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Tra le pietre
Tra le pietre
Tra le pietre
E-book360 pagine4 ore

Tra le pietre

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Info su questo ebook

Elisa Lynch, irlandese, lasciato il marito incontra a Parigi Francisco Solano López, futuro presidente del Paraguay. Delfina Vedia sposa a Montevideo Bartolomé Mitre, futuro presidente dell'Argentina; il loro amore nasce tra i riferimenti a "La Divina Commedia". Elisa sarà l'amazzone della resistenza del Paraguay nella cruenta guerra contro Argentina, Brasile e Uruguay - con Mitre al comando della coalizione - durata cinque anni malgrado la disparità di forze: la donna seppellirà con le sue mani il marito e il figlio. "Tra le pietre" attraversa le pieghe del XIX secolo con rievocazioni testuali, tra cui primeggia la traduzione della Commedia che occupò Mitre per quaranta anni. Incontreremo Flaubert, la figlia di Marx, Hugo, Napoleone III, Sarmiento, successore di Mitre, Juan Manuel de Rosas, controversa figura della storia argentina, avventurieri, il nonno di Borges, Dante Gabriel Rossetti, Alberdi, figura di spicco nello sviluppo dell'Argentina dell'Ottocento, e Ernesto Guevara, che nel suo rifugio di Praga è catturato dalle note di Rubber Soul. Il mistero scorre sulle pietre di un edificio crollato, forse a Buenos Aires, sotto lo sguardo di uno spettatore immobile nelle macerie.
LinguaItaliano
Data di uscita29 feb 2020
ISBN9788894966725
Tra le pietre

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    Anteprima del libro

    Tra le pietre - Miguel Vitagliano

    Table of Contents

    Miguel Vitagliano - Tra le pietre

    Miguel Vitagliano - Tra le pietre

    (I)

    1

    2

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    (V)

    (I)

    (II)

    (III)

    (IV)

    NOTE AL TESTO

    Miguel Vitagliano - Tra le pietre

    titolo originale: Enterrados

    traduzione dallo spagnolo e cura di Diego Símini

    Opera pubblicata nell’ambito del Programma Sur di supporto alle traduzioni del Ministero   degli Affari Esteri, del Commercio Internazionale e del Culto della Repubblica Argentina

    Obra editada en el marco del Programa Sur de Apoyo a las Traducciones del Ministerio de Relaciones Exteriores, Comercio Internacional y Culto de la República Argentina

    Prima edizione | Edhasa, Buenos Aires, 2018

    Musicaos Editore, 2019

    Via Arc. Roberto Napoli, 82 | 73040 Neviano (Le)

    tel. 0836618232

    info@musicaos.it

    www.musicaos.org

    Musicaos Editore

    Dicembre 2019 | Vela Latina, 1

    Progetto grafico | Bookground

    Foto di copertina Pixabay

    Isbn Cartaceo 9788894966619

    Isbn Ebook 9788894966725

    Miguel Vitagliano - Tra le pietre

    traduzione dallo spagnolo e cura di Diego Símini

    A Moni, per ognuno dei giorni

    (I)

            "Yo creo que él creyó que yo creyera,

    que las voces las daban las gargantas

    de gente que a la vista se escondiera."*

    Bartolomé Mitre, trad. Divina Commedia

    *Credo che lui credette che io credessi/ che le voci venivan dalle gole/ di gente che alla vista s’ascondesse.

    La terzina originale di Dante: Cred’io ch’ei credesse ch’io credesse/ che tante voci uscisser, tra quei bronchi,/ da gente che per noi si nascondesse (Inf.         XIII, 25-27).

    Si osservi che Mitre interpreta bronchi come gole.

    1

    Credo che fu aprendo gli occhi che si accorse di essere sepolto, non prima. Aveva metà del corpo sotto le macerie. Gli bruciavano gli occhi e se li sfregò; doveva essere per la polvere che non la finiva di volteggiare. Quel bruciore intenso era tutto quello che sentiva. Forse non era svenuto e ora strizzava le palpebre per non vedere quello che ormai sapeva.

    Da qualche parte, dietro la sua testa, filtrava un fascio di luce in cui galleggiavano granelli di polvere.

