombra avesse avvolto la città; se non avessero spezzato quell’oscura malia, l’indomani gli abitanti si sarebbero svegliati?

    Jonathan scosse la testa, deciso a non pensarci. La sconfitta era una possibilità che i Dodici non riconoscevano. Noi o loro era il motto dell’organizzazione. Nessuna sfumatura ammessa nella crociata contro le creature sovrannaturali.

    «Si stanno ammassando sopra il duomo!» esclamò Leo.

    Anche Jonathan convenne, afferrò l’amico e deviò in una strada laterale, aggirando il palazzo delle poste e entrando poi in Piazza Antelminelli. Balzarono sulle mura del giardino di Palazzo Micheletti e gettarono un’occhiata all’ampia piazza rettangolare di fronte, a malapena illuminata da un paio di lampioni.

    Alla loro sinistra si innalzava la cattedrale di San Martino, in stile romanico lucchese, con il caratteristico portico a tre arcate, decorate con statue e bassorilievi, e il massiccio campanile a base quadrata che sovrastava la vecchia casa dell’Opera di Santa Croce e pareva vegliare sull’intera struttura. Sopra il complesso turbinavano, spinte da un impercettibile vento, le ceneri lignee degli antichi difensori della città.

    «È tutto troppo quieto» disse Jonathan, mettendo mano alla spada. Ma Leo gli fermò il braccio.

    «Prudenza! Non sappiamo con cosa abbiamo a che fare».

    «Non sappiamo neppure perché siamo qua. Voglio dire, cosa c’è nella cattedrale?»

    «Vari oggetti. Il Volto Santo, ad esempio» rifletté Leonardo.

    «Quel vecchio crocifisso di legno? Che qualche forza demoniaca voglia distruggerlo? Bah, nient’altro?»

    «La mannaia che fallì il tentativo di uccidere Giovanni di Lorenzo di Arras. Ah, anche il sepolcro di Ilaria Del Carretto, seconda moglie di Paolo Guinigi, opera di Jacopo della Quercia».

    «Questo è interessante, anche se non vedo cosa… ehi, guarda!» disse Jonathan, indicando una figura ammantata che stava avanzando guardinga verso la cattedrale, costeggiando il palazzo dell’Opera di Santa Croce. «Vorrei proprio farci due chiacchiere!»

    Leo capì le sue intenzioni, estrasse una freccia dalla punta in pirite e la scagliò, facendola esplodere proprio tra le gambe dello sconosciuto, che balzò indietro con un grido stridulo.

    Jonathan, nel frattanto, si era già calato di sotto dal muro e stava correndo verso di lui, con l’amico che gli copriva le spalle, continuando a scoccare frecce, per chiudere all’estraneo ogni via di fuga. Ma quando gli fu davanti, Jonathan non vide altro che un turbinare di tenebra e due ampie ali nere che si spalancarono, gettandolo indietro. Soltanto allora, voltandosi verso la facciata della cattedrale, percepì le strigi annidate nelle gallerie superiori, aggrovigliate alle colonne di marmo, in tacita e famelica attesa.

    «Che succede?» esclamò Leo, raggiungendolo. Jonathan si rialzò mentre la grande strige spiccava il volo, raggiungendo le sorelle e lasciando un logoro mantello dietro di sé. «Un trucco? Ma chi può addomesticare le strigi?»

    «Io posso» parlò allora una voce, sorprendendo entrambi. «Io che le ho evocate promettendo loro un banchetto di sangue». Leo fece per voltarsi, ma qualcosa lo trafisse alla schiena, inchiodandolo sul posto. Tossì, arrancò, cercò di liberarsi, ma non ottenne altro che sentire la lama più in profondità. Jonathan gridò, puntando la spada verso la figura comparsa alle spalle dell’amico.

    Alto e massiccio, con radi capelli fulvi e un filo di barba che incorniciavano un viso arguto, indossava il solito completo elegante con cui Jonathan l’aveva sempre visto alle riunioni dei Dodici, sprofondato in una poltrona di pelle a blaterare su quanto il loro operato tenesse gli uomini al sicuro.

    «Hob?» mormorò, quasi non credendo alla sua stessa voce.

    L’altro lo salutò, muovendo il braccio libero a simulare un inchino, ma senza mollare la presa.

    «Che stai facendo? Lascialo! Lascia…»

    «Un’altra parola e il tuo amico sarà paralizzato a vita. E no, nemmeno la rugiada delle fate potrà salvarlo stavolta» sibilò il capo dei Dodici. «Ora via la spada! Quella luce mi disturba».

