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Senza notte
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E-book321 pagine4 ore

Senza notte

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Info su questo ebook

Scrivere “Senza Notte” è stata per me una esperienza nuova, vissuta partendo da una idea di base che, durante la stesura, si è evoluta passo dopo passo, fino al punto in cui il romanzo ha deciso di raccontarsi da solo, in un modo che io stessa ho scoperto solo scrivendo. Questa particolare genesi non si percepisce durante la lettura, in quanto sono intervenuta diverse volte sulla bozza del testo, proprio per assicurarmi che restituisse una lettura uniforme e chiara. Tuttavia mi farà piacere se, dal punto di vista emozionale, si riusciranno a cogliere i vari piani di scrittura e i diversi stati emotivi che si sono generati e che hanno portato il racconto a definirsi nella forma in cui è stato pubblicato. In questo romanzo ho voluto inserire anche una parte di me stessa e del mio vissuto (ho lavorato per anni presso studi odontoiatrici) prendendone spunto per elaborare una trama che interseca una prefazione storica e un moderno thriller esoterico. Mi sono messa alla prova, muovendomi in un universo narrativo composto da personaggi insoliti e tuttavia vicini alla nostra quotidianità, per ottenerne una trama fantasy, ambito a me congeniale nel quale mi sento senz’altro di collocare il romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ago 2019
ISBN9788869827341
Senza notte

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    Anteprima del libro

    Senza notte - Elisabetta Munerato

    reali.

    Prologo

    Dove mi trovo?

    Tutto è sfocato, buio e confuso.

    Non ci sono suoni… non riesco a percepire nemmeno il mio respiro.

    Ovunque lo sguardo si perde nel nulla; sono scomparsi i colori, disciolti in un grigiore lattiginoso che avvolge tutto. Un velo intangibile che si muove in maniera lenta e caotica attorno a me, mutando continuamente di direzione.

    Mi sforzo di guardare attraverso la nebbia, ma vedo solamente delle ombre, diafane e sfocate, che appaiono e scompaiono nel nulla. Si formano e si dissolvono senza una ragione, facendomi dubitare di avere perso il senno.

    Vago senza meta, in un’oscurità senza materia, vacillando ad ogni passo per la sensazione di trovarmi sempre sull’orlo di un precipizio.

    Il tempo ha perso ogni significato: sono passate ore, minuti o solamente pochi istanti?

    Lontana, così difficile da scorgere, una piccola sorgente luminosa. Come una falena vengo immediatamente attirato, affascinato dalla sua purezza. Non importa quanto ci vorrà, so solo che devo raggiungerla.

    Non ricordo nulla di me… ho reminiscenza solamente di un volto… un volto severo e inquietante, che mi osservava senza emozioni e senza parlare.

    E poi un altro viso. Un viso angelico. Una fisionomia femminile senza nome, senza ricordi, ma per la quale provo qualcosa, un’emozione, una sorta di attrazione.

    E’ forse il legame, l’anello mancante fra quello che è stato e quello che è? L’ultima cosa che i miei occhi hanno visto, prima di questo fumo senza odore, che si addensa e si dissolve davanti a me, senza che un filo d’aria ne giustifichi il movimento?

    Senza notte

    Primo decennio del XIV secolo

    Borgo fortificato di Vigevano, antico insediamento posto tra Milano e Pavia, ai margini della valle del fiume Ticino.

    Eccola!

    La testa china, la schiena ricurva e la mano delicata, che tiene fermo il foglio sul quale sta scrivendo.

    È lei? Sì, sì, credo che sia lei!

    Le giro attorno per esserne sicuro, ma i suoi capelli lunghi e ondulati combaciano con i miei ricordi.

    Piccola creatura! Concentrata nel suo lavoro, silenziosa e composta. Non sa che sono arrivato, come potrebbe?

    Mentre la osservo, la sua mano destra scivola veloce sulla pergamena, ricamandola ordinatamente d’inchiostro.