    Nemmeno un rumore, solo quello della sua mano che strusciava gli occhi, il naso e le labbra come volesse strapparsi via la sete. Doveva respirare con calma, senza tentare di muoversi. Parecchio più di metà del corpo in realtà; era sprofondato in piedi. Non verticale ma lievemente inclinato all’indietro. La testa e un braccio rimanevano liberi, il resto era perso nel fondo senza dare segnali di dolore. Poggiò il collo per quanto poté. Con la mano alzata interruppe il fascio di luce. Doveva essere la luce di un telefono cellulare con un resto di batteria o una di quelle piccole torce che si attaccano ai portachiavi e che qualcuno era riuscito a toccare all’ultimo momento.

    Non ricordava nulla.

    La mano sul volto. Adesso se ne accorgeva: aveva una ferita dalla guancia fino al collo. Forse si estendeva anche oltre ma non la sentiva. Era quello il bruciore che gli vibrava in volto; di sicuro era rimasto svenuto un bel po’ perché la ferita non sanguinava più.

    Non c’era traccia di vestiti.

    Non pensare. Questo disse, con voce ferma, per darsi coraggio. Mosse la mano nella luce. Credo che abbia agitato le dita a caso come se tutto lui fosse quella mano. Si impegnava a reprimere il lamento per sciogliere il danno che lo aveva provocato.

    Non era la prima volta che sussurrava una massima di Marco Aurelio; forse ne aveva buttata là un’altra aprendo gli occhi. Ripeté che tutto era effimero, sia il ricordo sia ciò che il ricordo si ostinava a trattenere. Ancora un pensiero di Marco Aurelio, non suo. Chi era lui? Se lo ricordava?

    Sopra la testa due travi incrociate sostenevano una lastra di muratura che non riusciva a toccare. Macerie tutt’intorno. Blocchi accavallati, cavi e tondini contorti. Resti di cemento armato. A nulla serviva pensare.

    Credo abbia detto che l’importante era sapersi salvo in quel guanto di pietre. Lo spazio era più grande ai lati, non molto. Forse era più ampio quello che aveva dietro, da dove veniva la luce. Una cavità calata nella clausura, ma nemmeno un grido altrui.

    Distruggere il lamento, cancellarlo. Era lì, il resto era effimero.

    Il sepolto parlava per convincersi. Diceva che il maggior pericolo era l’impazienza, smuovere le macerie e finire schiacciato. Nessuno sarebbe venuto a soccorrerlo, doveva scolpire questa certezza nelle pietre. Non sarebbero arrivati in tempo, anche se avessero tentato. Scolpirlo con gli occhi in ogni maceria per non dover ricordarlo, sì. René Char: la lucidità è una ferita molto vicina al sole.

    Sottolineava le frasi nell’aria. Sperare era inutile e non doveva fermarsi sull’inutile. Char aveva scritto quella poesia quando era il capitano Alexandre nella Resistenza.

    Non poteva nemmeno fidarsi di avere i piedi rivolti verso terra. La pressione che sentiva dentro la testa gli fece pensare che forse aveva i piedi verso un lato e la testa in un’altra direzione. Notò una macchia di colore tra le macerie, quasi immune alla polvere. Riusciva a indicarla con le dita, non a toccarla. Un frammento di mattonella, un triangolo azzurro che si perdeva sulla punta di un dito. Una vecchia mattonella di un vecchio edificio dove non ricordava di essere stato.

    O non voleva ricordare. Non era più lo stesso: non voleva ricordare e nemmeno ricordava.        

    2

    Rimase presto in penombra. La luce si era esaurita. Niente più cellulare o torcetta di portachiavi. Nulla da pensare. Le macerie ardevano dal freddo. Non sapeva se la polvere cadeva ancora, sebbene potesse localizzare il triangolo. Ebbe paura che le pietre si muovessero ma si convinse che era solo un’impressione.

