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La sottile trama dell'acqua
La sottile trama dell'acqua
La sottile trama dell'acqua
E-book617 pagine8 ore

La sottile trama dell'acqua

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Info su questo ebook

Una lontana alluvione, sbiadita nella memoria collettiva. A distanza di anni, un brutale delitto. Intrecci senza scrupoli di droga e prostituzione d'alto bordo. Un piccolo testimone e i poteri oscuri di cui diventa facile bersaglio. Il tutto sullo sfondo di una città, Zagabria, che sembra vivere il suo tranquillo tran-tran quotidiano, ma cela mille torbidi segreti, proprio come la superficie dell'acqua: onnipresente, mutevole acqua, a volte salvifica, altre insidiosa, perfida e persino spietata. La sottile trama dell'acqua, seconda opera della pluripremiata Nada Gašić pubblicata dalla nostra casa editrice, è un incredibile romanzo, un puzzle da capogiro di esistenze e storie tra loro apparentemente diverse e scollegate che l'autrice, mettendo a nudo la natura e la condizione umana, fa abilmente fondere in un unico, perfetto disegno della spesso macabra giostra della vita.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2023
ISBN9791280075598
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    Anteprima del libro

    La sottile trama dell'acqua - Nada Gašić

    COVER_la-sottile-trama_EBOOK.jpg

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2023 Oltre edizioni

    Oltre S.r.l., via Torino 1 – 16039 Sestri Levante (Ge)

    www.librioltre.it

    ISBN 979-12-80075-59-8

    isbn_9791280075598_EBOOK.jpg

    Titolo originale dell’opera:

    La sottile trama dell'acqua

    di Nada Gašić

    traduzione di Dubravka Brozović

    Collana * Narrazioni *

    ISBN formato cartaceo: 979-12-80075-291

    SAVA

    Sava (latinsko Savus) je 940 km dolga reka v jugozahodni Evropi. V Sloveniji ima reka Sava dva izvira: Sava Dolinka izvira kot Nadiža v Tamarju, ponikne in ponovno pride na dan v Zelencih pri Ratečah in teče proti jugozahodu.

    Sava Bohinjka nastane združitviju Mostnice in Jezernice, ki izvira iz Bohinjskega jezera. Sava Bohinjka teče proti severozahodu.

    http://sl.wikipedia.org/wiki/Sava

    SAVA

    La Sava (in latino Savus) è un fiume dell’Europa sudoccidentale. In Slovenia il fiume Sava ha due rami sorgentiferi:

    la Sala Dolinka sgorga nelle Prealpi Giulie come Nadiž, prosegue il suo corso sotto terra e risale in superficie a Zelenci pri Ratečah scorrendo verso sudovest.

    La Sava Bohinjka si forma dall’unione dei fiumi Mostnica e Jezernica, che sorgono dal Lago di Bohinj. La Sava Bohinjka scorre verso nordovest.

    http://sl.wikipedia.org/wiki/Sava

    SAVA

    Sava je jedna od tri najdulje rijeke u Hrvatskoj (duljine 940 km) – druge dvije su Dunav i Drava. Površina slijeva Save je 95.720 km.

    Sava nastaje spajanjem Save Dolinke (koja izvire u dolini između Triglava i slovensko-austrijske granice kod Kranjske Gore) i Save Bohinjke (nastaje izlijevanjem iz Bohinjskog jezera kod mjesta Ribičev Laz) u blizini Lancova u Sloveniji a utječe u Dunav u Beogradu.

    http://hr.wikipedia.org/wiki/Sava

    SAVA

    La Sava è uno dei tre fiumi più lunghi in Croazia (940 km di lunghezza) – gli altri due sono il Danubio e la Drava. La Sava drena un’area di 95.720 km.

    Il fiume Sava si forma dalla confluenza della Sava Dolinka (che nasce nella valle tra il Monte Tricorno e il confine tra Slovenia e Austria, nei pressi di Kranjska Gora) e della Sava Bohinjka (che nasce nel Lago di Bohinj, vicino alla località di Ribičev Laz) vicino a Lancov in Slovenia e affluisce nel Danubio a Belgrado.

    http://hr.wikipedia.org/wiki/Sava

    SAVA

    Sava je rijeka u sjevernoj Bosni i Hercegovini i najveća rijeka u našoj zemlji. Nastaje spajanjem rijeka Save Dolinke i Save Bohinjke u blizini Lancova u Sloveniji. Iz Slovenije prelazi u Hrvatsku, teče kroz Zagreb i Sisak, a nakon toga čini granicu između Bosne i Hercegovine i Hrvatske, zatim malim dijelom ulazi u Bosnu i Hercegovinu, pa onda čini jednim dijelom granicu između Bosne i Hercegovine i Srbije, da bi na kraju ušla u Srbiju, gdje se u Beogradu ulijeva u Dunav.

    U stara vremena naša rijeka Sava zvala se Savus, prema grčkom Saovios, a danas se jednostavno zove Sava.

    http://bs.wikipedia.org/wiki/Sava

    SAVA

    La Sava è un fiume della Bosnia ed Erzegovina settentrionale e il più grande fiume del nostro paese. Nasce dalla confluenza dei fiumi Sava Dolinka e Sava Bohinjka nei pressi di Lancov in Slovenia. Dalla Slovenia entra in Croazia, scorre attraverso Zagabria e Sisak, dopodiché forma il confine tra Bosnia, Erzegovina e Croazia, poi, per un breve tratto, entra in Bosnia ed Erzegovina. Continuando il suo corso forma una parte del confine tra Bosnia, Erzegovina e Serbia, per scorrere infine in Serbia, dove a Belgrado affluisce nel il Danubio.

