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Tutti chiamano mio padre padre
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E-book282 pagine3 ore

Tutti chiamano mio padre padre

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Info su questo ebook


Questo libro è basato sulla vera storia d'amore della vita dei genitori dell'autore. Sua madre era una talentuosa attrice e produttrice di Brodway e suo padre era un prete cattolico.
Una storia complicata e piena di emozioni.

LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2019
ISBN9781393932536
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    Anteprima del libro

    Tutti chiamano mio padre padre - Tim 'Dr. Hope' Anders

    Tutti chiamano mio padre padre

    Tim 'Dr. Hope' Anders

    ––––––––

    Traduzione di Caterina Lo Gioco 

    Tutti chiamano mio padre padre

    Autore Tim 'Dr. Hope' Anders

    Copyright © 2019 Timothy Anders

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduzione di Caterina Lo Gioco

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    ––––––––

    Copyright © 2019 by Timothy Anders

    Published by Alpine Publishing, Inc.

    4616 W. Sahara Ave. # 250 

    Las Vegas, NV 89102 

    ––––––––

    All right reserved.

    No part of this publication may be copied, photocopied, electronically stored, transmitted or reproduced in any form or manner whatsoever without prior written consent of the publisher.

    ––––––––

    ISBN 978-1-885624-84-0

    Ringraziamenti

    L’autore vorrebe ringraziare le seguenti persone per la collaborazione ed il supporto durante la redazione di questo libro: Anita Coolige, Jolie Miller, Julie Donlon, Liba Coplen, Marlaine Hopper, and Marti Avila.

    Dedica

    Dedico questo libro alla memoria di mia madre; il suo sorriso allegro e il suo carattere ottimistico avranno sempre un posto speciale nel mio cuore.

    Capitolo Uno

    Probabilmente, questa storia non dovrebbe essere raccontata. Forse sarebbe meglio che certe cose rimanessero non dette. Ma desidero davvero raccontare la storia della forza e della passione di una donna straordinaria. Infatti, se non fosse stato per quella donna, io non sarei nato.

    La nostra storia inizia...

    No, non devo farlo, pensò Hughie Hewitt, immaginando le devastanti conseguenze. Conseguenze che avrebbero colpito non solo lui, ma anche quell'adorabile donna di venticinque anni seduta davanti a lui.

    Correva l'anno 1946. Durante una fredda notte d'inverno, nell'Upper East Side di Manhattan, un uomo dalla figura esile sulla trentina abbondante ed una bella ragazza erano seduti al bar debolmente illuminato del ristorante italiano Rao's. L'aroma speziato della salsa alla marinara riempiva l'aria mentre un vecchio orologio di legno suonava l'ora: erano le tre del mattino. I due erano gli ultimi clienti rimasti nel locale. La luce della fiamma della candela tremolava riflettendosi sul delicato volto di lei, mentre si avvicinava all'uomo. 

    Bouvette Sherwood si perse nell'azzurro intenso degli occhi di quell'uomo attraente e ben rasato, inconsapevole del pericolo che la attendeva. Hughie Hewitt conosceva il pericolo, ma non disse niente ugualmente. Lei lo affascinava. Cercando di nascondere il proprio supplizio interiore, Hughie la osservò mentre si pettinava fieramente i capelli castani ramati. i suoi movimenti creavano una cascata di colore brillante, inviando onde di luce a cascata lungo i bei capelli rossicci. L'infatuazione in lui crebbe. Lei sorseggiava la sua Coca Cola alla ciliegia. 

    Un angelo, pensò Hughie. Sono al cospetto di un angelo.

    Il campanello suonò ed un ometto con un sigaro piantato in un angolo della bocca fece il suo ingresso nel bar.

    Qualcuno di voi, gente, ha chiamato un taxi? chiese, pulendosi il naso.

    Sì, io. Solo un attimo, disse Bouvette, sorridendo educatamente.

    Si voltò verso l’uomo alto e discreto con il quale era seduta e disse: È stato davvero bello poterla finalmente conoscere, signor Hewitt. Sebbene lei lo avesse già incontrato varie volte, erano stati ufficialmente presentati soltanto alcune ore prima. Le sue storie sono deliziose e la sua compagnia lo è altrettanto. Non ridevo così tanto da anni.