    La questione del rumore fu diversa. Aveva sentito qualcosa, il gesto di una mano che sbatte una pietra su un’altra. Non pensare. Un sorcio in cerca di cibo. Nelle città bombardate i ratti frugavano tra le macerie e facevano credere che ci fossero sopravvissuti. Migliaia di edifici crollati durante la Seconda guerra mondiale che non erano stati la sua casa, edifici lontani, dall’altra parte del mare, e lui non era là ma qui, in mezzo a un’altra notte. Un terremoto, un’esplosione fortuita per una fuga di gas, un attentato che aveva fatto scoppiare l’edificio dove c’era un bagno con le piastrelle azzurre. Il potere della paura era imprevedibile. Non sperare, non pensare, rimanere in bianco per rischiarare la notte che gli toccava vivere. Non ne sapeva niente di guerre, di bombardamenti o di Marco Aurelio.

    Una e più volte ripeté tre parole finché riuscì a palpare ciò che rappresentavano. Tre parole, un-elefante-bianco, che lo prendeva con la proboscide per liberarlo da quel pozzo di pietre. Non era più ridicolo della situazione in cui si trovava. C’era perfino un’associazione tra l’elefante e i topi, o tra gli elefanti e un edificio crollato se pensava alle torri degli scacchi. Le associazioni non erano mai completamente libere. Non doveva pensare e non pensava; la sua miglior difesa era svuotare ciò che poteva riempirsi di attesa.

    Era grottesca l’immagine dell’elefante, come quell’inverno freddo. Lo sussurrò con entusiasmo. Si immaginò caduto nell’Inferno. In un girone de La Divina Commedia. Esatto. Perciò i rumori non dovevano essere di sorci famelici ma delle gole/ di gente che alla vista s’ascondesse1. Così Bartolomé Mitre aveva tradotto il passo del Secondo girone in cui Virgilio conduce Dante nel Bosco dei Suicidi. Ma lui non era lì in quanto suicida. Questo lo sapeva o credeva di saperlo. Ciò che non ricordava era l’edificio, il giorno e le circostanze, sì invece il resto: i versi della poesia, i libri, le lettere e le immagini con cui lavorava. E più ricordava queste, più dimenticava il resto.

    Era un letterato e il suo argomento di ricerca doveva essere l’opera di Bartolomé Mitre. Presto non ne dubitò più.

    L’inferno aveva trasformato i suicidi in alberi del bosco. Virgilio aveva consigliato a Dante di non spezzare una foglia. Il discepolo agisce di conseguenza: spezza un rametto.

    La lezione per il poeta è la disobbedienza.

    Ruppi un fragil ramo con le mie mani,/ di nero sangue le vidi bagnate/ e il tronco ci gridò: «Perché, inumani,/ mi straziate?»2.

    Il sepolto continuò a ripetere i versi. La voce risuonava nel triangolo di macerie. Scandiva i versi marcando il ritmo con la mano. Accompagnava il proprio disprezzo con il mignolo in posizione rigida, come se si togliesse di dosso le pietre e avesse davanti un libro.

    Associava spesso le terzine di Mitre e l’originale di Dante. Ma non mi sembra rilevante registrarne i particolari.

    3

    La versione di Mitre de La Divina Commedia era sepolta nella storia delle traduzioni. Era quella la condizione che condividevano inequivocabilmente. Il sepolto non si riteneva poeta né politico né militare, e non era mai stato tentato dallo sciupare La Divina Commedia con una traduzione. Questo disse. E se lo si poteva confrontare con qualcuno, questi era Simonide, la sera del banchetto in casa di Scopas, circa duemila cinquecento anni prima. Il padrone di casa si era rifiutato di pagargli un debito per intero e Simonide, furioso, aveva abbandonato la casa, che si era sbriciolata misteriosamente prima che si fosse allontanato di cento passi. Gli ospiti rimasero sepolti senza che si capisse dove cercarli, mentre il fuoco si impossessava delle tende e delle parti in legno. Simonide percorse con la memoria gli angoli della casa che conosceva bene e situò i corpi dove ricordava di averli visti l’ultima volta. Era incapace di fare una lista con i loro nomi, ma poteva evocare ognuno di loro associandoli con i luoghi rispettivi.