    Jonathan esitò un istante, valutando la situazione, ma di fronte allo sguardo sofferente, ormai livido, di Leo, fu costretto a obbedire e ripose la lama nel fodero, tra mille imprecazioni che strapparono una risata al vecchio Hob.

    «Cosa c’è da ridere? E cazzo ci fai qua?»

    «Rido alle tue debolezze. Tutta quella tracotanza che hai sempre dimostrato, a cosa serve adesso? Jack ha sempre avuto troppa fiducia in te, ti ha affidato persino la spada di famiglia, che sei sempre così pronto a mettere in mostra, ma cosa potrai fare contro le forze che sto per scatenare?»

    «Quali forze? Che sta succedendo?»

    «Capirai. Tuo malgrado» ridacchiò Hob, prima di fischiare due volte. Subito un nugolo di strigi piovve su di loro, circondando Jonathan e afferrandolo per braccia e gambe, fino a sollevarlo da terra. Lui cercò di liberarsi, ma gli artigli delle bestie avevano trapassato tuta e pelle e quasi se li sentiva nelle ossa, intrisi di chissà quale oscuro veleno. «Tranquillo. Non morirai. Non adesso, e non tu» aggiunse l’uomo, prima di estrarre il pugnale e spingere Leo a terra con un calcio.

    «Brutto bastardo! Che fai? Fermo!» gridò Jonathan, ma le strigi lo stavano già portando lontano, in volo, verso le colonne della galleria più alta della chiesa.

    «Da là contemplerai la fine del mondo. Del tuo mondo, quantomeno. E io ne gioirò» disse il capo dei Dodici, poi afferrò Leo per i capelli e lo trascinò lungo la piazza, fino a gettarlo sulla scalinata d’ingresso alla cattedrale. Lì, il ragazzo tentò di reagire, calciandolo via, ma non appena si mosse per alzarsi venne raggiunto dalla lama di Hob alla caviglia, che gli strappò un grido furioso e lo fece crollare a terra. Un secondo affondo, stavolta nel cuore, e Leo sussultò un’ultima volta, poi rimase immobile.

    «No! No!» ringhiava Jonathan dall’alto colonnato, immobilizzato e costretto a guardare quel macabro spettacolo. Si dimenò, si scosse, torse persino le braccia in posizioni innaturali pur di sgusciar via da quella maledetta prigionia, incurante del dolore e del sangue che gli imbrattava la tuta da combattimento. Riuscì infine ad afferrare la spada e il solo estrarla bastò a impaurire le strigi, che allentarono la presa, permettendogli di liberarla del tutto e poi di mulinarla contro di loro.

    Ne colpì un paio, dilaniandole con fendenti di luce, poi fissò un rampino a una colonna e si calò giù, più in fretta che poté, lo sguardo fisso sul gladio che Hob stringeva in mano e che ancora grondava del sangue di Leo.

    «Troppo tardi» disse il capo dei Dodici, gettando il sangue sul muro alla sua destra. Sulle prime Jonathan non capì, poi vide il marmo illuminarsi e vivide scanalature comparvero a disegnare un labirinto circolare. Di certo Leo avrebbe saputo spiegargli il suo significato, lui che amava ficcare il naso tra i libri.

    Quel pensiero lo fece imbestialire, mentre terminava la discesa, fregandosene delle strigi che gli ronzavano attorno. Si lanciò su Hob prima ancora di toccar terra, la spada d’oro puntata avanti, ma in quel momento un’esplosione di luce lo investì. Riuscì solo a vedere il bastardo che sogghignava trionfante prima di essere spinto indietro e ritrovarsi, accecato e confuso, ai piedi della scalinata.

    Con un rombo che squarciò il silenzio di Piazza San Martino, i tre massicci portoni si spalancarono verso l’esterno e Hob varcò trionfante la soglia dell’ingresso centrale, continuando a portarsi dietro il cadavere di Leo. Le strigi sibilarono, squittirono, tremarono, vittime di un terrore che le portò a rimpiattarsi negli androni tra le colonne o in cima alle guglie del campanile, spettatori a distanza di qualunque macabro rito Hob avesse in mente.

    Jonathan si rialzò dolorante e lo seguì dentro la chiesa, notando come, al suo passaggio, le candele accese prendessero a tremolare, fino a spegnersi una dopo l’altra, lasciando soltanto un’unica fioca luce. Quella che proveniva da un sepolcro e che Jonathan intuì essere quello di Ilaria del Carretto.

    «Tu vedi lunge gli uliveti grigi che vaporano il viso ai poggi, o Serchio, e la città dall’arborato cerchio, ove dorme la donna del Guinigi» canticchiava Hob. «D’Annunzio, che gran poeta!» Gettò il corpo di Leo sopra il monumento funebre e

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