    Nei tempi antichi il nostro fiume Sava si chiamava Savus, dal greco Saovios, mentre oggi si chiama semplicemente Sava.

    http://bs.wikipedia.org/wiki/Sava

    САВА (река)

    Река Сава је 940 километара дуга река у југoисточној Европи. Настаје спајањем река Сава Долинка (извире на Крањској гори и спушта се Караванкама и Јулијским Алпама на југоисток) и Сава Бохињка (извире јужно од Триглава) код Радовљице и тече на југоисток роред Крања, након 300 километара кроз Загреб, главни град Хрвaтске. Вeликим својим делом jе погранична река између Хрватске и Босне и Херцеговине. У Дунав се улива у Београду, главном граду Србије. За речне бродове, Сава је пловна од Сиска до Београда.

    http://sr.wikipedia.org/sr-el

    SAVA (fiume)

    Il fiume Sava è un fiume dell’Europa sudorientale, lungo 940 chilometri. Vicino a Radovljica, riceve le acque di due affluenti, il fiume Sava Dolinka (che nasce sulla Kranjska gora e scorre nelle Caravanche e nelle Alpi Giulie a sud-est) e il fiume Sava Bohinjka (che nasce a sud del Monte Treteste), per poi scorrere a sud-est accanto a Kranj, e dopo 300 chilometri attraverso Zagabria, capitale della Croazia. Per gran parte del suo percorso scorre lungo il confine tra Croazia, Bosnia ed Erzegovina. Affluisce nel Danubio a Belgrado, capitale della Serbia. Per imbarcazioni fluviali, la Sava è navigabile da Sisak a Belgrado.

    http://sr.wikipedia.org/sr-el

    L’ACQUA COME PROLOGO

    Iniziarono a girare delle voci, annunciavano l’arrivo di acque grosse dalla Slovenia; allora i più cauti si misero a prestare maggior ascolto ai vecchi che ricordavano di come la Sava nel passato si fosse già una volta portata via mezza Zagabria, qualcuno si recava di persona sulle sponde del fiume per poi tornarsene a casa, reso inquieto dalla vista di quei tronchi trascinati dall’acqua minacciosa che scomparivano a velocità lampo sotto il ponte, ma poiché quelli che controllano i fiumi non vengono mai presi sul serio da nessuno, al momento tutto sembrava ridursi al disagio degli abitanti delle periferie meridionali della città che da quattro settimane affondavano i passi nella melma delle stradine sterrate, mentre quelli del centro s’innervosivano aprendo gli ombrelli, preoccupandosi di proteggere i loro impermeabili all’ultima moda.

    Nei primi anni sessanta i notiziari erano soliti tranquillizzare la gente, quando invece avrebbero dovuto invitarla alla prudenza, e l’allarmavano nei momenti in cui avrebbero fatto meglio a lasciarla indifferente, per cui si sapeva tutto su Lumumba e sulle sorti dei bambini congolesi, si piangeva la morte di Kennedy, si turbava il sonno degli zagabresi con la triste fine della sfortunata Laika, ma quel 25 ottobre del 1964 alla radio non si udì fino a sera una sola parola sulla massa d’acqua ormai alle porte di Zagabria. Persino allora, una volta reso noto che i corsi sotterranei avrebbero potuto invadere le cantine nelle zone periferiche della città, la gente temeva solo che nei circoli e nelle poche case che all’epoca già possedevano un televisore, per colpa delle continue interruzioni della corrente non sarebbe stato possibile seguire l’ultimo episodio della serie Bonanza.

    A dire il vero, quella notte il quartiere di Trešnjevka non sprofondò nel buio visto che, fin dallo spuntare delle sue prime costruzioni, dal buio non era mai emerso. Ma ora i lampioni spenti lungo le strade e le luci fioche e tremolanti delle lampade a petrolio, per fortuna mai dismesse, accrescevano quel senso di freddo umido che costringeva il villaggio a tirare coperte e piumoni fin sopra i denti.

    Fino a mezzanotte non si udì passo. Il fango è cibo e suono e impronta.

    Due ore dopo, i cani legati spezzavano le catene a furia di rabbiosi strattoni, quelli liberi si scagliavano contro le recinzioni; qualcuno uscì sotto la pioggia e nella densa notte partì un grido, seguito dal frenetico bussare su una porta, da invocazioni della mamma e dalle voci che maledicevano sia Trešnjevka, che le tenebre. Dall’autostrada per Lubiana la luce azzurra sulla volante della milizia recise l’oscurità e dal megafono si udirono parole incomprensibili. Magari più nitida, quella voce avrebbe fatto sapere che per precauzione si ordinava agli abitanti di abbandonare i locali seminterrati e quelli a pian terreno; così invece, la gente riuscì solo a registrare confusamente quel suono di allerta in lontananza, dimenticando un istante dopo, con sorprendente e ingiustificabile rapidità solita per l’uomo, la ragione e la finalità di quel richiamo innaturale.

    Le uniche a tacere furono le campane delle chiese che a Zagabria, da che mondo è mondo, suonavano l’allarme a ogni alluvione. Chissà, forse una mano si mosse pure, nell’intento di tirare la corda, per poi fermarsi intimorita al pensiero della rigida legge sull’uso delle campane, oppure stentò a credere fino in fondo che un tremendo profluvio si sarebbe riversato sulla città di Zagabria, mettendo a repentaglio le vite e gli averi del suo intero gregge.

    Ana Firman si svegliò di soprassalto e si mise seduta sul letto a cercare alla cieca le pantofole. Con o senza luce, ormai da più di un mese il pancione le impediva di vedere i propri piedi. Si girò verso il marito, che continuava a dormire, lo scosse facendolo sobbalzare.

    «Ci siamo?»

    «Cosa? No. È che fuori sta succedendo qualcosa. Vai a vedere.»

    Zdravko Firman indossò in fretta i pantaloni sopra il pigiama e nel corridoio si gettò il cappotto sulle spalle. Non badò all’esclamazione della moglie:

    «L’ombrello!»

    Ana udì suo marito scambiare brevi frasi concitate con i vicini, sentì anche la bestemmia rivolta a nessuno in particolare e il grido che, pur senza nome, si riferiva solo a lei.

    «Alzati, alzati!»

    Non reagì immediatamente con il suo corpo esterno, ma il tono della voce di lui permise a quello interno di misurare in modo preciso la portata del pericolo.

