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E-book334 pagine5 ore

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Info su questo ebook

In una afosa serata di una torrida estate toscana, raccolto nel suo letto e circondato dall’affetto premuroso dei suoi cari, Silvano sta per morire.

Ma l’uomo, ormai anziano, non può ancora andarsene. Ci sono troppi segreti da svelare, troppi fili da riannodare, troppi eventi da tramandare, perché non se ne perda per sempre la memoria e, con essa, il senso. La trama di questi eventi è in gran parte custodita nell’archivio di Silvano, nella soffitta della antica casa colonica di famiglia, dove sono raccolti ricordi che narrano l’intera vita dell’uomo. Dai giorni passati sul fronte della Grande Guerra come giovane tenente, a quelli trascorsi durante il Fascismo come tecnico dell’Istituto Luce, che gli hanno fatto vivere il tragico periodo della Seconda Guerra Mondiale come osservatore privilegiato. Qui, fra diari, fotografie, pellicole e lettere, si ritrovano a piccoli pezzi – sapientemente sparsi nel corso del racconto come le tessere di un puzzle – le storie di un uomo e di una famiglia, che si intrecciano con quella di un Paese e ne riflettono le lacerazioni, le concitazioni e i grandi slanci. E qui, soprattutto, si rivela la storia di Mario, il giovane nipote di Silvano, protagonista di passioni struggenti che si delineano nel corso del racconto.

Mario ancora non lo sa, ma è figlio della tragedia, del tempo terribile in cui nasce e, soprattutto, dell’amore che con la sua forza impetuosa riesce sempre a trovare una strada per sopravvivere. 
(Barbara Mennitti – Sigmagazine)

Gianluigi Ciaramellari è milanese di nascita ma di origini pugliesi e marchigiane. Consegue il diploma di Geometra nel 1981 a Firenze dove, per trent'anni, svolge la libera professione arrotondando le poche entrate di Geometra facendo il cameriere, il barista e il venditore porta a porta. Dal 2014 gestisce un negozio di sigarette elettroniche. Fin da bambino gli piaceva annotare le sue avventure giornaliere tenendo diari, anno dopo anno. Crescendo ha cominciato a sostituire i racconti dell'accaduto reale in storie di pura fantasia, con un suo stile inconfondibile, molto vicino a quello dei romanzieri dei primi del '900. Non è uno scrittore "di genere", perchè a Gianluigi piace esplorare ogni tematica, scavando sempre in profondità nel terreno delle passioni umane.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2023
ISBN9791222080291
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    Anteprima del libro

    Aspettami - Gianluigi Ciaramellari

    I Rinaldi e Don Paolo

    Nei pressi di Montalcino, quando in estate le onde delle colline toscane son più vivaci e spumeggiano di grano maturo, là dove la terra si veste di mille colori e si fa più odorosa di inebrianti profumi, correva con la sua moto Guzzi il Priore del borgo di San Quirico D’Orcia. Viaggiava verso la colonica di Silvano Rinaldi, situata su un poggio isolato e circondata da cipressi secolari.

    Attraversando uno stretto sentiero di confine, tra un campo di girasoli e uno di papaveri, la sua tonaca sventolava e, vista dall’alto, pareva il tiretto nero di una cerniera che sembrava aprire e separare due fazzoletti di terra, uno giallo e l’altro rosso.

    Erano le due del pomeriggio di metà luglio 1950, ed era l’ultimo caldo estivo che Silvano avvertiva sulla pelle mentre sudava, disteso nel suo letto col vestito per le grandi occasioni, aspettando la morte, a cinquantacinque anni.

    Ogni tanto un leggero e quasi impercettibile alito di vento entrava dalla finestra della camera, ma sporadico davvero, come per mettersi al pari ritmo del debole respiro di Silvano.

    Pure entravano nella stanza i rumori della natura fuori da quella: il frinire delle cicale, attaccate a migliaia sui rami dei cipressi; il chiocciare delle galline nell’aia vicina alla colonica; lo sbatter d’ali di alcune colombe, che da quell’aia erano sempre attratte.