    M’incanto di fronte al suo viso, pallido e armonioso nei lineamenti, appena illuminato dalle fievoli luci delle candele.

    Gli occhi vispi brillano come stelle e seguono seri gli appunti stilati dal suo padrone.

    Eccolo!

    È lui, fermo in piedi davanti alla finestra. La guarda immobile e insistentemente. Non dice nulla. Tace e respira profondamente. Egli è il suo padrone, il suo maestro e se volesse potrebbe disporre di lei a suo piacimento.

    La mano si ferma all’improvviso. Gli occhi controllano ciò che è stato scritto. Poi, senza sollevare lo sguardo, lascia cadere il pennino nel calamaio e lentamente alza la testa, sospirando.

    Guarda verso di me, fissando con gli occhi spalancati. Il suo sguardo mi colpisce, mi trafigge, oltrepassandomi come una freccia. Poi si posa sul suo padrone, centrando il bersaglio come un arciere esperto.

    «Stanca?» le dice incrociando le braccia davanti al petto.

    «Non molto!» risponde con voce tremula.

    Le fanno paura gli occhi scuri e severi del suo padrone, soprattutto quando sono soli.

    Appoggia delicatamente la mano destra sul foglio e, con la sinistra, riprende il pennino e ricomincia a ricamare lettere che formano parole.

    Il suo padrone adora guardarla. Soprattutto quando cambia abilmente mano. Per lui è magica, speciale. E’ qualcosa di unico vederla usare sia la mano sinistra sia quella destra con naturalezza, in ogni sua mansione.

    Lo incuriosisce e si chiede come potrebbe essere fatto il suo cervello. Potrebbe farlo. Oh, se potrebbe farlo! E godrebbe nel farlo! Appenderebbe il suo corpo, come fa con i cadaveri che è solito studiare, per scrutarla e descriverne ogni parte anatomica. Lo aprirebbe, per compiacersi della sua carne rossa e calda. Poi, sul tavolaccio di legno, le romperebbe il cranio, per asportarle il cervello e controllarne la forma, il colore e ogni minimo dettaglio, ne sono certo! Ma lei è preziosa, e lui non potrebbe privarsene ora, solo per soddisfare una sua curiosità.

    Rimango con lo sguardo fisso su di lei, come anche l’uomo davanti alla finestra. Aspetto che le dica qualcosa, ma lui non proferisce parola. Sta pensando, lo so! Quando la guarda, gli nascono nella mente mille e mille pensieri. Però, se solo lei lo cerca con gli occhi, anche per un breve istante, la sua testa si svuota.

    Il gallo canta. E’ l’alba e per tutta la notte la serva colta ha lavorato con dedizione. Ora le sue mani possono fermarsi e riposare. Sistema ogni cosa e ripone con cura il suo lavoro, come fosse un ricamo prezioso. Poi prende una candela e si avvia verso la finestra. Si sofferma per un attimo davanti al suo padrone che dorme, steso sul letto di paglia. Lo odia? Lo ama? Forse nemmeno lei sa quale sentimento prova per lui. Apre le imposte di legno e una sottile luce entra nella stanza. L’alba, ancora un po’ appisolata, si adagia sulla stoffa oleata della finestra, la oltrepassa e timida entra nella camera, risvegliando ogni cosa.

    Con soffi leggeri dalle sue labbra rosee emette il fiato che spegne la fiamma delle candele. Pare baciarle, accendendo in chi la guarda un ben altro tipo di fuoco: l’ardore di possederla. Il suo viso si lascia sfiorare dal fumo dello stoppino bruciato. Lo respira persino, pare goderne. Il suo padrone adora vederglielo fare e lei lo fa ogni volta, come compisse un rito.

    «Buon giorno!» la saluta cingendole i fianchi, mentre è ancora china per spegnere l’ultima fiamma.

    «Buon giorno a Voi!» risponde, posando le mani su quelle dell’uomo.

    Non farebbe fatica a possedere quel suo esile corpo. Ma il suo cuore è quello di un uomo giusto, che preferisce ricevere anziché rubare. Così, come sempre, ritrae le mani e la lascia libera, benché di sua proprietà.

