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La grammatica dell'errante
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E-book105 pagine1 ora

La grammatica dell'errante

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Chi è l'errante? Porsi la domanda non è dare, necessariamente, una risposta. Non bisogna mai cercare una risposta che provenga dal sottosuolo e dalle stelle danzantì. Verrà tra l'inaspettato e il superamento dell'attesa. Nella sua grammatica l'errante ha deì codici che bussano a ogni tipo di silenzio. Individuarli è il compito del lettore che sa andare, vuole andare, vorrebbe capire oltre il quotidiano esistere. Questo libro non è soltanto un viaggio. Potrebbe essere un miraggio, un'alchimia, un'isola. L'importante è saper dialogare con la profezia senza lasciarsi intrappolare dal tempo.

Piefranco Bruni
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita10 dic 2022
ISBN9791222033051
La grammatica dell'errante

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    La grammatica dell'errante - Pierfranco Bruni

    La solitudine dell'errante

    Il cavaliere e la solitudine e l’estraneo sono la dimensione tragico-onirica nella quale si riflette un intero percorso letterario. Un profondo incontro tra il linguaggio e l’esistenza che assume i contorni di una antropologia decadente e profeticamente annunciante l’esilio dell’anima.

    Di questo esilio è protagonista l’errante che non ha fissa dimora, volutamente, e che si incaglia tra insenature delle pietre che fanno da contorno al porto. Pirandello ha lasciato che l’esilio dell’anima restasse maschera, specchio e doppio. Sciascia, che ben ha saputo leggere il Pirandello dell’ironia e del tragico, fa dell’esilio dell’anima un cavaliere che perde il suo senso dell’errare.

    È Pavese che circoscrive nella sua isola proprio l’esilio e nell’esilio del vivere si perde alla ricerca del porto dell’anima. Tutte metafore che sono un orizzonte di scene che hanno come principio portante la metafisica. Pirandello, però, taglia tutto e lo fa con una tale disinvoltura da ricontestualizzare ogni cosa in una solitudine senza scampo.

    Una solitudine che divide l’io, ovvero taglia, nuovamente, l’io dall’estraneo che è nel suo doppio.

    In Uno, nessuno e centomila:

    « La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un'incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l'intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi».

    L’errante è nella solitudine, ma è anche in un viaggio che lo pone costantemente di fronte al concetto di estraneo, ovvero camusianamente di straniero. La solitudine e lo straniero convivono in modo metafisico perché sono l’insistenza del non limite sia nella Parola come verbo, sia nella vita spezzata dal Tempo.

    L’errante è come se fosse una vocazione. Pavese aveva tale predestinazione. Come anche Eliade nel suo labirintico pazientare una Arianna incastrata nei giochi sottili del mito. E sempre la Zambrano che fa dell’anima della solitudine l’agonia dell’errante estraniante. La metafisica dell’esilio è il pensiero includente della solitudine – isola che vive l’errante.

    Un percorrere tra l’amore e il tempo. Pirandello:

    «E l'amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno. Finse di morire per un giorno, e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare. Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva. Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, il tempo moriva e lui restava».

    Un intreccio in cui la metafora si trova ad essere realmente compiuta. Non bisogna chiedersi il significato. Nulla ha significato quando a dialogare con il silenzio resta l’errante che nel corso del suo errare incontra unicamente se stesso.

    Dice Gibran:

    «E anch'io sono il precursore/di me stesso,/sebbene io sieda all'ombra/dei miei alberi e sembri immobile».

    Forse è una delle immagini più toccanti che penetrano il senso della solitudine che diventa vita. Ma Pirandello, pur nella disperante solitudine, ha il vento della propria consapevolezza nella coscienza di sé. Questa coscienza di sé non è altro che il tragico ascoltare la contemplazione.

    Tutto questo ha, dunque, un senso perché affiora sempre, in modo nicciano, una volontà di potenza che attraversa la vita di tutti noi per raccogliere le scintille del mistero-segreto.