    E Katarina, quel suo corpo interno, nel grembo si fece quieta.

    Il marito sollecitava la moglie dalla porta gridando:

    «Ana, presto, vestiti di corsa, andiamo! Il fiume è straripato! Ci sta arrivando addosso! Veloce…»

    La donna abbassò le mani e iniziò ad arrotolare i bordi della camicia da notte per sfilarsela più facilmente.

    «Ana, mettiti una cosa qualsiasi sopra la veste, non abbiamo tempo. T’illumino le cose con la torcia, così vedi meglio.»

    Accecata dal fascio di luce, chinò la testa continuando a stringere nelle mani i bordi del tessuto. Le gambe le arrivavano a malapena a terra, il pancione poggiava sulle ginocchia, la testa, che sembrava senza collo, bassa su quel pancione. E d’improvviso all’uomo parve di aver sgridato un bambino timido, obeso. Si sentì pervadere dal senso di tenerezza, si avvicinò e le accarezzò i capelli. Mise via la torcia.

    «Non aver paura. Solo il cappotto…»

    «Non ho paura.»

    Lei sollevò la testa.

    «Illuminami la borsa per l’ospedale, lì, vicino al nachtkastl

    Si alzò con incedere abbastanza sicuro e afferrò la borsa accanto al comodino con la mano sinistra. Sentendosi per un istante spazientita per la luce che zampillava nervosamente dalla torcia, stringendo le palpebre abbracciò la stanza con uno sguardo. Tutto, proprio tutto al suo interno era indispensabile per la vita e, in particolare, per la vita del bambino che stava per nascere da un momento all’altro. Niente, proprio niente avrebbe dovuto bagnarsi. Dunque, sentendo che era del tutto inutile decidere quali oggetti salvare, Ana Firman prese dal comodino accanto a letto una statuina di vetro con le sembianze di un fisarmonicista, l’unica cosa con cui scelse di lasciare il proprio focolare.

    Il marito era già sull’uscio di casa, qualcuno lo stava sgridando, sinistra, Zdravko, porca puttana, illumina a sinistra, e il fascio di luce in scatti isterici abbandonò il corridoio. Voci arrabbiate si mescolavano tra loro; si sentiva chiamare, Viiilim, Viiilim, un pianto infantile che non suscitava pietà ma aumentava il panico, una voce femminile che implorava il buon Dio di accorrere in aiuto e le imprecazioni di un uomo che batteva i pugni sulla porta di una casa chiamando i maligni coniugi Zgorelec, mezzi sordi, con i quali per un decennio nessuno nel vicinato aveva mai scambiato parola. Allora, proprio nel sentir gridare quel cognome Ana si fece cogliere dal panico, ma non così tanto da far cadere la statuina di vetro. La trasferì nella mano sinistra, in cui già teneva la borsa, alzando la destra verso l’appendiabiti per tastare al buio gli indumenti attaccati; alle sue dita tremolanti non restava altro tempo per controllare cosa stessero afferrando. Non osava poggiare la borsa per terra, si buttò sulla spalla quel che per primo aveva toccato, senza cercare di prendere altro. Restituì con cura la statuina al palmo destro.

    Le mancava un solo passo per arrivare alla soglia. Riuscì a toccare il marito allungando la mano. Lo raggiunse e abbassò la spalla sinistra per farsela avvolgere dal soprabito. Temendo forse di infonderle ulteriore panico, lui non l’abbracciò neanche, solo le stringeva con mano ferma il morbido bavero.

    «Ho pensato a tutto. Tu vai con gli Ožbolt, io rimango solo per cercare di mettere in salvo alcune cose, le fiondo in soffitta, vi raggiungo subito.»

    «E io, dove vado?»

    «Prima al sicuro, dove l’acqua non è arrivata e poi all’ospedale di Petrova, lì sarai tranquilla. Ti raggiungo.»

    «Fai presto.»

    Non gridò, non sussurrò non me ne vado senza di te, in realtà nemmeno si voltò. Era sicura che lui non l’avrebbe delusa.

    Il marito urlava in direzione di Ožbolt:

    «Slavek, lascia stare gli Zgorelec, ci penso io con l’ascia a sfondare la porta, porta via Ana!»

    La donna mosse un cauto passo verso l’esterno, dove l’acqua stava già ad attendere, seppure solo strisciando. Se avesse potuto scorgere il proprio piede che calzava la pantofola, avrebbe visto quel liquido in movimento che, come un essere perfido, si aggirava intorno al piede, lo annusava, lo leccava, lo sciacquava prima di inghiottirlo.

    Scese il gradino, quell’unico gradino tipico di ogni casa del quartiere, che in realtà non veniva mai piazzato lì come supporto per uscire o entrare in quelle catapecchie di un solo piano, ma come segno che, alzando il piede, potevi lasciarti alle spalle il mondo esterno per entrare nella protezione di casa tua oppure, scendendo, decidevi di esporti alla rischiosa incognita della strada. Il gradino le sembrò più alto di come il suo piede lo ricordava, più ampio, e Ana Firman gli credette, confidando che non l’avrebbe tradita. Che avrebbe fermato l’acqua.

    Senza rendersi conto di quel che indossava, non lasciò casa sua avvolta nel cappotto, ma indossando il camice da lavoro buttato sopra la veste, stringendo la statuina di vetro nella mano destra, mentre nella sinistra teneva la borsa a quadri, nuova di zecca, acquistata a Trešnjevka in un negozio dei grandi magazzini Nama. Preparandosi per l’ospedale, nella borsa aveva con cura riposto due nuove camicie da notte, la vestaglia trapuntata in acrilico rosa acceso, contrabbandata dall’Italia e acquistata sotto banco, una saponetta nella sua custodia di plastica azzurra, lo spazzolino da denti con il manico rosso trasparente nella custodia dello stesso colore, il dentifricio alla fragola, il pettine verde, una confezione piccola di crema Solea, due asciugamani nuovi e l’occorrente per il neonato.