    Esce dalla camera, adornata solamente di poche, essenziali, cose. Lei si leva le scarpe e si corica, laddove ancora vi è la forma del suo padrone. Si copre con la ruvida e pesante coperta del giaciglio e si accinge a riposare.

    Mi avvicino a lei e le sfioro la fronte. I suoi occhi si aprono all’improvviso, guardano verso di me, poi scrutano un po’ attorno. La sua mano scivola sul viso. E’ perplessa. Si sistema i capelli, leggermente striati di rosso rame. Poi accomoda meglio il cuscino, imbottito di piume d’oca e riprende il suo riposo.

    Mi spiace, piccola. Scusa! Ti ho svegliato. Ti stavi appisolando ed io ti ho svegliato.

    Dormi ora, tu che sei senza notte, dormi! Non ti disturberò più e ti veglierò fino al tuo risveglio. Ti è concessa solo qualche ora di sonno, perché tu devi lavorare e le tue giornate sono molto lunghe, quasi infinite, come le tue notti.

    E come le mie.

    Mi avvicino alla finestra e guardo la piazza che poco alla volta si rianima.

    Dame e popolane si mescolano. Ecco il solito monaco, che arriva leggendo alcuni passi della bibbia.

    Non tutti sanno o possono leggere. Anzi, la maggior parte di loro è analfabeta, ma per lavorare i campi o battere sul ferro rovente non c’è bisogno di cultura. Bastano forza di volontà e un fisico giovane e sano.

    Dei carri passano sotto la nostra finestra. Piano, vi prego fate piano! Così la sveglierete!

    Le ruote dei carri e gli zoccoli dei cavalli sono così rumorosi che la sveglieranno di sicuro. Se potessi, l’avvolgerei del mio essere per abbracciarla nel silenzio e proteggerla dal rumore e dal chiacchiericcio delle genti. La porterei via con me, nella serenità e nella pace, concedendole tepore e riposo. Io la amo. Non la conosco neppure, eppure sento di amarla! Ma non posso. La sua ora non è giunta, lei ha ancora la sua vita da vivere. Ed io non posso che sognare il momento in cui sarà lei a raggiungermi.

    Da quella notte, la seguo in ogni suo spostamento. Sono il suo schiavo, il suo guardiano, il Suo.

    Com’e bella, nuda, mentre si lava con una stoffa bianca le pieghe del corpo, passandosela sulla pelle chiara.

    Si asciuga. Ha freddo adesso!

    Le sfioro una spalla. Scusami! Ma sei così bella!

    Mi mostra il suo viso tirato. Accigliata si guarda attorno, poi sorride. Pare compiaciuta, ora.

    Si avvolge il corpo con la stoffa, che annoda al petto.

    Lava la pezza bianca con la quale si è strofinata, getta dalla finestra l’acqua che ha usato per lavarsi e riempie nuovamente la bacinella.

    Si china e si lava i capelli.

    Che meraviglia vederli galleggiare. Lunghi, ondulati, tanti…

    Oggi è domenica, è obbligo andare in chiesa. Ecco perché si sta facendo bella.

    Anche lui si è cambiato d’abito: la calzamaglia blu, una giacca azzurra con intrecci di filo d’oro, un sontuoso copricapo. Un signore, un padrone. Il padrone.

    Lo seguirà e, dopo la Santa Messa, mentre il suo signore parteciperà a un banchetto, lei tornerà a casa. Smetterà l’abito pulito e rivestirà gli umili quotidiani panni di serva.

    Non è però una sguattera analfabeta, anche se nessuno lo deve sapere. Lei non può saper contare, leggere, scrivere. E’ donna, serva e per di più orfana e di umili origini. Lei è stata comprata. Il suo corpo è stato pagato, come fa di solito il suo padrone quando compra i cadaveri, ma di lei ha saputo conquistare anche l’anima. L’ha istruita e fatto di lei un prezioso e insostituibile strumento delle sue ricerche, sfiorando il limite dell’eresia.