    Una macchina mnemotecnica si era messa in moto quella sera. L’aveva perfezionata per progettare brani di oratoria. Tratteneva lunghi discorsi associando l’ordine delle frasi alle parti di un luogo familiare. Altri sono riusciti a comporre libri interi nella memoria per ingannare le spie che cercavano carta. Il sepolto non aveva tesori da difendere. Non doveva cadere nella trappola del pensare a sé stesso come si pensa a un sopravvissuto, sarebbe stato un modo di sperare. Doveva smembrare il tempo, trovare la via d’uscita senza muoversi. La chiave era non pensare. Sebbene somigliasse a Simonide, si identificava con Claude Frollo. Il sacerdote di Notre-Dame de Paris segnava frasi incomprensibili nei corridoi della cattedrale, erano il suo percorso verso l’alchimia.

    Il personaggio di Victor Hugo voleva trasformare la polvere in oro. Il sepolto si aspettava qualcosa di più dalla pazienza che non da quella fantasia. Voleva costruire un mondo con le pietre. L’unica possibile via d’uscita. Avrebbe utilizzato a modo suo (forse aveva già iniziato a farlo) la macchina di Simonide. Avrebbe imparato (forse lo stava già facendo) a riconoscere le forme umane dissimulate nelle pietre. Costringerle ad essere altro rispetto al bosco che d’altronde non erano mai state.

    Se avesse avuto le due mani libere avrebbe osato di più. I lamenti erano inutili.

    Virgilio aveva giustificato la disubbidienza di Dante: Se ho guidato l’inconsapevole mano/ fu perché l’incredibile credesse:/ perdona d’averti arrecato danno3.

    L’oro dei volti umani in mezzo ai mostri e alla polvere.

    Credo che il sepolto pensasse a Notre-Dame de Paris fin dal momento in cui si era immaginato il Bosco dei Suicidi.

    Bartolomé Mitre ha tradotto all’età di diciannove anni uno dei drammi di Victor Hugo, Ruy Blas. Quella versione andò in scena a Montevideo nei giorni in cui Mitre mandava a memoria lunghi passi de La Divina Commedia. Abitava in Uruguay ed era promesso sposo di Delfina. Poco tempo prima aveva allestito un proprio dramma storico, Las cuatro épocas. Delfina seguì con particolare interesse quanto avveniva sul palcoscenico alla coppia protagonista. La prima donna aveva il suo stesso nome; non era una sorpresa per lei: leggeva ogni pagina scritta da Mitre. C’è chi assicura che ogni scritto di Mitre è stato limato da Delfina. La traduzione di Ruy Blas doveva molto alle sue correzioni. Tuttavia, Mitre non le consentiva nemmeno di toccare il suo quaderno di commenti alle letture; si sedeva accanto a lei e glielo leggeva. In quel quaderno facevano a gara per quantità le riflessioni su Dante con quelle su Hugo e su Lord Byron.

    I promessi sposi si sorprendevano vicendevolmente con passi imparati a memoria de La Divina Commedia. Di solito era Delfina a vincere a quel gioco, il che non dispiaceva a Mitre, che aveva deciso di considerarla la sua donna angelicata. Lo aveva confidato a un amico, appena l’aveva conosciuta: Delfina era un angelo sceso dal cielo. Un balsamo divino che gli permetteva di dimenticare il rifiuto di Amelia, la sua prima amata.

    Un’anima in grado di comprendere il suo cuore ardente.

    Non aveva mai parlato con Amelia.

    Mitre viveva in un mondo ideale, incantato e in quello stato si sposò, prima di compiere vent’anni.

    Il sepolto iniziò a mormorare una massima di Marco Aurelio e la lasciò incompleta. Una forma sulle pietre, verso destra, attirava la sua attenzione: il cappello di Mitre e i suoi occhi stanchi. Mitre da vecchio, prossimo alla morte, all’età di ottantaquattro anni, mentre esplicitava la sua ultima volontà: che si posasse per alcuni momenti il suo feretro sulla scrivania.

    4

    Mitre nacque l’anno della morte di Napoleone, dieci anni prima che Victor Hugo pubblicasse Notre-Dame de Paris, la storia che risaliva fino al Medioevo per sfidare il presente.

    Frollo era convinto che le cattedrali fossero libri scritti con le pietre. Di più, erano i libri di pietra più perfetti che l’umanità avesse conosciuto e stavano per cedere di fronte al libro di carta.