    Tutti gli altri oggetti, rimasti nella sua stanza da letto e nella sua casa, non si bagnarono, ma sparirono senza lasciare traccia nelle acque del fiume Sava, che nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 1964 inondò le zone meridionali di Zagabria, con i suoi 180.000 abitanti, e distrusse o danneggiò 8676 case portandosi via le vite di 17 nostri concittadini.

    Tra cui il padre di Katarina Firman, in seguito Horak, da sposata.

    Dopo, Ana non riuscì mai più a ricordare se si fosse girata verso la casa per rivolgere uno sguardo al marito o se si fosse semplicemente unita al corteo degli abitanti di Trešnjevka che al buio pesto e a piedi, sotto gli ombrelli o persino senza, spingendo accanto a loro biciclette sovraccariche e trascinando valigie di cartone e borse da spesa colme di oggetti salvati a casaccio, oppure a mani completamente vuote, stavano abbandonando le proprie case, le vie e il villaggio della loro infanzia. Quei pochi nel quartiere a possedere un’automobile furono abbastanza saggi e previdenti da andarsene ore prima, così che, a parte le grida e il fino ad allora sconosciuto, impassibile e maligno vociare dell’acqua che pervadeva ogni cosa, non si udiva alcun rumore; come se una belva avesse spalancato le fauci per ruggire, ruggire e ruggire, senza mai smettere.

    Ana ricordava di essersi abbandonata alle braccia di due vicini di casa che, sorreggendola tutto il tempo, le fecero costeggiare le recinzioni delle case che loro tutti ben conoscevano, percorrere le vie che da una vita attraversavano al buio, così che non gli restò difficile farlo nell’acqua, prima fino alle caviglie, poi in certi punti fino alle ginocchia e in altri, pericolosamente, fino alle anche. Si ricordava di aver dato retta a delle voci, non guardare, quando erano passati accanto alle enormi buche in via Gvozdanska, dove nell’oscurità nemica si udiva il gorgoglio di vortici spaventosi. Le conoscevano talmente bene, quelle buche, che anche così, di notte, miseramente illuminate dalle torce, riuscivano in maniera scaltra a evitarle. Ricordava di aver sentito una voce disperata che arrivava da via Hreljinska, implorando un certo Joža di salire sul tetto e di prendere in braccio la nonna e di aver pensato, sentendo la stretta della mano di Ožbolt trasparire puro terrore, che quella nonna non ce l’avrebbe fatta. Ricordava che in via Končareva, comunque un poco più alta di Nehajska, l’acqua arrivava di nuovo soltanto alle caviglie, ricordava di essere stata caricata su un camion già stracolmo di vecchi, donne e bambini dove si sentiva la vita, persino delle risate, e che proprio grazie a quelle risate tornò in sé, per cui volle chiamare il nome del padre di Katarina. Ma non lo fece. Solo aprì la bocca e la richiuse nell’istante in cui il camion si rimise in marcia.

    Katarina continuava a risucchiare con calma il calore del corpo che la proteggeva; le era del tutto indifferente il fatto che alla sua partoriente stessero per questo gelandosi dolenti le mani e i piedi, che stesse tremando e battendo i denti, non le importava niente del luogo in cui si sarebbe sdraiato quel pancione, la sua casa, e diede un segno inequivocabile di volere spazio, un posto nel quale per qualche ora si sarebbe dedicata a sé stessa. La mamma di Katarina, Ana, emise un piccolo grido, le donne sul camion si agitarono, iniziarono a battere i pugni sulla cabina di guida urlando, le acque, si sono rotte le acque. Mandarono in tilt il conducente per aver solo pronunciato quella parola, acqua, il quale pertanto, per paura di non giungere in tempo all’ospedale di Petrova, svoltò verso quello in via Vinogradska, non vedendo l’ora di liberarsi della donna col pancione. Le donne sul camion lo compresero benissimo.

    Offesa perché proprio in quell’ultimo giorno non la lasciarono in pace per riposarsi e ascoltare il ritmo del proprio cuore insieme a quello di sua madre, Katarina escluse la percezione di tutti gli stimoli esterni; non si curò delle grida e utilizzò con concentrazione quel flusso di sangue improvvisamente più abbondante che le vene materne le trasmettevano, il prezioso ossigeno e le contrazioni del corpo di Ana per farsi strada, centimetro per centimetro, verso il mondo esterno. Svolse bene quel lavoro difficile, in modo relativamente veloce. Scoppiò in un breve pianto e si addormentò subito dopo. Si sentiva stufa di tutto.

    Quando Katarina lasciò il corpo di sua mamma, si era già fatto giorno. Quelli che erano riusciti ad arrampicarsi su uno dei rari palazzi a cinque piani oppure sull’edificio incompiuto sede dell’unico quotidiano della città, il Vjesnik, poterono abbracciare con lo sguardo i quartieri di Trešnjevka e di Trnje, raccogliendo la testimonianza di quel lago senza nome dal quale spuntavano i tetti intrisi d’acqua. Acqua a perdita d’occhio, acqua che sembrava fosse lì dalla notte dei tempi. La radio, che taceva sia a Trešnjevka che a Trnje, diffuse la notizia che un’inondazione di dimensioni catastrofiche aveva colpito la capitale della Croazia e che l’esercito, la milizia, le squadre dei vigili del fuoco e i volontari stessero facendo sforzi sovrumani nel cercare di salvare le persone e i loro beni, che i rappresentanti delle istituzioni, quelle della città e della repubblica, si fossero recati sul luogo del disastro, che i danni materiali si stessero ancora stimando, che per soccorrere Zagabria si fossero per prime mobilitate le città con essa gemellate di tutte le altre repubbliche socialiste, che la Croce Rossa avesse già fornito i primi aiuti, che per la sistemazione dei cittadini fossero messe a disposizione tutte le strutture alberghiere, le scuole e le palestre, che gli ospedali avessero prontamente accolto e prestato le prime cure ai feriti, che vi fossero sufficienti quantità di vaccini di ogni tipo, che fosse attesa l’assemblea straordinaria del governo insieme agli aiuti dall’estero e che, infine, all’ospedale di via Vinogradska, come segno del continuo rinnovo e dell’indistruttibilità della vita, fosse nata la prima piccola Trešnjevčanka e che sia la mamma che la bambina stessero bene. Altresì si faceva sapere che i telegrammi di condoglianze e di sostegno stessero arrivando da ogni parte del mondo e che la nazionale di calcio jugoslava avesse perso un’amichevole con l’Ungheria allo stadio Nep di Budapest con il risultato di 2 a 1.