    Riposte le scarpe, la donna si spoglia lentamente, adagiando la veste sulla cassapanca.

    Il suo padrone vorrebbe tenerla vicino a se in ogni momento e circostanza, ma mostrarsi accompagnato da lei in pubblico svilirebbe la sua immagine di uomo importante e temuto.

    Ed è fondamentale che continui ad esserlo! Se non lo temessero, qualcuno potrebbe gridare allo scandalo e metterlo in difficoltà. Le malelingue già dicono che lei sia la sua concubina, alla maniera dei mori… qualcosa che la chiesa non potrebbe concepire e tollerare. Ma non è così, io lo so. Lei è pura e lui ne custodisce la purezza come un fiore prezioso.

    Anche oggi deve ripulire la casa, per evitare che venga infestata dai topi. Il borgo ne è pieno, così come di pulci nelle case più povere. Ogni giorno è importante mantenere pulito, onde evitare malattie. Lei lo sa benissimo. Il suo padrone è un medico e le ha dato istruzioni precise, oltre a trasmetterle nozioni adeguate su quest’argomento.

    Guido da Vigevano è anche un ghibellino, un signore terriero, uno scienziato e un inventore. In molti lo ammirano, per le sue molteplici conoscenze. Anche lei, che più di tutti ha imparato a conoscerlo.

    «Anche di domenica? Ma oggi è il giorno del Signore!» dice Turia, l’anziana cuoca, entrando nella grande sala.

    «Lo so! Ma sai bene com’e fatto l’Eccelso!» risponde sorridendo, mentre si annoda i capelli che nel frattempo le sono scivolati sulle spalle.

    Eccelso! Ecco come lei lo chiama: Eccelso.

    «Ti aiuto!»

    Turia è così affabile nei suoi confronti. Sento che vuole bene alla ragazza, come se fosse sua figlia.

    «No, ci penso io! Grazie!» sorride, chinandosi per spazzare la cenere dal grande camino.

    Nemmeno Turia sa che la giovane è colta, nonostante viva tra le mura della stessa casa.

    Si chiede, come sempre del resto, che tipo di rapporto ci possa essere tra lei e il padrone, ma non osa domandarle nulla.

    Io la osservo, scrutando le sue profonde rughe. I capelli grigi, nascosti dalla cuffietta bianca, così come gli occhi, appesantiti dalle palpebre cadenti, la invecchiano molto. Ha l’aspetto di una donna che ha trascorso la vita lavorando duramente.

    Nonostante il rifiuto vorrebbe aiutarla e sposta il tavolo, per farla lavorare più comodamente.

    «Non faticare, io sono più giovane, lascia fare a me!»

    Le sorride e abbassa gli occhi. Sa che anche questa notte lei uscirà con il medicus, per rientrare solamente a notte fonda. Poi, come quasi tutte le notti, si chiuderà con lui nella sua camera, fino alle prime luci dell’alba. Chissà quali cose faranno alla luce delle candele, pensa immobile fissando il pavimento.

    Il secchio con la cenere potrebbe cadere da un momento all’altro, messo in quel modo. Attenta! Mi sposto tra i loro corpi e, facendo appello a tutte le mie forze, lo sposto leggermente. Quanto basta per evitare che cada. Sciocchina! Devi fare attenzione. Penso, compiacendomi di averla aiutata. Anche se lei non lo saprà mai.

    «Ha dato disposizioni per la cena di questa sera?»

    «A me personalmente, no.»

    «Sta scarseggiando la carne! Se non si decide ad andare a caccia, tra qualche giorno non avrò di che cucinare!»

    «Glielo riferirò!» risponde alzandosi.

    Solleva il secchio ed esce in cortile. Attenta!

    Inciampa contro il gradino. «Mon Dieu!» esclama sbadatamente. Si volta. Fortuna che Turia è lontana e non ha sentito. Cosa le avresti detto? Che l’Eccelso ti sta insegnando il Francese, per portarti alla corte di Francia con lui? Sbadata!