    Anche a me è piaciuto stare in sua compagnia, signorina Sherwood, disse lui, facendo scorrere un dito esile sul bordo del bicchiere, forse più di quanto avrei dovuto.

    Cosa intende? Ha una moglie gelosa?

    Oh, no, rispose lui. Non sono sposato, ma, forse, vedersi non sarebbe una buona idea, aggiunse, con l’espressione di un bambino che ha appena perso il suo animaletto.

    E perché mai? domandò la ragazza, sorpresa dall’improvviso cambiamento di tono del suo interlocutore.

    Probabilmente non è una buona idea. Finì di bere il Dewar’s White Label che gli era rimasto nel bicchiere.

    Faccia come crede, disse lei in modo amichevole, come se non le importasse. Comunque, è stata una bella serata e...

    Signorina, non ho tutta la notte..., esordì il tassista.

    Si alzarono dal tavolo e si spostarono verso l’appendiabiti smaltato di nero che si trovava in un angolo della stanza. Lui la aiutò ad indossare la lunga pelliccia di visone, sentendosi eccitato dal dolce profumo di lei. La ragazza si fermò e si voltò verso di lui, osservando teneramente come le braccia di Hughie si infilassero nelle maniche del suo cappotto di lana consumato. Bouvette sentì che ci fosse qualcosa di sbagliato.

    Perché, tutto d’un tratto, è così triste? È per qualcosa che ho detto?

    Oh, no, non è lei... Sono io... Mi spiace... È stata davvero una splendida serata, disse, sorridendo per mascherare la tristezza. In un attimo, passò accanto al tassista per poi uscire dalla porta. Gli occhi di Hughie rivelarono una traccia di dolorosa disperazione. Si girò verso di lei, salutò frettolosamente con la mano e disse: Buonanotte.

    Buonanotte, rispose lei. Un attimo dopo, era sparito.

    Bouvette si sistemò il cappotto e tornò al bar. Voltandosi verso Vincent Rao, il barista e proprietario del ristorante, Boo disse: Il tuo amico è proprio un bell’uomo, ma sembra un tipo malinconico.

    È la persona più gentile e dolce che tu possa incontrare sulla faccia della terra. Siamo cresciuti insieme. Bouvette vide uno scintillio di sincerità brillare nei dolci occhi castani di Vincent, i quali erano incorniciati da delle sopracciglia folte, da italiano.

    Viene spesso qui?

    Non passa un giorno senza che non veda il mio amico Hughie.

    Signorina, non ho tutta la notte. Vuole il taxi o cosa? disse il tassista, chiedendosi per quanto ancora quella ragazza dai capelli rossi gli avrebbe fatto sprecare tempo.

    Sì, certo. Andiamo. Buonanotte, Vincent.

    Ciao, Boo, rispose Vincent: la maggior parte degli amici di Bouvette era solita chiamarla ‘Boo’. Un attimo dopo era fuori dalla porta, il tassista dietro di lei. Le guance di Boo diventarono rosa a contatto con l’aria gelida della notte newyorkese, sentiva il freddo filtrarle attraverso i guanti di cuoio. Quindi, spinse per aprire la portiera ed entrò nel taxi giallo.

    Dove la porto?, chiese il tassista.

    Al 737 di Park Avenue, rispose Boo.

    Mentre partivano, la neve iniziò a cadere in fiocchi simili a paracadute che volteggiavano, capricciosi, nel vento.

    Hughie Hewitt stava camminando lungo il marciapiede freddo con passo pesante, triste, con la mente infestata dalla rossa accattivante che aveva appena lasciato. Una raffica di vento gli colpì il viso con dei fiocchi di neve, accecandolo per un momento, mentre si faceva strada verso la chiesa cattolica di St Paul.

    Aveva bisogno di pregare.

    Noncurante del freddo e del mormorio della neve sotto le suole sottili delle scarpe, i suoi pensieri continuavano ad essere fissi su Boo.

    Dio, ho bisogno d’aiuto, pensò. Normalmente, l’alcool calmava la sua passione per le donne, però quella notte aveva avuto l’effetto opposto: stava lottando contro il desiderio che imperava nelle profondità della sua anima.

    La voleva. Desiderava di sentirla, di stringerla, di assaggiare il suo dolce sapore, di assaporare quel giovane corpo in fiamme attaccato al suo e le sue belle labbra strettamente premute contro quelle di lui. Visioni come questa lo tormentavano.