    * * *

    Ana vide la sua bambina e si meravigliò di aver mai potuto desiderare un maschietto.

    Dalla sala parto la riportarono in camera sistemandola su un lettino di fortuna.

    Aspettava.

    Il sonno cercò di vincerla, lei non glielo permise.

    Aspettava.

    Finalmente, trovò il coraggio e cercò di spiegare all’infermiera di turno che per le doglie improvvise l’avevano portata all’ospedale di Vinogradska, che in realtà avrebbero dovuto portarla a quello di via Petrova, che il marito la stava sicuramente cercando e chiese all’infermiera se si fosse fatto vivo.

    L’infermiera non sapeva.

    Non se la sentiva di parlare con le altre donne nella stanza.

    Provò altre volte a domandare alle infermiere che passavano se qualcuno avesse chiesto di lei, perché la stavano di certo cercando... Poi smise di fare domande.

    Portarono la colazione. Non riuscì a mangiare.

    Aspettava.

    I suoni dell’ospedale divennero diurni, ordinari. Le altre donne avevano già dato alla luce i loro bambini e conducevano le solite conversazioni sul parto. Sparlavano anche della capo sala. Nessuna di loro proveniva da Trnje o da Trešnjevka, per cui la loro curiosità e l’interesse per l’alluvione presto svanirono.

    Verso le undici, Ana fu spostata dal lettino di riserva su un vero letto d’ospedale. Si tranquillizzò.

    Aspettava.

    Poco prima di mezzogiorno nella stanza entrò il medico, si avvicinò al suo letto e le chiese come si sentiva. Le misurò la pressione. Le donne tacquero.

    Nel momento in cui le venne vicino anche la capo sala, con un’arancia sul piattino riservata a lei soltanto, la mamma di Katarina comprese di non dover più aspettare. Non versò una lacrima, solo gettò il capo indietro ed emise un lamento profondo, come non fece neanche una volta durante il parto, un suono che anche le donne della stanza riconobbero diverso dai loro gemiti da travaglio. Gridarono all’unisono e scoppiarono in lacrime.

    In quel preciso istante:

    Un elicottero sorvolava l’incrocio tra l’autostrada e via Savska. Dai tetti della Casa dello studente nel quartiere Cvjetno e dell’edificio incompiuto del Vjesnik le persone lo salutavano allegramente.

    I quasi sordi Zgorelec, legati con cura per non cadere, erano seduti su una trave della soffitta di casa loro, pronti con l’ascia in mano a difendere la proprietà da un potenziale ladro.

    In via Modruška, una décolleté col tacco alto, rossa laccata, fluttuava picchiettando sulla credenza verde di una cucina. La titolare della scarpa, una liceale evacuata dal quartiere sommerso e ora sdraiata sul materassino da palestra di un liceo in centro, si stava struggendo per quella perdita.

    Nell’aula di musica del liceo in via Dobojska, attraverso l’acqua torbida si intravedeva il corpo nero e lucente del pianoforte.

    In via Drežnička, una famigliola di galline bagnate, sedute in fila ordinata su una staccionata resistita all’alluvione, con malinconia guardava l’acqua scorrere attraverso il pollaio devastato.

    In una palazzina a cinque piani in via Savska dal numero 95 al 101, tra gli allievi della scuola media Kata Dumbović si diffuse la notizia dei registri scolastici perduti nell’acqua e due studenti della seconda intonarono Iuu aar maai deeestiniii...

    Al centro di accoglienza della Croce Rossa, un vecchio piangeva il suo cane disperso.

    * * *

    Tra quelli che sui tetti delle casette sommerse aspettavano ancora i soccorsi, una quattordicenne, stremata dal freddo, guardava l’avvicinarsi di una porta di legno che galleggiava trasportando un gruppetto di ratti. La bambina cercò di invocare aiuto, strillare, ma le sue labbra bluastre, troppo contratte, riuscirono a far uscire solo un semplice gorgoglio. L’uomo accovacciato accanto a lei si alzò in piedi e col bastone respinse quella zattera di topo. In seguito, l’uomo e la ragazzina furono tratti in salvo insieme a tutti gli altri, e sistemati nei corridoi dell’ospedale di via Vinogradska.

    Una barchetta scivolava lungo via Savska. Con il canottiere dal volto serio, intento a remare.

    Vicino al Circolo studentesco il flusso perdeva forza, tuttavia l’acqua leccava la preda e strisciava lungo i binari della tranvia fino alla libreria Mladost in piazza Maresciallo Tito. La diga provvisoria, dopo il sottopasso di via Crnatkova e in prossimità di Vodnikova, riuscì a trattenere il grosso dell’acqua. Su quella sottile linea fatta da sacchi di sabbia ammassati uno sull’altro, dove finiva il mondo della periferia e della miseria e iniziava la città, si soffermavano persone per guardare l’insolito panorama. Sorridevano, qualcuno li immortalava in una fotografia.

    Laggiù, dove l’acqua si stendeva già quieta, un bimbo gobbo di sette anni lanciava dei sassi a intervalli regolari, uno dietro l’altro. Sulla liscia superficie guardava nascere cerchi, cerchietti e piccole onde che si andavano allargando, allargando…

    cover_base.psd

    Da qualche parte rimase un segno sull’acqua.

    Il nostro non vederlo non cancella la sua esistenza.