    La luce del giorno si sta affievolendo. Le imposte alle finestre sono già chiuse e le candele accese.

    Nella camera è tutto pronto. Il nodoso bastone, il mantello consunto e la raganella lacera sono a disposizione per l’uscita.

    Di notte lungo le strade è facile incontrare vagabondi senza dimora che chiedono l’elemosina e mendicanti di mestiere, ma anche malintenzionati. Per raggiungere il castello senza dare dell’occhio, ed evitare di attirare l’attenzione di aggressori pronti a derubarti, quello di travestirsi da accattoni è l’unico modo per passare inosservati.

    Turia è già dietro la porta della sua camera, che aspetta il passaggio del padrone. Ha paura di essere scoperta e così trattiene il fiato. Stringe gli occhi appena sente lo starnuto della ragazza. Ecco! Sì, c’è anche lei.

    «Dove la porti? Dove?» accenna con il movimento delle labbra. Sembra aggrapparsi alla porta di legno e, con dolore e angoscia, congiunge le mani e incomincia a pregare.

    Sono usciti. Anche questa sera sono usciti ed io li seguo, mesto e pieno di sentimenti contrastanti.

    Ti seguo piccola! Sono dietro di te e ti vedo, stretta al tuo padrone che, zoppo, mendica alla notte povera di ricchezze.

    Le strade buie e deserte m’ingoiano, avvinghiandomi con il dedalo dei vicoli in una morsa insana d’infinita tristezza.

    Ma tu non mi sembri preoccupata. Anzi, procedi sicura. Sai dove state andando e cosa succederà. E sai anche che, sotto gli abiti di mendicante, l’uomo nasconde di che scoraggiare eventuali malintenzionati.

    Arriviamo alle porte del castello e gli giriamo intorno. Ho capito! C’è un’entrata secondaria. Eccola!

    La porta è piccola e stretta. Qualcuno aspetta e li fa entrare nel grande cortile.

    Avvolti dal buio, scivolano fra le ombre, compiendo un tragitto a loro ben noto ed entrando in un sotterraneo. Camminano veloci, percorrendo uno stretto cunicolo alla base di una delle torri, fino a raggiungere delle scale ed iniziare a salire. Arrampicano sempre più in alto, con passo deciso. Si sale e si sale ancora. Pare non finire mai il susseguirsi di gradini. E’ buio intorno a noi, le fiaccole appese al muro sono poche e a malapena si riesce a vedere a terra. Sono rassegnato. Salgo e basta.

    Arriviamo in un sottotetto, un solaio. Finalmente!

    Ecco, si spogliano degli abiti cenciosi. Bella! Come sei bella ora!

    Si lega i capelli con il suo fiocco rosso, raccoglie gli abiti e li appoggia su di uno sgabello.

    Lui la osserva e si avvicina. Piano, non farle male!

    Allunga le braccia e le slega il fiocco, liberandole i capelli.

    «In questo modo mi piaci di più!» dice severo. Le posa il nastro rosso su di una spalla. Poi lentamente lo fa scivolare sul décolleté.

    Il cuore di lei palpita, batte forte, scalcia come un puledro spaventato. Le brillano gli occhi. Sta tremando.

    «E’ tutto pronto!» un uomo con una grossa lama compare alle loro spalle.

    Il viso della piccola s’incupisce. Sa cosa c’è là dietro, oltre quella parete di legno, che divide quasi a metà il lungo sottotetto.

    Oltrepassiamo la porta, entrando nella luce e nell’odore di cera e carne morta.

    Ecco, è ora! Tutto è pronto, e lei lo sa bene.

    Si raccoglie nuovamente i capelli e si avvicina al suo padrone.

    Non ha ancora sollevato lo sguardo da terra.

    Con impeto l’uomo le abbraccia il corpo e lo stringe vicino al suo.

    La piccola chiude gli occhi e tacita acconsente.

    E’ come un rito, è come se da quel gesto traesse forza.

