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La corporazione dei Necronauti: I Necronauti 1
La corporazione dei Necronauti: I Necronauti 1
La corporazione dei Necronauti: I Necronauti 1
E-book644 pagine10 ore

La corporazione dei Necronauti: I Necronauti 1

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Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (536 pagine) - Viaggiare nello spazio era possibile, a patto di essere morti.
Dal vincitore del premio Urania una saga spaziale che rinnova il fascino di The Expanse


Dall'arrivo degli alieni nel sistema solare, nessun essere umano ha più potuto viaggiare nello spazio e arrivare vivo a destinazione. Le colonie sui pianeti e le lune sono rimaste isolate per secoli, fin quando qualcuno è riuscito ad aggirare il blocco: i necronauti, la corporazione proveniente da Saturno che ha ripristinato le comunicazioni nel sistema. Non tutti, però, sono disposti a concedere loro questo potere.


Maico Morellini, classe 1977 vive a Reggio Emilia e lavora nel settore informatico dove si districa tra cinema, programmi e letteratura.. Il suo primo romanzo di fantascienza, Il Re Nero, vince il Premio Urania 2010, pubblicato l’anno successivo da Mondadori, per la quale pubblica anche nel maggio 2016 il romanzo La terza memoria. Nel 2014 crea per Delos Digital la serie hard science fiction I Necronauti. A dicembre 2016 è stata pubblicata da Vincent Books la sua antologia di fantascienza Voci della Polis. Nel 2018 scrive Il diario dell’estinzione pubblicato da Watson edizioni e vincitore del Premio Italia 2019 come miglior romanzo fantasy. Ha partecipato a diverse antologie tra cui Propulsioni di improbabilità, I sogni di Cartesio e Ma gli androidi mangiano spaghetti elettrici? e pubblicato altri diversi racconti. A luglio 2019 pubblica all'interno dell'Urania Millemondi Strani mondi, il racconto Fatum.

LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2019
ISBN9788825409710
La corporazione dei Necronauti: I Necronauti 1

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    Anteprima del libro

    La corporazione dei Necronauti - Maico Morellini

    9788825403787

    Prologo – L’arrivo

    – Sovrintendente Eletras, l’Anello ha completato l’allineamento e i calici sono in posizione – l’ologramma liquido scivolò all’interno della vasca trascinando con sé il volto severo dell'ufficiale scientifico e liberò la grande vetrata che si apriva sulla superficie inquieta di Eris.

    – Molto bene – mormorò Eletras. – Molto bene – ripeté mentre con un gesto della mano ordinava all’intelligenza artificiale della stazione di mostrargli il Mare Bianco, la vasta area adibita agli scavi che occupava la parte equatoriale di Eris. La vetrata sembrò oscillare mentre milioni di minuscoli droni si disponevano su di essa: una vibrazione elettrica formò un riquadro dove, nitido e definito, comparve il Mare Bianco.

    Eletras individuò subito lo stormo di droni che entrava e usciva dalla sfaccettata superficie del pianeta: alcuni raccoglievano ghiaccio di metano per portalo su Eaco, l’enorme stazione spaziale a forma di anello che circondava l’intero pianeta, altri acquisivano dati e altri ancora cercavano nuove e stabili vie di accesso al mare sotterraneo del decimo pianeta.

    – Parametri sotto controllo – commentò Eletras lanciando un’occhiata all’ologramma che colorava la scrivania dello studio. Precisione e controllo: su Eaco non c’erano alternative. La colonia era una sfida a ogni logica oltre che la manifestazione ultima del desiderio di scoperta della razza umana. Dopo quanto successo su Nettuno e Plutone, dopo che i due pianeti erano stati completamente stravolti dalla terraformazione, la colonizzazione spaziale aveva subito una battuta d’arresto. Ma non i sogni, non la volontà di tendere al limite della rottura le catene che il Sole aveva imposto a tutte le colonie.

    Eaco era l'avamposto più esterno del Sistema Solare e la sua costruzione aveva impiegato quasi un intero periodo orbitale del pianeta nano: cinquecentosedici anni. C'erano state difficoltà, tutti i finanziatori del progetto si erano ritirati lasciando di fatto solo Saturno a credere che Eaco prima o poi sarebbe stata completata.

    E così era stato. C'era qualcosa nelle profondità dello spazio che attirava Saturno: un richiamo tanto inspiegabile quanto difficile da ignorare e se qualcuno poteva sopravvivere così lontano dalla luce del Sole, così lontano dalle normali tratte commerciali delle colonie e da ogni forma di sussistenza, quel qualcuno erano proprio gli abitanti delle lune di Saturno. Titano. Encelado. Rea. Saturno IV. Lo spazio su di loro esercitava la stessa presa della sabbia per Marte e dell'acqua per la Terra.

    – Attivazione dei soli artificiali – una voce lo raggiunse attraverso l'impianto olografico. Non voleva essere disturbato durante le operazioni di raccolta e aveva dato direttive per ricevere solo qualche raro aggiornamento: da lì poteva controllare tutto di persona.

    Un piccolo sciame di droni lasciò la scrivania di Eletras e si fermò a mezz'aria proiettando una ricostruzione di Eaco e di Eris. Il Questore vide i canali di illuminazione aprirsi e una forte luce sprigionò dalle cavità che attingevano potere dai nuclei energetici della stazione.

    La superficie di Eris era composta per lo più da metano ghiacciato e bastava davvero poco per intaccarne il gelo molecolare. Non appena il calore sprigionato dalla stazione spaziale fu sufficiente, pennacchi di metano iniziarono ad alzarsi dal Mare Bianco creando violenti turbini che si avvolgevano su loro stessi stimolati in parte dalla velocità di rotazione del pianeta e in parte attirati dai calici di Eaco: era iniziata la raccolta. Quel metano veniva poi dirottato nei laboratori della stazione dove era alla base di molti dei processi chimici che permettevano a Eaco di sopravvivere.