    Secolo: 21°

    Anno: 2009

    Mese: ottobre

    Giorno/notte: 25/26

    Orario: ore 20, minuti 48

    PRIMO SASSO, PRIMA ONDA

    INVOLUCRO OPACO

    Ha smesso di scuotere e di schiaffeggiare la donna, pur continuando ad avvinghiarsi al suo corpo, sul quale la testa penzolava in modo innaturale. La pelle del collo sembrava cedere, lacerarsi da un momento all’altro e lui, disgustato, ha lasciato cadere il corpo, facendolo stramazzare sul divano di cuoio e produrre un rumore sgradevole. Ha asciugato le mani sulle cosce, poi sentendo la propria nudità pelosa e umidiccia ha discostato le braccia, le ha protese in avanti e come un sonnambulo si è diretto verso il bagno. Ha aperto il rubinetto del lavabo e inserito la mano sinistra sotto il getto d’acqua. Chinandosi poi sul lavandino, con il palmo destro si è appoggiato allo specchio, coprendo così il riflesso del proprio volto. Ha cambiato posizione e ha lavato l’altra mano. Poi le ha immerse entrambe, per guardare l’acqua creare un vortice nel piccolo bacino formato dai palmi accostati. Si è piegato ancora di più e ha inserito la testa sotto il rubinetto. Il getto gli flagellava l’orecchio, cancellando qualsiasi suono del mondo esterno. Dopo un po’ cominciava a diventare doloroso e l’uomo ha tirato fuori il capo, cautamente, come da un morsetto. Non si è asciugato, si è solo scrollato di dosso le gocce. Per un po’ è rimasto immobile. Poi è tornato nella stanza, si è avvicinato al divano per contemplare il cadavere della donna. La testa, come cucita su quel corpo al quale non sembrava appartenere, giaceva in qualche modo autonoma, per conto suo, e lui non dubitava più che quello fosse un semplice corpo, morto. Non donna. Corpo. Si è mosso verso il tavolo sul quale aveva lasciato il cellulare spento. L’ha acceso. Guardava il proprio pollice inviare un messaggio. Lo schermo illuminato indicava le 20 e 55. La mano in cui teneva il cellulare era calma. Sentiva che tutto sarebbe andato bene. Doveva per forza andare bene.

    25 minuti più tardi:

    «Non farmi domande.»

    «Non gliene faccio.»

    «È stato un incidente.»

    «Non chiamiamo nessuno, giusto?»

    «Certo che no, lo sai bene.»

    «Vado a prendere il telone di plastica nel garage.»

    «Devo aiutarti?»

    «No. Si vesta, però.»

    «Oddio, mica mi sono reso conto di stare ancora così... mi sento proprio perso.»

    «Rimanga qui dentro, mi spiego? Non sono solo in macchina.»

    «Ma dico, sei impazzito?»

    «Non esca dalla stanza. So bene quel che faccio.»

    L’uomo ha lasciato il tizio ancora nudo, è uscito dalla casa, si è avvicinato all’automobile, ha aperto lo sportello per dire a qualcuno sul sedile posteriore di non muoversi e di non far caso a niente. Ha sollevato la portiera del bagagliaio, ha estratto un paio di guanti di pelle e li ha indossati. Poi ha aperto il garage, è entrato e ha raccolto un rotolo di plastica pesante. Non aveva bisogno di cercarlo, conosceva il locale a memoria. Ha attraversato la porta interna fino alla scala che portava alla stanza con il camino acceso, il divano di pelle, il corpo nudo su di esso e l’uomo, nel frattempo vestito, sprofondato in una poltrona. Non gli ha rivolto parola. Ha piazzato il telo sul divano, sotto le gambe del corpo. Poi ha raccolto gli indumenti femminili sparsi in giro e tenendoli ammucchiati nella mano sinistra, con l’attizzatoio nella destra ha incalzato il fuoco del camino per buttarci i vestiti. Il prevedibile cattivo odore non lo ha distratto, fissava impassibile la fiamma. Ha aspettato per veder bruciare l’ultimo pezzetto di tessuto. Poi, si è mosso verso il divano. Ha allargato il telone, sistemandolo abilmente sotto il corpo, spostandolo di lato per avvolgerlo meglio. Dopo un solo giro, il corpo ha assunto le sembianze di un tappeto arrotolato, reso però più complicato da maneggiare. Il gigante stava ansimando. Ha caricato con fatica il peso cilindrico sulla spalla. Raggiunta la porta si è fermato e senza girarsi verso l’uomo, ormai vestito, ha pronunciato in modo ben chiaro:

    «Adesso siamo pari?»

    L’altro ha fatto un cenno con il capo.

    «Lo siamo. Dove pensi... di portarlo?»

    «Meglio per lei non saperlo.»

    Ha impiegato un bel po’ per scendere. Non che il peso fosse eccessivo per lui, ma era scomodo da gestire. Uscendo ha fatto lo stesso percorso, attraversato il garage e raggiunto il bagagliaio che aveva lasciato aperto. Con un sospiro di sollievo, l’uomo si è liberato del suo carico gettandolo dentro, come una carcassa nella fossa. Malgrado il pesante tonfo, la macchina ha tremato solo un poco. Era proprio una bella bestia potente. Al suo interno, qualcuno è rimasto immobile. Lo sportello del bagagliaio ha ubbidito, si è lasciato abbassare in modo morbido e silenzioso, esattamente come promesso dalla pubblicità.

    L’uomo ha chiuso la porta del garage con il telecomando, ha raggiunto lo sportello anteriore, salendo sul lato di guida ha allacciato la cintura, girato la chiave per mettere in moto. Non si è voltato verso la figura rannicchiata sul sedile posteriore, né verso la casa circondata dal parco che andava pian piano scomparendo nello specchietto retrovisore.

    23 minuti più tardi:

    «Perché stai andando verso la scuola?»

    «Chiudi il becco.»