    Un brivido le pervade la schiena, mentre lui la costringe a subire il suo abbraccio, premendole addosso tutto il corpo, e facendole sentire quel pene che preme sul suo pube, cancellando ogni strato delle sue vesti.

    Poi l’uomo si stacca. I suoi occhi brillano. Le palpebre sono dilatate ed anche il viso si è incupito.

    Oh! Potessi io abbracciarti ora, per rapire quel malessere che ha messo radici nella tua carne!

    La giovane alza la testa e con occhi accesi guarda innanzi a lei.

    Il corpo di un uomo è alla mercé del suo sguardo.

    La trave alla quale è appeso mostra segni di usura. Come lei ben sa, non è il primo cadavere che ha dovuto tenere sollevato da terra. Le tracce lasciate dallo scorrere delle corde sul legno lo confermano.

    Il corpo esanime è sostenuto da solide funi, che gli passano più volte sul torace e sotto le ascelle.

    La testa reclinata, i muscoli rigidi. Se non fosse per quelle braccia inerti distese lungo il corpo, ricorderebbe Nostro Signore sulla croce.

    «Da quanto?» l’uomo chiede mentre sceglie una lama.

    «Dal tramonto!» uno dei presenti risponde.

    «Quale tramonto? Di oggi o di ieri?» ribatte il medicus spazientito.

    «Di oggi!» gli viene risposto, provocando alla ragazza un sussulto improvviso.

    «Oggi? Lo vedo, maledizione! Gli è già stato levato il sangue?» ora è irritato e lancia la lama prescelta sul tavolo, adorno di altri ferri.

    «No, signore… non ancora…» l’altro uomo gli risponde.

    «Come no? Incapaci! Siete solo degli incapaci! E’ presto per aprire un corpo… vi avevo detto di aspettare almeno un giorno e una notte… e prima del mio arrivo, esigo che sia salassato!» adirato, il medicus alza la voce. Non può urlare, per non farsi scoprire, e questo lo indispone ancora di più. Si avvicina allo scrittoio e mette in disordine le pergamene ancora vergini, che egli stesso avrebbe dovuto usare per scrivere i suoi appunti.

    Non tremare piccola! No, forse non stai tremando! Sono io che tremo, temendo per te! Tu al contrario ci sei abituata.

    «Inetti! Che cosa scrivo ora? Mi avete fatto venire fin qui per nulla! L’impiccagione vi meritate! Ecco, l’impiccagione!» continua agitato.

    «Lo aprirò domani notte!» esclama infine accigliato.

    Preda dell’ira si avvicina alla sua serva, le gira attorno e la afferra per un braccio. La osserva, tentando di spegnere la brace che fiammeggia nei suoi occhi.

    Lei lo fissa dritto negli occhi e aspetta. Sa che ci vorrà un po’, ma da un momento all’altro lui le dirà qualche cosa.

    Il sorriso dell’uomo è tirato. Le labbra si aprono appena. S’intravedono i denti, mentre le stringe con forza l’esile braccio.

    «O tu preferisci che io proceda ugualmente?» le chiede, sfregiando il logoro senso di attesa.

    «Come desiderate Vostra grazia!» gli risponde, abbassando la testa.

    La mano dell’uomo lascia la presa. Le solleva il viso con entrambe le mani. Pare avere nei palmi il fragile nido di un passero.

    La osserva e tace. Quanta paura può fare l’amore! Più della vita, più del dolore, più della morte stessa!

    Si allontana veloce e riprende in mano la lama.

    Senza proferire alcuna parola, si avvicina al corpo nudo. Si china e con una mano gli afferra il piede violaceo.

    «Starete più comodo, mio signore!» la giovane donna gli porge un solido sgabello di legno.

    Lui annuisce silenzioso e si accomoda, mentre lei si dispone al suo fianco.

    La lama appuntita s’infila tra le unghie e la carne delle dita. Le mani dell’uomo paiono ferme e decise, come se sapessero fare solo quello.