    Hugh non aveva mai concesso a se stesso di soccombere a tali brame. La voglia di una compagnia femminile sfrigolava in maniera insostenibile in lui, accendendogli un fuoco dentro: l’unica àncora di salvezza era stata l’alcool, ma iniziava ad essere fallace. Doveva essere forte. Doveva pregare.

    Si fermò di fronte a St Paul ed osservò la neve tingere di bianco il tetto della vecchia chiesa. Il lamento di una sirena in lontananza ruppe il silenzio della notte. Trattenendo le lacrime, Hugh si chiese se fosse stato il caso di entrare. Ma aveva bisogno del suo Dio, perciò entrò nella Casa del Signore.

    Hughie si fermò un istante per immergere le dita sottili nell’acqua santa. Il suo tocco leggero creò delle lievi increspature ai lati dell’acquasantiera; quelle increspature erano simili a quelle di agonia che sentiva dentro di sé. Si genuflesse. L’unico suono udibile era quello delle sue scarpe sul pavimento di marmo. Si inginocchiò al cospetto del Crocefisso, dopodiché scoppiò in lacrime.

    Qualcosa non va, padre Hewitt?. Un’anziana tarchiata con un maglione nero ed una scopa in mano si avvicinò a lui.

    Oh, niente, signora Sullivan, ho solo avuto un cattivo pensiero. Adesso è passato, sto bene. Cosa ci fa qui a quest’ora di notte? disse Hughie.

    Suvvia, padre Hewitt, sa benissimo cosa ci faccio qui: sono quasi le cinque del mattino; devo spazzare la chiesa prima che padre O’ Brien dica messa alle sei, rispose la signora Sullivan. La sua cadenza irlandese faceva la spia sulla sua immigrazione anni addietro.

    Oh, è già così tardi? Devo aver perso la cognizione del tempo. Allora, buonanotte, signora Sullivan. Cioè, volevo dire, buongiorno. Ogni parola da lui pronunciata faceva sì che l’alito alcoolico venisse spinto verso di lei.

    Buona giornata, padre, disse, facendo girare il manico della scopa e rimproverandolo con lo sguardo, osservandolo attraverso gli occhiali spessi.

    Padre Hewitt oltrepassò in modo imbarazzante la porta accanto ai confessionali intagliati a mano, scomparendo al di là del refettorio. Sgattaiolò silenziosamente nei corridoi, attraverso la scala scoscesa che conduceva alle sue stanze private. La camera di padre O’Brien si trovava all’altro capo di quel corridoio buio. Hughie camminò con passo felpato, sperando di non incontrarlo: non aveva alcuna voglia di giustificarsi ancora.

    Padre Daniel O’Brien, un irlandese con la testa piena di capelli bianchi, portava male i suoi sessantaquattro anni. Si trovava biblioteca del refettorio, appollaiato sulla sua sedia preferita, traboccante di cose. Con un colpetto del dito sporco di rosso, girò pagina al suo taccuino dei sermoni, in vista dell’imminente messa delle sei. Inumidì la punta del suo lapis con la saliva, poi prese degli appunti con una bella calligrafia, degna di quella di un fisico.

    Aveva avvertito un swoof, swoof provenire dal corridoio: era il passo felpato di Hughie, attuito ulteriormente dalla moquette orientale sul pavimento.

    Padre Hewitt?, esordì padre O’Brien, alzandosi. Hughie rimase paralizzato davanti alla porta aperta della biblioteca.

    Per la miseria, padre Hewitt! Non sarai mica rimasto fuori tutta la notte a bere, vero?, domandò il vecchio irlandese. Di solito non era così austero nei confronti del collega e amico. Sebbene Hughie fosse il parroco, rimase timidamente davanti a padre O’Brien, come uno scolaretto beccato ad intingere la coda di cavallo della sorella nel calamaio. Restò in silenzio.

    Non ho intenzione di sostituirti un’altra volta, come la scorsa domenica, visto che eri in uno stato pietoso per aver alzato troppo il gomito la sera prima. La sua collera crebbe finché non riuscì a percepire il dolore che affliggeva l’amico. Perciò disse gentilmente: Non credi di aver tirato un po’ troppo la corda? Ancora silenzio. Bene, Hughie, io torno a preparare la messa. Riposati. Ne riparleremo domani. Si spinse verso il metro e novantadue di Hughie per dargli una pacca sulla spalla.