    * * *

    Alla fermata le persone si stavano diradando, gli intervalli tra i tram si facevano sempre più lunghi e il ragazzino iniziava ad annoiarsi. Non era più sicuro di quel che stesse aspettando. Di certo, non il tram. Ha fatto un giro intorno all’orologio della piazza, constatando che su tutte e quattro le facciate indicava le 21 e 58 minuti. I secondi non contavano. Era tempo di tornare a casa. Ma con calma, con più calma possibile... Per non arrivare troppo presto. Ha tirato meglio il cappuccio sulla testa in modo da eliminare la visuale laterale e guardare solo davanti. Se proprio gli dovesse capitare di imbattersi in qualche conoscente, camuffato in quel modo rimarrebbe irriconoscibile. Almeno sperava.

    Si è diretto verso via Nehajska, in direzione opposta del tram che fingeva di attendere, lasciandosi alle spalle la luce malaticcia della farmacia accanto al mercato del quartiere. Ha costeggiato la voragine che inverosimilmente portava un nome, di via Maglajska, e superandola fino a Dobojska, ha proseguito lungo la fila di palazzine che terminava con l’ingresso al campo sportivo del liceo. Ha deciso di fermarsi e di perdere un altro po’ di tempo. Per nessun motivo sarebbe tornato troppo presto. Che lo aspettasse, che si preoccupasse sul serio…

    Di notte, la scuola e lo spazio intorno avevano un aspetto diverso e il ragazzino ora guardava l’edificio con aperta ostilità. Si è appoggiato con lo zainetto al muro vicino alla recinzione del campo e solo abbassando lo sguardo si è reso conto di avere i piedi in una pozzanghera, sentendoseli gelare un istante dopo. Ha fatto una linguaccia alla propria stupidaggine; si è guardato attorno, era circondato dalla melma stratificata sul marciapiedi. Poi ha notato a terra alcuni manifesti staccati che sembravano offrire un piano d’appoggio decente e ha deciso di spostarsi su quello che sembrava essere il più pulito. Cercava di ispezionarlo bene, voleva essere sicuro che fosse davvero asciutto. Ha strisciato su quel pezzo di carta la scarpa da ginnastica sporca di fango. La melma ha prodotto una traccia interessante sul poster e il ragazzino ha sorriso soddisfatto. Si è accorto che stava calpestando l’immagine di un gruppo di persone allegre che gli trasmettevano il loro buon umore, per cui ha deciso di rendere la scena ancora più gioiosa. La luce era scarsa, ma bastava per intervenire sullo sfondo chiaro. Si è dato da fare: con il fango rimanente sulla sneaker ha aggiunto i baffi a qualcuno, a ognuno ha reso nero un dente ogni due e al volto del musicante ha aggiunto il cappellino di Asterix con tanto di alette. In realtà, più che alette sembravano corna pelose, ma era carino lo stesso… Anzi, il risultato era così brillante che si stava dispiacendo perché il poster e il suo valore artistico appena aggiunto non fossero esposti in un luogo più visibile. Osservando meglio il muro, si è accorto di un paio di manifesti intatti; le due facce senza macchie e senza compagnia allegra, prive di rughe, lisce e rosee, aprivano una serie di possibilità pittoriche. Anche se il poster non si trovava troppo in alto, lo era abbastanza da non essere raggiunto dal piede, per cui il ragazzino si è guardato intorno cercando un oggetto per raccogliere del fango e aggiustare quei due volti. Ha individuato qualcosa che sembrava un pezzo di legno, o forse un sasso, si è piegato per prenderlo constatando che poteva servire allo scopo. Era una pietra, di forma e dimensioni giuste. Impugnandola, ha fatto il pieno di fango e si è messo al lavoro. Al tipo con gli occhiali ha oscurato una lente, gli ha aggiunto una fascia sulla fronte e gli ha fatto nero un dente per benino. Si è scostato, gioendo nel vedere il nuovo aspetto del manifesto e nell’immaginare le reazioni dei passanti il mattino seguente. Poi è passato al tizio dall’aspetto determinato, senza occhiali, e ha deciso di fare dei suoi occhi due buchi neri. L’uomo è diventato cieco, una stupida zucca di Halloween. Era proprio forte quel disegno… Ottimo lavoro. Ha riso ad alta voce e la sua risata ha coperto il rumore di qualcosa che si stava avvicinando. Non se n’è accorto in tempo.

    È rimasto come paralizzato. Come ha fatto a non sentire? Si è fatto distrarre dal gioco… Che idiota. Una macchina con i fari spenti si stava già approssimando al cancello della scuola. Si è sentito pervadere dal terrore. Sapeva che rovinare manifesti era proibito, sapeva anche che le pattuglie della polizia di notte guidavano piano, a fari abbassati, e l’unica cosa che è riuscito a fare è stata lasciar cadere il sasso infangato e balzare dietro l’edificio scolastico. L’avranno visto? L’hanno visto di sicuro. O forse no? Avevano i fari spenti e lui era al buio… Si è schiacciato contro il muro. Per nessun motivo si sarebbe mosso. Poi la macchina si è fermata. Il bambino era immobile, intento a captare i rumori. Non sembrava succedere nulla. Allora, forse davvero non l’hanno visto? Forse erano lì per qualcos’altro? Di sera, all’ingresso del liceo spesso si fermavano coppie per sbaciucchiarsi e agitarsi sui sedili delle loro macchine. Bleah. Ma poi, cosa gliene poteva importare, a quelli, dei suoi scarabocchi. Ha ceduto alla curiosità e si è spostato cautamente, quanto bastava per consentirgli di vedere l’intera automobile.

    I vetri sono scuri, non vede se il conducente è solo o con qualcuno. Con una, due, più persone?