    Di tanto in tanto l’uomo lascia la sua postazione, si lava le mani dal sangue e si avvicina allo scrittoio, per imbrattare le pergamene e stilare i suoi primi, veloci appunti.

    Le unghie del cadavere vengono staccate dalla carne, lavate una ad una e sistemate in bacinelle di legno.

    Lei lo guarda e lo aiuta. Si sta chiedendo coma faccia ad essere allo stesso tempo quasi tenero con lei eppure così freddo con quei corpi creati da Dio. Quale mistero racchiude costui?

    «Toccale!» le ordina.

    Lei si avvicina al tavolo per scegliere un ferro, ma viene ripresa.

    «Con le nude mani…. Toccale!» gli ordina nuovamente.

    Gli occhi le si riempiono di umori. Il suo sguardo abbandona la strumentazione, si volta e, senza guardare l’uomo appeso, gli si avvicina. Le sue mani tremano.

    Ti sono accanto, mio petalo di rosa canina! Ti sono accanto! Vorrei poterle toccare io al tuo posto ed evitarti tale pena. Ma non posso, non posso! Grido in cuor mio.

    «Sono dure!» esclama appoggiando l’indice su di esse.

    «E poi?» gli domanda.

    «Dure e… leggere!» aggiunge, giocando con una di esse. Ora pare essere felice di quell’onore che le viene concesso. Il suo padrone, il medicus, il signore Sua Grazia, le ha chiesto un parere!

    Sembra giocare con quell’unghia tra le dita. La osserva, l’annusa e cerca di piegarla.

    «Bene!» l’uomo esclama togliendole il gioco dalle mani.

    «Non è carne, non è osso, né pelle… cos’è allora?» parla tra se e se, mentre scarabocchia la pergamena, riempiendola di appunti a volte indecifrabili.

    «Incolore… inodore… statica…» continua mentre la mano scorre veloce sulla pergamena.

    I piedi mutilati del cadavere la mettono a disagio. Li osserva, poi arrossisce. Ha appena sollevato la testa e il suo sguardo si è posato sul sesso dell’uomo. Si ritrae di qualche passo, fermandosi poco distante da me. Il suo respiro è irregolare e nervoso.

    I due uomini presenti non osano rivolgerle la parola. Si chiedono cosa ci faccia una giovane donna tra quegli orrori, ma il medicus paga bene i loro servigi ed il loro silenzio e a loro non converrebbe certo contraddirlo od irritarlo con domande fuori luogo.

    L’eccelso si alza e le si avvicina.

    Le cinge le braccia, da dietro. Le annusa i capelli.

    «Cosa ti ha spaventata?» le chiede.

    «Nihil mio signore!» risponde voltandosi e mostrandogli il viso.

    «Nulla?» chiede morbosamente.

    «Nihil!» risponde nuovamente. Abbassa la testa e poi sussurra: «Totus!»

    Si lascia cadere in avanti, appoggiandosi al corpo del suo padrone.

    E’ stanca. "Lasciala riposare! Riportala a casa e adagiala sul giaciglio!" Vorrei poter gridare. Ma non ho voce, non ho verbo, solo pensiero e sentimento!

    «Le mani! Mancano le mani!» l’uomo esclama, allontanando da sé il corpo della giovane. Ora la guarda negli occhi.

    «Calatelo di poco!» ordina ai presenti.

    Così starai più comodo. penso, sentendo in cuor mio di odiare quest’uomo.

    Nuovamente le mani operano, precise e ferme. Incidono, pinzano e staccano.

    Lei lo osserva, silenziosa e paziente.

    Quasi rapita, stordita e attratta da quel suo corpo magro e alto, ricoperto dalla lunga veste sotto la quale spuntano le calzature nere. Vigile e attenta, pronta ad intervenire al suo comando. Ammira il suo viso, segue i gesti delle sue lunghe braccia e aspetta il tocco delle sue fredde mani. Vorrebbe sedersi, nell’attesa, ma deve aiutarlo, porgergli i ferri e la bacinella di legno. Deve

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