    E poi c’era il suono che Silvano tanto amava e che solo lui poteva udire, perché lo aveva dentro la testa e dentro al cuore, più che dentro le orecchie.

    Era il rumore del proiettore, del rullo anteriore della pellicola che si svolgeva, che passava davanti alla lente di proiezione e si riavvolgeva nel rullo posteriore.

    Era il suono della memoria e quel giorno mise il rullo più grande della sua vita, perché di quella ne era il fi lm completo.

    Don Giuliani fermò il Galletto sul ghiaino della corte, proprio di fronte al portone d’ingresso della colonica.

    Scese dalla moto e ne guardò con aria triste e rassegnata la carrozzeria, tutta polverosa della terra rossa del Senese, schizzata di fango e insudiciata sullo scudo frontale da numerosi moscerini spiaccicati.

    Si tolse il casco a scodella e gli occhiali protettivi per controllare meglio i danni a vista, di quel viaggio accidentato, al quale il suo nuovo gioiellino non era ancora avvezzo.

    Tirò fuori dalla tasca della tonaca un grande fazzoletto bianco candido e lo passò prima sulla scocca e poi, sovrappensiero, ci si asciugò il sudore della fronte, sospirando un amen verso il cielo.

    Lo distrasse il ricordo di quel drammatico evento vissuto nell’estate di sei anni prima, che gli tornò in mente solo nel rivedere il pollaio, che una volta era la porcilaia, dove si nascosero lui e Silvano con tutta la famiglia.

    A ridosso del muro di pietra della colonica, su un lato del fabbricato, c’era uno stanzino non più alto di due metri, coperto da uno spiovente di tetto precario in legno e tegoli.

    Sotto quei dieci metri quadri di terra ed escrementi di maiale (ora di galline), c’era un’angusta intercapedine fangosa dove, stando rannicchiati in meno di un metro d’altezza, ci potevano stare, stretti fi no a soffocare, anche otto persone adulte.

    E ci stavano, ci stavano, se potevano udire al di sopra, i passi svelti e minacciosi dei nazifascisti in fase di rastrellamento antipartigiani. Don Giuliani aveva abbassato il cavalletto proprio sopra la botola di accesso alla sotterranea galleria che conduceva a quel nascondiglio. Mosse il ghiaino con un piede, fi no a scoprire il chiusino in pietra e la sua mente tornò indietro, al giugno del ’44.

    ^^^^

    «Che Dio ci aiuti!» Esclamò Don Giuliani mentre strisciava all’indietro nell’oscura galleria, come una talpa.

    «Che ci aiuti la reticella! – ribatté Silvano, tirando le due corde che trascinavano il tappeto di ghiaia a ricoprire il chiusino – Forza! Fate presto, stanno arrivando!»

    Giunti nell’intercapedine sotto il porcile, si fecero piccoli, piccoli, raggomitolati come feti, tutti pigiati e con gli occhi verso l’unica fonte di luce, poca per la verità, che passava dal buco di scarico dell’acqua di lavatura. Ma più che gli occhi, a quel buco volgevano il naso, perché era anche l’unica presa d’aria.

    Don Giuliani aveva da poco compiuto trentadue anni e, avendo vissuto parte dell’adolescenza durante la guerra del ’15–’18, parte della giovinezza nel periodo fascista e ancora parte della maturità durante la Seconda guerra mondiale, considerò di doversi infine rassegnare al suo destino, confidando nell’eterno conforto dell’abbraccio del Signore.

    Dalla finestra del porcile entravano i raggi di sole di quell’afoso pomeriggio estivo che andavano a disegnare un rettangolo di luce intorno al buco di scarico.

    Proprio sotto e rivolti a quello, brillavano gli occhi di Silvano che, come fossero illuminati da una torcia vicina al viso, parevano bianchissimi e non si distingueva l’azzurro delle sue iridi.