    A testa bassa, Hughie si diresse alla sua camera da letto. La scala scricchiolò come se venisse ferita dal peso che Hughie sentiva sull’anima. Entrato in camera, andò direttamente verso un mobile di ciliegio: lo aprì e prese una bottiglia mezza vuota di Dewar’s. Con le mani tremanti, se ne versò in grande quantità in un bicchiere sporco d’acqua. Lo bevve in un sorso e se ne servì un altro immediatamente; le mani tremavano un po’ meno.

    Finì di bere il secondo bicchiere mentre si spogliava. Dopodiché, crollò sul letto. L’alcool stava adempiendo i suoi doveri: il tumulto interiore soccombeva all’effetto annebbiante dell’alcool. La sua mente vagò fino al forte odore d’incenso che aveva sospeso in aria il giorno in cui aveva preso i voti. Ricordava quanto era stato contento di inginocchiarsi davanti al vescovo Newheart, di diventare, finalmente, un prete, come sognava fin da bambino. Sapeva di non poter abbandonare il sacerdozio; era chi era e tutto ciò che aveva sempre saputo evoluto essere. Tuttavia, quel desiderio segreto di compagnia si era fatto strada, facendolo soffrire, negli ultimi anni. Al buio e nel suo letto caldo, una lacrima fece capolino dalla palpebra chiusa, per poi scendere lungo la guancia e venire ingoiata dal cuscino.  Boo fu il suo ultimo pensiero prima di sprofondare in in desiderato stato di incoscienza.

    Capitolo Due

    Il sole del pomeriggio splendeva attraverso la finestra di un appartamento in centro, quello di Boo; i mobili affascinanti, eleganti ed estremamente femminili si addicevano alla celebre donna dello spettacolo che era.

    La caffettiera gorgogliò sul fornello, riempiendo l’aria con il profumo del caffè appena fatto. Con soltanto una vestaglia azzurra addosso, Boo stava avendo una chiacchierata da ragazze con la sua migliore amica, Mary Stevens.

    Mary attendeva, pazientemente seduta, il suo caffè, rigirandosi alcune ciocche dei capelli castani fra il pollice e l’indice. La figura esile ed i tratti delicati del viso di Mary rivelavano che quella bellezza fosse anche un’attrice e modella di talento.

    Dio, Boo! Mi sono appena resa conto che sono già passati cinque anni da quando ci siamo conosciute. Ti ricordi di quello stranissimo provino a cui eravamo andate, nell’East Village? Ti rendi conto? Cinque anni... E quel produttore viscido, George... come si chiamava? disse Mary, con un sorriso a trentadue denti, mentre si sistemava il maglione di cachemire nero.

    Sì e anche di come era venuto da noi ragazze mentre cercavamo di rileggere le nostre battute finché... Mary ridacchiò. Sua moglie era apparsa quel giorno e lo aveva preso a schiaffi talmente forte da fargli volare via il toupet dentro il... sogghignò Boo.

    Ventilatore da tavolo! E quello lo aveva fatto a pezzettini e li aveva sparsi per tutto il palcoscenico! ruggì Mary.

    "Sembravano migliaia di falene barbute in volo. Quel pervertito di George pareva un ricevitore di insetti impazzito mentre le inseguiva e tentava di rimetterle insieme.

    Boo mise una lattiera di porcellana delicata ed una zuccheriera sulla tovaglia di pizzo che ricopriva il tavolo della cucina. Poi, ancora ridendo, tolse la caffettiera dal fuoco.

    Cinque anni... e adesso, guardati! Ora sei una produttrice di opere teatrali e decisamente più famosa di quanto il vecchio George Goldstein sia mai stato disse Mary, riferendosi all’attuale produzione di Boo di Revival della foresta pietrificata, di cui era parte anche Mary.

    Sì, ma... è perché io ho un toupet migliore disse Boo, spostando i capelli su una spalla con una mossa teatrale. Portò in tavola dei danesi ancora caldi su di un vassoio d’argento, versò il caffè in due tazzine e ne allungò una a Mary.