    L’architettura aveva inventato il proprio alfabeto il giorno in cui gli uomini avevano lasciato una pietra eretta in mezzo alla pianura desolata. Dopo impararono a formare parole unendo pietre e infine, lungo i secoli, riuscirono a comporre le cattedrali affinché tutti gli uomini potessero recepire il messaggio di Dio. Il libro di carta uccideva il libro di pietra perché lo svuotava di senso. L’energia contenuta nell’architettura si disperdeva per dar vita alla stampa.

    Frollo: Il grande edificio dell’umanità sarà stampato.

    Lo diceva girovagando per le gallerie di Notre-Dame, mentre Victor Hugo scriveva le pagine del romanzo mediante il quale pensava di costruire una nuova arte sociale.

    In quel momento il sepolto si sorprese per la prima volta, vedendo gli aspetti presentati dalle pietre circostanti. Si allungò quanto poté per allargare il panorama. Una visione remota: la prima pietra sprofondata nella terra.

    L’inizio di quell’alfabeto era stata la fine del nomadismo. Lewis Mumford: la pietra indicava la posizione di una tomba. L’origine dell’alfabeto delle città è stata edificata sulla volontà di rendere omaggio ai morti.

    Niente da pensare, lui era vivo.

    Meglio non pensare.

    Mumford aveva letto con attenzione gli argomenti di Frollo. Albert Speer preferì sfidarli. Progettò la Cattedrale di Luce con centotrenta riflettori antiaerei, dove Hitler pronunciò un discorso davanti a più di centomila persone.

    Una tribuna fatta coi riflettori, senza pietre né carte.

    Città bombardate.

    Sul plastico che prefigurava la futura capitale dell’Impero tedesco, Speer si preoccupò di prevedere come sarebbero stati i resti delle città tedesche tra duemila anni.

    Victor Hugo fu più modesto, pensò che il romanzo avrebbe sostituito la cattedrale dopo tre secoli. Non previde che il XIX secolo avrebbe adorato un altro dio.

    Notre-Dame de Paris fu pubblicata dieci anni dopo la morte di Napoleone e la nascita di Mitre. E di Gustave Flaubert, che Mitre non ha lasciato traccia di aver letto.

    Flaubert intravide gli incubi del dio denaro e del progresso. Fece crollare con i suoi romanzi le cattedrali di carta di Victor Hugo. Mitre non se ne accorse, leggeva i romantici, leggeva i classici attraverso i romantici. Anche Leibniz, forse per scoprire se fosse possibile che un atomo comprendesse l’universo. Il desiderio di vedere a Buenos Aires un atomo che contenesse in nuce le città europee.

    L’ipotesi faceva divampare il suo romantico idealismo incantato. Mitre aveva sempre letto immaginandosi in altri mondi. Giocava con matite e fogli di carta ancor prima di sapere come usarli. Appena imparò a leggere rifuggiva la compagnia per buttarsi all’ombra di un albero con un libro. Si allontanava a cavallo finché non trovava un posto tranquillo dove smontare con le sue cose. Parlava da solo, anche lui parlava da solo. Ambrosio Mitre, suo padre, temeva che diventasse un uomo debole. Non che perdesse la ragione come Don Chisciotte, la debolezza era un’altra storia, gli dava fastidio vedere suo figlio a dodici anni circondato di libri accanto a un ruscello o a un albero, che borbottava chissà che cosa.

    Un albero, tutti gli alberi, una pietra, tutte le macerie.

    Chi legge è ancor più pericoloso di chi borbotta.

    Albero. Fiume.

    Don Ambrosio Mitre voleva che il suo primogenito, il figlio del suo seme stanco, non fallisse in quanto uomo. Perciò lo aveva inviato da un amico, così il figlio sarebbe diventato un gaucho. Lontano da Montevideo e da Buenos Aires, vicino a Samborondón. Mitre stava per compiere tredici anni. Ubbidì. Niente da pensare. Meglio così. Ma si portò appresso, nascosti, alcuni libri, per la vita da gaucho che doveva imparare.

    L’adolescente Mitre, montato su un pezzato, immobile come una pietra, guarda il fiume Salado in piena. Il cielo minaccia tempesta, si respira nell’aria.