    Di questo si vive per essere e per andare sempre dove il silenzio incontra la pazienza. La solitudine è nell’errante e l’errante vive nella solitudine. Un viaggiare che ha voci ed echi nel sogno.

    Devi sapere…

    Il mondo sciamano è il mondo della Illuminazione e del Pensiero. Si viaggia nel Silenzio e nella Parola. Dovremmo porci sempre in ascolto. La magia e gli archetipi sono il senso del viaggio nel mistero. Il mondo sciamanico non è un archetipo. È piuttosto una alchimia che ha il potere dei silenzi. Bisogna avere pazienza. Molta pazienza per non essere fregati dalla impazienza.

    Questo non ha nulla a che fare con la tolleranza. Pazienza e tolleranza non sono lo stesso cammino.

    Bisogna saper camminare lungo le tracce della pazienza per trovare il tempo impareggiabile. Non dimenticando ma ricordando comunque di dimenticare.

    C’era una volta un tempo in cui la memoria era soltanto sogno. E il sogno si colorava di fantasie lungo i viaggi dell’essenza della vita. Il silenzio era potere. Il potere del silenzio era una arcana energia dello spirito.

    È un andare tra i ricordi. Ma la distinzione tra il ricordare e afferrare la memoria, è presente. Nel tempo i ricordi si frantumano e si raccolgono sulla tastiera della memoria. Nella memoria c’è il sapere e c’è il potere. Sentire, sognare e vedere. Sono i compiti anche della farfalla notturna che si metaforizza con il suo volo e con la sua presenza nel mondo.

    Il mondo e la memoria.

    C’era una volta la memoria, che si sposava con il mistero e l’isola della metafora era l’isola dei segreti velati e poi chiariti.

    La magia e il mito ridisegnavano i luoghi di questo mistero.

    Lo sciamano

    Come sempre. Così. La sera con la luna nel taglio degli orizzonti del mare diventa una lingua di fuoco. Una metafora nel gioco indefinito. Ti amo. Ascolto l’esile gioco dei granelli che vivono nel cono della clessidra. Mi batte il tempo. Come se fosse un rumore del vento che agita le corde dei versi andalusi che sfiorano i tuoi neri capelli. Neri. Smaglianti nelle voci di Sorrento.

    Il mare luccica e su una terrazza ti osservo senza catturare il tuo sguardo. Sei la mia onda. Sei nella mia onda. Ricordi. Ricomincia sempre il canto. Tu mi sciogli il sangue dentro le vene. Caruso. Ti ho ritrovata a Sorrento. Tra i vicoli e il mare. Quanta bellezza nei nostri segreti. Non ti parlo di mistero. Quello è inconfutabile come il nostro amore che gira che ti rigira tra le labbra della conchiglia.

    Non so se contare i passi degli anni o soltanto i mesi. Ci siamo inventati un appuntamento. Ci siamo raccontati le storie senza le parole e con la notte nello sbattere dei silenzi. Come la notte di Salerno. Lungomare. Sui sassi con la giovinezza degli anni perduti ci siamo dipinti i giorni per non rincorrere nostalgie.

    Ti amo. Sorrento, Salerno, le lunghe corse, il fascino della passione e poi Roma nel cerchio magico dell’indimenticabile che riporta odore di Oriente e sapori che hanno richiami di una Calabria ancestrale. L’Oriente è un segno che ti porti negli occhi. Con la mia gelosia e la tua affidabilità. Cosa è l’amore infedele.

    Ma no. L’amore resiste quando è amore. L’amore non ha bisogno di fare i conti con i colori degli arcobaleni. Non mi tradire mai. In una stanza d’albergo ti ho posseduta penetrandoti l’anima e mentre ti carezzavo i seni con il mio volto e con le mie mani intrecciavo i capelli ti ho detto sottovoce per ripeterti il sogno dell’amore: non mi tradire mai, non mi lasciare mai. Donna mediterranea. Sei scesa con me nell’infinito e ti porto nell’infinito

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