    Di quegli occhi Don Giuliani ebbe paura. Per la prima volta in vita sua provò la sensazione del terrore contagioso. Se aveva paura Silvano, c’era da temere davvero.

    I tedeschi buttarono giù a calci il portone d’ingresso della casa, avendo prima sparato qualche colpo di pistola sui cardini.

    Quand’ebbero fi nito d’ispezionare le stanze e dopo aver razziato le scorte alimentari, uscirono fuori, sparando dei colpi in aria. «Sind alle weg!» (Sono andati via tutti!) Esclamò uno di loro.

    Aprirono la porcilaia e due soldati entrarono dentro, sparando subito una raffi ca di mitra su Poldo, il maiale che Silvano aspettava morisse di vecchiaia.

    «Italienische Schweinefl eisch!» (Maiale Italiano!) Ridendo forte. Il sangue di Poldo si incanalò nelle zanelle del pavimento e si riversò nello scarico, colando sugli occhi di Silvano.

    Don Giuliani fece molta fatica a cancellare dalla mente l’immagine di quegli occhi bianchi, tagliati dalla luce del sole che filtrava dal buco e lacrimanti di sangue rosso scuro, che pure da quel buco colava copiosamente.

    Quando capirono che i tedeschi erano andati via, Silvano fece cenno di aspettare ancora pochi minuti e invitò tutti a passare una mano nel fango, per portarsela poi al naso, respirando con quella vicino la bocca. La puzza era diventata insopportabile e l’aria cominciava a mancare.

    Poi, finalmente uscirono dal nascondiglio e stettero in silenzio con la testa rivolta al cielo e gli occhi socchiusi, per abituarsi di nuovo alla luce del sole.

    ^^^^

    Il portone della casa si aprì e Anna uscì fuori, fermandosi su una zona d’ombra che attraversava in diagonale gli assolati gradini d’ingresso. I capelli castani, raccolti in un morbido chignon, mettevano in risalto le mandibole spigolose e sebbene avesse un trucco leggero, la giovane donna aveva un aspetto seducente persino agli occhi di un prete. Si portò una mano alla fronte, come esibendo un saluto militare, ma lo fece solo per pararsi gli occhi dal riflesso del sole sullo specchietto della moto.

    «Don Paolo!»

    «Buongiorno Anna, come state?»

    «Che devo dirvi? Il babbo ci sta lasciando. Prego, accomodatevi.» Don Giuliani seguì Anna all’interno della colonica. Era già stato in quella casa altre volte per le benedizioni pasquali e tutte le volte che passava da quelle parti, per altri uffizi, si era fermato a prendere un caffè e a fumare un toscanello, scambiando qualche ricordo con Silvano. Qualche volta vi aveva pure pernottato.

    Il tempo pareva essersi fermato agli anni ’20, tra le mura della colonica. L’età e la consistenza di quella casa avevano stretto un tacito accordo tra loro, un impegno a mantenere intatti i ricordi degli eventi che successero dentro e fuori.

    Anche il mobilio era lo stesso da anni, incorruttibile testimone dei fatti che vi si posarono sopra.

    Fatti che divennero ricordi che, come polvere finissima, penetrarono nel legno, nei tessuti e in tutti gli oggetti.

    Avvertendo nell’aria l’odore di quella storia e volendole dimostrare la sua compassione, Don Giuliani passò una mano ad accarezzare la specchiera con appendi abiti e ombrelliera, che si trovava nell’ampio ingresso. Ci si specchiò e si accorse d’avere il viso sporco di terra. Guardò il fazzoletto che aveva ancora in mano e si dispiacque d’essersi presentato alla sua ospite così conciato, ma s’intenerì pure del fatto che la donna non glielo avesse fatto notare, sicuramente per non farlo sentire a disagio.