    È quasi un bambino.

    Ha un libro sotto gli indumenti. Candide? Forse Don Chisciotte.

    Flaubert ripeteva a memoria intere scene del romanzo di Cervantes ancor prima di imparare a leggere, Mitre no.

    Sartre ha esagerato le difficoltà di apprendimento di Flaubert, diceva che questi a nove anni faceva fatica a leggere di seguito. Provocazioni a specchio: nella sua autobiografia aveva indicato quell’età come limite della sua formazione intellettuale.

    5

    Alberi sull’altra riva del fiume e un adolescente restio a imparare a fare il gaucho.

    A quattordici anni, Mitre promise al padre che non sarebbe mai stato un uomo debole e sostituì la vita da gaucho con i rigori dell’Accademia militare. Cadetto al Fuerte de San José. Non avrebbe mai abbandonato i libri, pensò ma non disse al padre.

    Un anno più tardi pubblicò le sue prime poesie su un giornale uruguaiano. Scriveva continuamente versi e articoli sul teatro e sui classici. Una delle poche volte che distolse la vista dalle sue carte fu a diciott’anni per rimanere soggiogato da Amelia. Le poesie, allora, furono per lei. Le fece stampare sotto il titolo Lettera erotica. Prevedeva di consegnarle la prima copia come dichiarazione d’amore, senza proferir parola.

    Sull’altra riva del Rio de la Plata, i giovani intellettuali si associavano contro Rosas. Cresceva lo spirito di resistenza. Juan Bautista Alberdi andò in esilio a Montevideo poco tempo dopo.

    Alberdi aveva undici anni più di Mitre, Sarmiento dieci.

    Amelia aveva un anno meno. Non ha mai avuto tra le mani un esemplare di Lettera erotica. Bartòlo, come lo chiamavano gli intimi, nascose i libri appena usciti dalla tipografia. Un amico gli aveva rivelato che Amelia corrispondeva l’amore di un altro. Nascose la tiratura sotto la branda, senza nemmeno sfogliarli. Quei libri erano destinati a rimanere là per segnare gli incubi delle notti successive. Non pensava di essere in grado di sopportare una tale pena, non perché fosse debole, ma perché il dolore era più forte dell’uomo che aveva promesso di dimenticare. Delfina fu il suo riscatto. Si aggrappò a lei, convinto che lei detenesse le chiavi del suo destino. Erano tutti segnali, doveva imparare a interpretarli. Era l’unica figlia femmina dei nove rampolli di Nicolás de Vedia, un soldato che aveva partecipato alla difesa di Buenos Aires durante le invasioni inglesi, che più tardi aveva combattuto in Spagna contro Napoleone ed era rientrato nel Rio de la Plata sostenendo la destituzione del viceré Cisneros.

    Interpretare i segnali o sprofondare nella viltà. Delfina era un angelo inviato per proteggerlo, perciò doveva avere due anni più di lui. Il numero spezzava la simmetria della distanza con Amelia: l’amore vecchio era più giovane di un anno, l’amore eterno era più vecchio di due.

    Conti di una cifra fondamentale imparata non da Leibniz ma da Dante. Ogni volta che Delfina suonava il pianoforte, Mitre temeva di mancare qualcosa della musica. Comunicavano meglio tra i libri. Il tesoro di Delfina era un esemplare de La Divina Commedia compratole dal padre a Madrid. Un’edizione stampata a Milano, che lei teneva avvolta in carta di seta. Una sera Delfina confidò al fidanzato che lo apriva ogni sera. Un’altra volta disse con voce emozionata che il poema di Dante era più sacro di quanto udiva in chiesa. Mitre: Ecco quel che dicono gli angeli.

    Delfina annotava i suoi pensieri su un quaderno. Vi trascriveva anche citazioni di personaggi importanti, apponendo pure la firma imitata dell’autore. Victor Hugo, Schiller, Shakespeare, Lamartine, ma anche Napoleone e Juan Manuel de Rosas. Tardò parecchio a confidare questo segreto a Bartòlo.