    Mmm, questo caffè è fantastico, affermò Mary, dopo una breve pausa. Su, raccontami di questo misterioso sconosciuto che ti ha fatta rimanere fuori casa fino alle quattro del mattino. Ti ha baciata o cose simili? le strizzò l’occhio Mary.

    Mary! Mi sorprendi parlando così dopo il nostro primo... ah, ecco ehm.. non era un vero appuntamento, rispose Boo.

    "L’hai baciato tu?"

    Mary!, disse Boo, evidentemente imbarazzata. Scivolò con grazia sulla sedia che si trovava di fronte all’amica e poi infilò il cucchiaino d’argento nella zuccheriera.

    Okay, lo prendo come un no, disse Mary, con la bocca piena. Dai, spara! Boo mescolò il suo caffè. Lo scoop, Boo! Voglio i dettagli, andiamo! Com’è? Come l’hai conosciuto? Dai!

    Boo iniziò a raccontare: "Dunque, è alto e bellissimo. Si chiama Hughie, anche se continuo a chiamarlo signor Hewitt. E mi piace molto. Mi fa ridere. È così bello ed anche educato e gentile. Ha i capelli grigi e degli occhi azzurri intensissimi: è il tipo d’uomo di cui ci si innamora in un attimo. E ti ho già detto che è alto e BELLISSIMO e che avrei voluto che mi baciasse lui?" esclamò Boo, mentre parlava senza sosta, come farebbe una scolaretta con la sua prima cotta.

    Mary si attaccò ad ogni parola. È un vecchio amico di Vincent. Hai presente Vincent? È uno dei fratelli proprietari del Rao’s, nell’Upper East Side. Ci siamo incontrati là. Sai, no? Quello sulla 114esima strada Est, dietro quella bella recinzione di ferro.

    Oh, certo, quel covo di picciotti!

    Picciotti?, rispose Boo, perplessa.

    Non dirmi che non sapevi che i fratelli Rao sono dei picciotti!

    Picciotti? Nel senso che sono piccoli? disse Boo, innocente, sorseggiando il suo caffè.

    La serietà nella voce dell’amica fece sbottare Mary: Gesù, Boo, tutta questa ingenuità in una donna intelligente come te, mi lascia senza parole!, ridacchiò.

    Quando hai finito di ridacchiare, che ne dici di informare questa povera ed ignorante ragazza californiana? O devo ricordarti, cara Miss Perfezione, delle serre- pietre? ribatté Boo, riferendosi ad un episodio in cui Mary era stata quella ignorante.

    " Un picciotto è un mafioso, un gangster. Fanno parte della criminalità organizzata."

    Oh... oh, no, non è possibile! Vincent è un così bravo ragazzo, non può essere un gangster, lo conosco da anni! Sicuramente ti sbagli, commentò Boo, ancora sconvolta dalla rivelazione dell’amica.

    Posso dimostrartelo, ma devi promettermi di non dirlo ad anima viva, sussurrò Mary.

    Promesso.

    Ti ricordi quando, tre anni fa, me la facevo con Sam, il direttore di scena?

    Mh-mh.

    Non era una cosa seria, ci stavamo solo divertendo. Comunque, mi sono messa, ehm, nei guai.

    Sei rimasta incinta!

    Lei annuì. L’ultima cosa che Sam ed io volevamo era sposarci e crescere un figlio; sapevo benissimo che non sarei riuscita ad essere una madre single, tutta sola in questa città. E, francamente, non volevo mettere fine alla mia carriera per occuparmi del bambino. Perciò, lui mi portò da suo cugino, che era Vincent, e si misero d’accordo con un medico per farmi abortire.

    Wow! Come hanno fatto a convincere un dottore ad infrangere la legge?

    Boo! disse Mary, senza giri di parole, mentre si tamponava un angolo della bocca con un tovagliolo di lino. "La mafia può fare pressione sulla gente. Era venuto fuori che un medico gli doveva un sacco di soldi per un debito di gioco. Mi hanno fatto un controllo al Flower & Fifth Avenue Hospital e l’aborto è stato verbalizzato come una piccola operazione ginecologica. È stato semplice, non ci sono stati problemi."

    Hai avuto paura? chiese Boo, con gli occhi sgranati.

    Un po’, ma sono stati molo delicati, grazie a Vincent. È un vero amico. Mary

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