    «Mamma, è arrivato Don Paolo!» Disse Anna entrando in cucina. Adele era seduta al tavolo, intenta a sbucciare dei fagioli. Sciolse il foulard che raccoglieva i suoi lunghi capelli, un po’ neri e un po’ argentati, pur avendo da poco compiuto cinquantaquattro anni. Sollevò il viso e i suoi occhi erano lucidi di lacrime appena versate. Si pulì le mani con uno strofinaccio che aveva in grembo; quindi, si alzò e frettolosamente si ricompose la camicetta, abbottonandola fi no al colletto.

    Don Giuliani entrò subito dopo e quando vide Adele, le andò incontro per abbracciarla stretta. «Donna Adele! Fatevi forza!»

    «Don Paolo! Siamo tutti nelle mani di Dio e tra poco Silvano sarà tra le sue braccia.» Rilasciò un sospiro e lo soffocò nella tonaca del prete. Stettero abbracciati come due fratelli che non si vedevano da anni. Poi, Adele si staccò per prima e invitò Don Paolo a sedersi. «Gradite un bicchiere d’acqua fresca? – e rivolgendosi a sua fi glia – Anna prendi dell’acqua per favore.»

    Don Paolo invece andò al lavello della cucina, aprì il rubinetto e con le mani a cucchiaio raccolse dell’acqua e ci si bagnò il viso per pulirsi, più che per rinfrescarsi.

    «Perdonatemi, donna Adele – disse con il viso ancora bagnato, mentre Anna gli passò un tovagliolo per asciugarsi – poc’anzi mi sono asciugato il sudore con un panno, senza accorgermi ch’era sporco!» Adele aveva visto visi sporchi di fango e morchia tante volte; visi che avrebbe comunque voluto baciare, per ringraziarli di poter ancora sorridere, nonostante le ferite, nonostante le bombe che, quando scoppiavano vicino, toglievano il sorriso insieme a tutta la faccia e proprio per questo Don Paolo non avrebbe voluto farsi vedere così. «Don Paolo – disse Anna, con aria preoccupata – parlate voi a mia madre, convincetela voi, se potete.»

    «Non ci riuscite proprio, donna Adele? Non ve la sentite davvero di assisterlo fi no alla fi ne?» Chiese Don Paolo, quasi supplichevole. «No, non voglio vederlo così. Fino a ieri pomeriggio rispondeva e abbiamo parlato un poco. A tarda sera poi, ha chiuso occhi e bocca e non li ha più riaperti. Silvano è pronto, lo so. Si sta già confidando col Signore, si sta già raccomandando a Lui. Non lo voglio disturbare.» Adele si rimise seduta e ricominciò a sbucciare i fagioli, abbassando la testa, a voler nascondere le lacrime.

    «Don Paolo, venite su – comandò Anna – venite con me. C’è anche mio figlio Mario, di sopra. Non si è mai allontanato dal nonno da ieri notte.»

    Il piano terra della casa era composto da tre ampie stanze: il salotto con un grande camino, la camera per gli ospiti e la cucina, anch’essa col camino.

    Dal disimpegno di ingresso si accedeva, con una scala rivestita di cotto, al piano primo dove c’erano altre tre camere oltre al bagno, e poi la scala proseguiva a raggiungere la mansarda, che una volta era il fienile della colonica, grande quanto la superficie di tutta la casa, sotto un tetto a padiglione.

    Prima di aprire la porta della camera dove giaceva Silvano morente con il nipote Mario ad assisterlo, Anna si rivolse al prete, parlandogli a bassa voce: «Non vi impressionate, lo troverete molto dimagrito, la malattia lo ha consumato ma con la testa è ancora lucido, almeno fi no a ieri pomeriggio lo è stato.»

    Trattenne la mano sulla maniglia della porta, aspettando una parola da Don Paolo, o forse per dargli il tempo di prepararsi a vedere il suo amico come non lo aveva mai potuto nemmeno immaginare.

    L’altro annuì e Anna aprì lentamente la porta.

    Una sottile linea di luce attraversò il corridoio allargandosi e proiettandosi sulla parete a destra del prete illuminando un quadro che raffigurava un uomo seduto al tavolo di un’osteria, con un bicchiere di vino in mano.