    Alcune settimane più tardi, alla fine di un gioco con i passi de La Divina Commedia, Delfina fece un’altra confidenza. Il libro di Dante era sacro perché aprendolo sentiva la presenza viva di suo fratello Cicerón, e quando lo richiudeva aveva la sensazione che Cicerón ripiombava nella morte con meno dolore.

    Poteva esser vero?

    Sì.

    Cicerón era caduto dall’albero per colpa sua, si era arrampicato per coglierle le migliori susine.

    Mitre le chiese di sposarlo.

    Las cuatro épocas aveva una pretesa epica. È la traiettoria di Eduardo, il figlio di un soldato dell’Indipendenza, che si esalta progressivamente nella sua lotta per la libertà. Delfina entra in scena alla ricerca di Eduardo tra i feriti di una battaglia. Dato che non si trova il suo corpo, lo danno per morto. Ma Eduardo è vivo e alla fine si sposano mentre rimane in sospeso il trionfo della rivoluzione tra gli applausi del pubblico.

    Il giorno che fissarono la data del matrimonio, Mitre ficcò in un sacco pieno di sassi tutte le copie di Lettera erotica e lo buttò nel fiume. Non lo fece volteggiare, lo lasciò cadere in acqua e lo guardò sprofondare in mezzo ai suoi stivali.

    Alle nozze del capitano di artiglieria e della figlia di Nicolás de Vedia partecipò l’intera società montevideana. Anche Alberdi, Juan María Gutiérrez e Echeverría.

    Sarmiento no, viveva in Cile e ancora non conosceva Mitre. Partendo per l’esilio, Sarmiento aveva scritto su una pietra la frase On ne tue point les idées, definita da Ricardo Rojas una professione di fede e una sfida al tiranno Rosas.

    Troppe pietre e troppi libri, ma erano collegati tutt’intorno. Mitre pubblicò le sue prime poesie a quindici anni su un giornale di provincia, al tempo in cui Flaubert faceva conoscere, su un giornale della Normandia, il suo racconto Bibliomania. Una parabola sull’idealismo incantato. La storia di un libraio, che l’ossessione per trovare un esemplare unico trasforma in assassino.

    Il primo figlio di Delfina e Mitre nacque due anni dopo. Una bimba che fu battezzata Delfina, e Josefa come la madre di Mitre, e Ambrosia in onore del padre.        

    6

    Beatrice e Dante si erano visti due sole volte in tutta la vita. Quella era la consolazione di Delfina ogni volta che Mitre si allontanava da casa per questioni militari. Ma non le bastava. Se lo ripeteva come una preghiera, abbracciata al libro. Gli scrisse in una lettera: Tu hai d’avanzo quanto manca a me, e si accoccolò nelle mille braccia contenute in quella frase. Le mancava il suo coraggio. L’afflato poetico.

    Anche il distacco, la vanità, la pedanteria, sì. Ma al di là di tutto, le mancava il corpo di suo marito, di cui Mitre aveva d’avanzo perché se lo portava appresso. Quella doveva essere la parola che il suo ritegno di donna educata le impediva di pronunciare. Corpo. José Pedro Barrán: L’abnegazione è la peggior forma di controllo perché passa inosservata.

    Altro significato: Mitre aveva corpo d’avanzo perché era un carcere per il suo spirito romantico.

    Il sepolto proiettava continuamente le proprie preoccupazioni sui volti delle pietre. Correggeva la rotta quando se ne accorgeva, non sempre. In questo caso mormorò che era impossibile che Delfina avesse quelle idee. Non vi è traccia nelle sue lettere di una celebrazione del corpo come quelle che si trovano nella corrispondenza di Diderot e Sophie Volland.

    Disse: Niente più impossibile.

    La censura aveva rinchiuso Diderot durante cento giorni. Riuscì a portarsi in carcere una copia del Paradiso perduto. Fra i versi del poema annotò commenti. In carcere aveva inventato un procedimento per produrre inchiostro. Quando fu liberato scrisse la sua scoperta sulla porta della cella così poteva giovarsene il prigioniero successivo. Preparare l’inchiostro con vino e polvere. La scena riassumeva l’impegno che avrebbe animato l’Encyclopédie.

    Diderot conobbe la Volland molto tempo dopo. Nelle lettere le confidava che

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