    Lo sportello della macchina si apre. Il ragazzino trattiene il respiro. Dall’automobile esce un tipo grosso. Il bambino chiude gli occhi. Per aver meno paura. No, non dovrebbe tenerli chiusi... Anzi, dovrebbe tenerli ben aperti, per poter scappare in tempo se il tipo dovesse scattare verso di lui. Riapre gli occhi. Vede il gigante dalla testa rasata, leggermente piegato, girare intorno alla macchina, avvicinarsi al bagagliaio di cui il portellone si alza lentamente, estrarne qualcosa. Non guarda nella direzione del ragazzino. Quindi, non l’ha visto. Il bambino comincia a rilassarsi. Quello non si è fermato per i suoi disegni. No, non per i disegni. Comunque, meglio non muoversi. Adesso farebbe solo la figura di uno stupido. L’uomo tira fuori una cosa molto grande, avvolta in plastica. Sta facendo fatica. Con il suo corpo ciclopico ostruisce la visuale del ragazzino, il quale sta cercando di capire cosa ne avrebbe fatto il gigante, di quel pacco così lungo. Magari cercherà di sistemarlo sul sedile posteriore? Oppure, forse...

    D’improvviso, l’uomo solleva il cilindro con entrambe le mani e lo getta nell’oscurità dietro l’edificio. Il pacco cilindrico cade. Sbatte per terra con cupo rumore, gira una volta sola e si ferma controvoglia. Pericoloso, molto pericoloso. Quasi ai piedi del ragazzino. Il ragazzino fissa il pacco.

    Lo guarda mentre una parte del telone pesante si schiude con infinita lentezza.

    Dal telone cade fuori un braccio.

    Se avesse compreso fino in fondo quel che aveva appena visto, forse sarebbe svenuto, forse avrebbe strillato, forse quel grido infantile avrebbe echeggiato nella notte fino a far muovere qualcosa nelle case intorno. Invece ha soltanto emesso un gemito e ha iniziato a correre, come mai prima in vita sua e con un solo febbrile pensiero, di raggiungere la recinzione e il punto in cui si trovava il buco nella rete che conosceva bene. Non ha dovuto cercarlo, l’ha raggiunto in modo preciso, si è piegato, ma non a sufficienza. Lo zainetto si è agganciato, tenendolo attaccato per tre, quattro lunghissimi secondi alla maglia di ferro. Ha spinto in avanti con tutte le forze, il tessuto sulla tasca dello zainetto ha ringhiato cedendo e il bambino si è liberato. Sentiva dei passi, ma non si voltava, continuava a correre, correre a perdifiato, fino a quando non si è reso conto che il rumore dei passi si era interrotto. Si è fermato. Il silenzio dietro di lui è durato poco. Ha udito l’avviarsi del motore. Il ragazzino boccheggiava, cercando di riprendere fiato, poteva permetterselo perché la macchina non era riuscita a seguirlo attraverso il campo da gioco.

    Si è calmato del tutto, tornato a respirare in modo regolare. Doveva guardarsi dietro, guardarsi intorno. Nessuna presenza, nessun movimento. Non vedeva neanche i fari dell’automobile, ma sentiva il motore che lavorava silenziosamente. Doveva muoversi. Non poteva perdere tempo, gli erano troppo vicini, la macchina e l’uomo.

    Azzardarsi attraverso lo spiazzo del campo sportivo era impensabile. Altrettanto insensato sarebbe stato dirigersi verso via Sokolgradska, che confinava con il cortile della scuola; lì, oramai, non c’erano più vecchie case, neanche una, solo nuovi palazzi con i loro bastioni di cemento, impossibili da scavalcare.

    E se la macchina fosse partita verso Sokolgradska?

    No, meglio non andare in quella direzione.

    Adagio, cercando l’oscurità, il ragazzino si muove verso via Dobojska.

    No, non verso Dobojska! Deve tornare indietro, deve tornare sulla strada principale, dove c’è gente. Ma non riuscirà mai a passare accanto a quella cosa. Eppure, dovrebbe tornare indietro. Forse loro lo aspettano proprio in Dobojska?

    Per niente al mondo verso Dobojska!

    E forse, forse invece sono scappati? Hanno paura di colui che ha visto. Tutti hanno paura di colui che ha visto.

    Dovrebbe tornare indietro, ma come farà a passare accanto a quella cosa?

    Al diavolo, si è mosso comunque verso Dobojska. Ha raggiunto la casetta adiacente al liceo, sapeva che nel cortile non c’erano cani e questo l’ha rincuorato. Aggrappandosi con entrambe le mani è saltato dentro e ha attraversato a testa bassa la minuscola proprietà. Ha sbirciato, rimanendo piegato. Sapeva che, così piccolo e curvo, era quasi invisibile dalla stradina. Dobojska era vuota.

    Ora!

    Ha saltato la palizzata, attraversato la strada di corsa per arrampicarsi su un’altra recinzione. Dal cortile a fianco ha sentito un cane abbaiare e tirare la catena. Senza fermarsi, ha attraversato il cortile correndo, le luci nella casa si sono accese, una voce ha esclamato un ladro, c’è un ladro nel giardino… Il bambino era già sul lato opposto e saltando la staccionata disfatta di un orto trascurato, é sbucato su via Maglajska.

    Ha guardato a destra. Niente. Nessuno. Ha guardato a sinistra. Il respiro gli si è bloccato in gola, ha gorgogliato, ripreso il fiato e iniziato a strillare. Fermo in piedi, davanti alle fauci spalancate della bestia, strillava a squarciagola, senza riuscire a muoversi. Immobile.

    Proprio come la macchina che splendeva di nero nel buio di via Maglajska.

    Si sono accesi i fari terrificanti. Accecato da quelle luci, il ragazzino si è infine mosso e ha iniziato a correre. A destra.

    La macchina è scattata per inseguirlo.

    Per poi inchiodare dopo pochi metri.

    Via Maglajska, stradina senza uscita, era troppo stretta per le bestie così grandi. La bestia non riusciva ad andare avanti. Non poteva proseguire. Lo spazio non bastava neanche per aprire lo sportello, per lasciar scendere l’uomo e permettergli di inseguire il bambino.

    Chiunque fosse al volante, conosceva male le vie di Trešnjevka.

    Mentre il conducente imprecava, il ragazzino correva come forsennato. Dopo aver superato in volo l’ultimo recinto si è trovato sul prato incolto, accanto al mercato; poi le cose sono andate proprio come con dei veri agenti segreti.

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