    Gli occhi di quell’uomo erano fissi su quelli di Don Paolo, quando lui si voltò verso il dipinto. Sembrava che volesse levare il calice per brindare con lui, in nome di una sincera amicizia.

    ^^^^

    «Don Giuliani, prendete posto qui con noi!» Silvano lo invitò al suo tavolo con un cenno di mano, mentre con l’altra chiamò l’oste a servire un terzo bicchiere. Il giovane prete era entrato in quell’osteria di Frascati, verso le undici e trenta, la mattina dell’otto settembre del ’43, mezz’ora prima delle incursioni aeree degli Alleati, mezz’ora prima dell’inferno.

    «Venga, si ricorda di mio nipote Mario?» Era un bambino di cinque anni il nipote. Magro, come tutti i bambini di quell’età e come tutti gli adulti pure, a quei tempi.

    «O che gli date il vino a codesto pezzettino?» Disse Don Paolo, togliendosi il basco e posandolo sul tavolo insieme al breviario. «Sì, ma gli è annacquato, e poi... che gli ho a dare il latte, dopo le cozze? Ahahaha!» Risero. Ovviamente scherzava, sulle cozze.

    Entrambi erano toscani, di Montalcino. Si erano conosciuti in un cinematografo nel 1932, quando Don Paolo aveva vent’anni ed era seminarista, mentre Silvano aveva già trentasette anni. Il primo si trasferì a Roma per i suoi studi teologici, il secondo invece, già ci abitava da qualche anno, perché fu assunto dall’Istituto Luce come tecnico addetto ai montaggi cinematografi ci.

    Si rividero sul treno per Torrenieri, nella stessa carrozza, chiacchierarono per tutto il viaggio, sfoggiando il loro accento toscano che orgogliosamente si ostinavano a conservare. Si incontrarono ancora in qualche altra circostanza e così, piano piano, tra i due nacque una solida amicizia, nonostante la differenza d’età.

    «Allora, Silvano, che ci fate a Frascati?» Chiese sedendosi e facendo una carezza a Mario, che restò a testa bassa, intimidito.

    «Per lavoro, Don Paolo. Son venuto a prendere le pellicole girate al Comando tedesco. Ho portato con me mia fi glia Anna e mio nipote, alloggiamo in una pensione qui vicino ma scenderemo a Roma nel pomeriggio, già stasera mi metterò al montaggio. E voi?»

    ^^^^

    «E voi?» Chiese Mario, quando il prete entrò nella stanza del nonno. Era ancora magro Mario, occhi grandi di cerbiatto impaurito, labbra piene e sensuali come quelle di sua madre, sempre distese in un parvente accenno di sorriso e il viso dai lineamenti gentili che nascondeva tuttavia un’anima accesa da grandi passioni.

    «Ciao Mario, son venuto a salutare il nonno.» Don Paolo girò lo sguardo su Silvano disteso sul letto, già vestito per l’ultimo viaggio. «Tanto ‘un la sente e ‘un la vede, epperò gli è una visita inutile.» Mario stava seduto vicino al letto, non si alzò per salutare il prete, né lo guardò quando lo sentì entrare. Non toglieva gli occhi dal nonno. Aveva deciso di guardarlo fi no a quando non avesse smesso di respirare. Non voleva perdersi neanche un secondo, di quei pochi minuti che gli restavano da vivere.

    «Magari no, ma le visite ai malati non sono mai inutili.» Don Paolo osservò meglio il suo amico Silvano. Certo non lo avrebbe riconosciuto, se non fosse che si trovava nella sua casa e con la sua famiglia, se non fosse che gli avevano detto per telefono di venire al più presto, per poterlo trovare ancora vivo, ancora in grado di ricevere da cosciente, la sua benedizione.

    Sotto la finestra spalancata, c’era un tavolino ricoperto da un asciugamano bianco e sopra erano presenti medicinali, siringhe, garze. Un odore pungente di iodoformio si avvertiva nella stanza, tanto forte da tenere fuori le zanzare e altri insetti.

    Rilasciato sul letto, dentro vestiti più larghi di lui di almeno tre taglie, pur essendo i suoi, Silvano appariva come un vecchio prosciugato dalla sofferenza. La sua pelle era raggrinzita come carta pecora stropicciata, le mani ridotte a scheletro, il viso lungo con gli occhi infossati come se gli mancassero i bulbi oculari e la bocca socchiusa, a mostrare una dentatura ingiallita dalle troppe sigarette fumate. Il colletto della camicia era abbottonato e stretto da una cravatta, il cui nodo era più grosso del collo che stringeva. Non era Silvano l’uomo disteso.

    Erano solo abiti, con dentro ciò che di lui era stato sgonfiato, risucchiato dalla bocca famelica e impietosa del cancro.

    Era stato un uomo forte, coraggioso e sempre disposto ad aiutare il prossimo. Era stato un uomo generoso, di cuore e di portafogli. Ora, senza più forze, attendeva che il cuore cessasse di pulsare. Però Mario si sbagliava. Silvano sentiva ancora i suoni e le parole, pure quelle sussurrate. Vedeva, attraverso i suoni che udiva, visualizzava nella sua mente e senza sbagliarsi, ciò che a lui intorno accadeva. Anni di montaggi cinematografi ci per l’Istituto Luce, lo avevano abituato ad associare le immagini ai suoni. Molte volte seguiva il lavoro dell’ingegnere del suono, che registrava il rumore giusto all’immagine da proiettare. Conosceva tutti i rumori.

    Riconosceva dal tono delle voci il loro stato emotivo, dal suono dei passi ne indovinava la distanza, sapeva che silenzio fa il dolore, come urla la disperazione, quanto affanna la paura. Sapeva dove volava una farfalla, intuiva dove quella si posava.

    Capiva da dove proveniva un aereo e dove poteva cadere una bomba che quello sganciava. Questa cosa la imparò per ultima, quando si augurò che non dovesse servire più a nulla saperlo.

    Don Paolo tirò fuori dalla sua borsa un aspersorio, mentre si avvicinò al naso di Silvano per sentire se respirasse ancora. Mario si prese il viso tra le mani e cominciò a singhiozzare. Era arrivata l’ora, quella che tante volte il nonno aveva saputo rimandare, con il suo coraggio, il suo sangue freddo, con quella forza temprata dalla fatica di vivere in un mondo spesso ostile, stando sempre in guardia persino da chi gli sembrava l’amico più caro.

    Il prete si chinò su Silvano e gli sussurrò due domande: «Sono Don Paolo, mi sentite? Volete darmi la vostra confessione?» E stette con l’orecchio vicino alla bocca del suo amico, finché quello bisbigliò qualcosa, quasi senza muovere le labbra: «Padre... il padre...» E si riaddormentò.

    Anna, ch’era rimasta sulla porta a lasciarsi carezzare dalla leggera corrente d’aria di riscontro, provò invece un brivido gelido alla schiena, nel vedere il babbo reclinare il capo da un lato, come fosse spirato. Strinse le mani al petto e corrucciò la fronte, in un gesto di dolore e di preghiera insieme.

    «Si è solo addormentato – disse Don Paolo, rialzandosi – è una roccia d’uomo, la morte non lo avrà facilmente.»

    Mario scosse la testa: «Quanto deve soffrire ancora? Perché Dio non lo lascia in pace?»

    Anna si abbassò sul babbo e lo baciò teneramente sulla fronte, poi guardò suo figlio con uno sguardo che lo attraversò senza alcuna espressione, per poi fermarsi sull’aspersorio nella mano del prete, mentre disse: «Don Giuliani, dategli la benedizione, non credo che il babbo abbia la forza di confessarsi, sono sicura che dentro di sé lo ha fatto.»

    Don Paolo prese dalla borsa la sua stola, la baciò e la indossò sulle spalle, questa ricadde srotolandosi sul petto e quasi si udì il fruscio della seta, nel silenzio assoluto che gravò nella stanza e, così parve, in tutta la campagna circostante.

    «Chiamo la mamma.» Disse Anna.

    Il prete fece un cenno di assenso.

    Mario si alzò in piedi e a mani giunte sul ventre, attese il triste rito, con la mente che aveva già preso per mano i ricordi che aveva del nonno, tanti, per ripassarli tutti.

    Era suo nonno ma fu anche suo padre, perché l’uomo che gli dette la vita non l’aveva ancora conosciuto.

    Anna rientrò poco dopo nella stanza con la madre, tenendola per un braccio, forse temendo un suo malore. Le due donne si misero vicino a una sponda del letto, dall’altra parte si mise Mario. Don Giuliani si avvicinò a Silvano, dallo stesso lato di Mario e, con il pollice unto dell’olio benedetto, gli segnò una croce sulla fronte e una sulle mani recitando: «Questa Santa unzione affinché l Signore ti aiuti con la sua piissima misericordia e con la grazia dello Spirito Santo ti liberi dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi.»

    Poi si portò ai piedi del letto, lesse dal suo breviario alcune frasi in latino e infine sollevò in aria l’aspersorio scuotendolo tre volte da sinistra a destra, per dare la benedizione a Silvano.

    Le gocce dell’acqua benedetta brillarono nell’aria, attraversando un fascio di luce calda che proveniva dalla finestra.

    Alla vista di quei minuscoli bagliori, Mario fu scosso dal ricordo di quel giorno che, non solo per lui, fu il giorno più terribile ch’ebbe mai vissuto.

    ^^^^

    L’osteria dove Mario stava bevendo vino annacquato con il nonno e col giovane prete era situata nella parte più alta di Frascati e, verso le dodici, il suono della sirena antiaerea di Piazza Roma, si udì chiaramente. Furono tre lunghi e tragici urli acuti: Uuueeeeiii...Uuueeeiii... Uuueeeiii...

    I Castelli Romani, in quel periodo, pullulavano di tedeschi. Proprio a Frascati si era insediato l’Alto Comando OBS, guidato dal Feldmaresciallo Kesselring.

    Tre soldati tedeschi si trovavano pure in quell’osteria, seduti a bere, parlando a voce alta e scherzando tra loro, quando l’oste, un certo Cesare, richiamò tutti i presenti a rifugiarsi velocemente nella cantina: «Venite qua sotto, non avrete il tempo di raggiungere il ricovero più vicino!» Aprì la porta che accedeva alle scalette per la cantina e questa era una stanza sotterranea, umida ma abbastanza spaziosa per ospitare una decina di persone, apparentemente sicura, in pietra e mattoni con soffitto a botte. Silvano dette un’occhiata fuori dai vetri di una finestra e vide la gente per strada che correva verso i ricoveri. Lui scelse di dare ascolto a Cesare e prendendo per mano Mario, sollecitò anche Don Paolo a scendere nella cantina. Li seguirono anche i tre tedeschi.

    L’osteria era al piano terra di un piccolo caseggiato a due piani, al piano terra c’era l’attività e al piano primo c’era l’abitazione del proprietario.

    C’erano, fi no a quel giorno.

    Quando furono tutti giù, Cesare richiuse la porta, per precauzione. Si misero a sedere in sette, tra qualche damigiana di vino e pochi salumi appesi. Sebbene in quel periodo la fame era il bisogno più urgente da soddisfare, la vista che interessò di più gli uomini, era quella da una feritoia a bocca di lupo, da dove si poteva vedere ciò che accadeva fuori.

    E lo videro, per pochi istanti, riuscirono a vederlo.

    Un lontano ronzio si fece via via, più forte e divenne come un tuono brontoloso e prolungato, in poco tempo fu assordante e sembrò non finire mai. Decine di B–17 volavano alti sui Castelli Romani e quando furono su Frascati si alzarono ancora di quota per evitare la contraerea e sembravano uno sciame di gigantesche cavallette fameliche. I quadrimotori delle Fortezze Volanti, con le possenti ali, passando oscurarono il sole, lasciando dietro di loro centinaia di grappoli di bagliori metallici. Come se non vedessero l’ora di liberarsi d’una pesantissima zavorra, gettarono una pioggia di bombe che precipitarono sulla città.

    Mario non ricordò quale fosse l’ultima esplosione, ma ricordò la prima. La prima era stata l’inizio di una concatenazione di centinaia di esplosioni e di boati, preannunciati da sibili terrificanti, che si sovrapposero alle grida disperate di gente che non era riuscita a rifugiarsi e che veniva dilaniata all’istante, mentre cercava di correre a zig–zag verso un qualsiasi riparo.

    La cantina in cui si erano nascosti tremò molte volte e si udì il rovinare di pietre e mattoni del locale sopra di loro.

    Certo che, se una sola di quelle bombe avesse centrato quel piccolo fabbricato, lo avrebbe ridotto in polvere.

    Silvano sperò nella fortuna, quella sua amica fortuna che non lo aveva mai abbandonato fi no ad allora sebbene molte volte gli eventi che fu costretto a vivere la misero in seria difficoltà.

    Dalla bocca di lupo non si vide più nulla e divenne solo tutto un fumo rosso di fuoco, di gas incendiato, di polvere incandescente e pietre che schizzavano da tutte le parti.

    Una persiana del primo piano soprastante cadde giù a mo’ di ghigliottina e otturò la bocca di lupo.

    Fu un miracolo, altrimenti sarebbero tutti morti asfissiati. Riusciva a filtrare solo una debole luce spettrale e un pulviscolo violaceo, che si diramava come lunghe dita della Signora morte in cerca di vite da rapire.

    Quelle dita avrebbero trovato sette corpi rannicchiati su se stessi che, come sacche piene d’acqua, vibravano tremanti dalla paura, sussultavano ad ogni esplosione vicina, e non avevano più facoltà di udire i suoni, ché le orecchie erano assordate, non avevano più luce per guardarsi intorno, ché la corrente era saltata ovunque.

    Le bombe continuavano a cadere ed esplodere, una crepa si aprì sul soffitto e frammenti di calcina e polvere di mattoni scrosciarono giù, sulla testa di Silvano.

    Dopo un’ora che parve un tempo infinito, un’ora di tre ondate di bombardamenti, di poco intervallate tra loro, regnò un drammatico silenzio, rotto solo da lamenti di persone o di animali, udibili anche nella cantina. Un’ultima scossa, provocata dal crollo di una facciata di un palazzo vicino, fece smuovere la persiana che tappava la feritoia e nella cantina entrò di nuovo la luce, insieme alla speranza. Tutto insudiciato, con il viso infarinato di polvere bianca e rossa, Silvano guardò con quei suoi occhi azzurri Mario, occhi che si aprirono sul ragazzo come si aprono delle feritoie tra le nuvole grigio piombo, mostrando il blu del cielo: «Adesso usciremo da qui. Non temere

    Mario, stammi sempre vicino.»

    Il bambino voleva piangere ma si trattenne, era ancora troppo preso dal terrore per qualcosa di orribile, che avrebbe potuto fare molto male a lui e al nonno.

    Il piccolo Mario aveva già vissuto l’esperienza dei bombardamenti altre volte, abitando a Roma con la mamma e i nonni. Aveva già visto la morte in faccia, seppure non ne comprendeva ancora il senso. Con il visetto rigato da due lacrime, che scavarono due solchi tra la polvere sulle guance, pose al nonno quella domanda che lo tormentava fi n da quando erano scesi in cantina: «La mamma starà bene?» Silvano sapeva che Anna si sarebbe rifugiata nel ricovero vicino alla pensione dove alloggiavano. Si pentì dell’errore che aveva fatto, nel portarsi dietro fi glia e nipote,

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