    Il sovrintendente controllò gli ultimi dati sfogliando l'ologramma che gli galleggiava davanti e poi si spostò verso la vetrata. Lo spettacolo era come sempre incredibile: la colonna di vapori di metano saliva sempre più in alto, si avvolgeva intorno alle strutture allungate della stazione spaziale e veniva risucchiata in filamenti lattiginosi che sembravano stringersi attorno al metallo di Eaco come spire di serpente.

    Il sovrintendente sorrise. Eletras, insieme a buona parte delle cinquemila persone che abitavano i corridoi e le forme aguzze di Eaco, doveva i suoi natali a Titano. Durante la costruzione della stazione, un enorme anello del diametro di oltre duemilacinquecento chilometri, gli unici a essere rimasti erano stati proprio gli uomini e le donne di Saturno. La Terra e Marte avevano rinunciato quasi subito troppo assorbiti dalla grandezza dei reciproci pianeti. Venere, nella sua eterna competizione con la Terra aveva forse investito più delle altre Colonie in termini economici ma con il passare dei decenni aveva scelto la fuga, proprio come gli altri pianeti del Sistema Solare Interno. Giove e Urano si erano limitati a fornire qualche tecnologia mentre Nettuno e Plutone erano troppo impegnati a superare il trauma dei grandi cambiamenti a cui avevano sottoposto i loro stessi pianeti.

    Saturno no. Saturno era rimasto, ma non solo per testardaggine. Eris, con la sua orbita nello spazio profondo, era un avamposto così lontano dalla luce del Sole, così immerso nel vuoto siderale da permettere cose che su nessun altro pianeta erano possibili. Durante l’afelio, come in quel preciso momento, il pianeta si trovava a quattordici miliardi di chilometri dal Sole: il doppio della massima distanza a cui Plutone arriva durante la rivoluzione intorno alla stella. Un frammento di vita incuneato nelle profondità gelide della galassia.

    Eletras lanciò un’ultima occhiata alla procedura di raccolta poi ordinò all’intelligenza artificiale di aggiornarlo sul vero motivo per cui Eaco si trovava lì.

    La nube di minuscoli droni si mosse dissolvendo immagini e dati; raggiunse la scrivania e si allargò fino a occupare una buona parte della stanza. Una serie di girandole multicolori si accesero una dopa l’altra e a poco a poco il capolavoro di Saturno prese forma.

    Eaco si trovava al centro di una vasta, vastissima rete di sensori dispiegati verso lo spazio profondo, una sorta di enorme sistema nervoso capace di trasmettere stimoli, informazioni, dati. Le intelligenze artificiali che animavano ciascun sensore venivano da un progetto terrestre ma su Mimas, Saturno lo aveva modificato innestando nei cervelli sintetici componenti robotiche: le sonde non dovevano pensare ma interpretare stimoli e dati. E poi trasmetterli il più velocemente possibile a Eaco. Con quale obiettivo?

    Eletras ebbe un piccolo brivido. Saturno voleva più di ogni altra cosa comprendere lo spazio perché era convinto che fosse nello spazio, lontano dalla luce, l’essenza di ciò che ancora sfuggiva agli esseri umani. L’ultimo tassello necessario non per colonizzare, ma per capire.

    Il sovrintendente si avvicinò allo sciame di droni, ci camminò attraverso e raggiunse il posto occupato da Eaco nella ricostruzione di quella fetta di Sistema Solare. Poi lasciò che lo sguardo si perdesse tra il reticolo di sonde: da quella posizione la somiglianza con una rete neurale, con un cervello umano, con le infinite connessioni tra una singola cellula e l’altra, era impressionante.

    Poi qualcosa cambiò; nell’estrema periferia di quella mappa le sonde più lontane dalla stazione si accesero di rosso. Eletras scivolò fuori dalla simulazione e con alcuni rapidi gesti chiese a Eaco di interpretare quegli strani segnali.

    Qualcosa di grande, di molto grande, si era avvicinato alla periferia della rete posata da Eaco. Eletras si vide altre sonde accendersi. Erano lontane dalla stazione, quasi un miliardo di chilometri, e il ritardo con il quale trasmettevano per quanto ridotto non era trascurabile.

    L’uomo gesticolò, frenetico. Eaco processò i dati appena ricevuti e gli confermò quello che già sospettava: un oggetto enorme, più grande di qualunque astronave avesse mai viaggiato attraverso il Sistema Solare, era entrato in contatto con le sonde della stazione.

    L’ologramma tremò. Le sonde si spensero all’improvviso ma subito se ne accesero altre in una porzione di spazio molto distante dalla precedente: una macchia rossa comparve più vicino a Eaco di almeno mezzo miliardo di chilometri. Come era possibile? Se si fosse trattato dello stesso oggetto Eletras lo avrebbe visto muoversi attraverso la rete di certo non sparire per poi riapparire in un punto così lontano.

    L’IA della stazione restituì i primi dati: si trattava di qualcosa di grosso. Non come Eaco. Non c’era niente di paragonabile a quell’immensa stazione spaziale, ma di certo non corrispondeva a nessuna delle navi terrestri o delle Colonie. E proveniva dalla spazio aperto, non dal Sistema Solare.

    Eletras era eccitato ma quando un intero quadrante controllato dalle sonde si colorò di giallo, l’eccitazione iniziò a trasformarsi in paura.

    Qualcosa stava interrogando le sonde. Sensori? Scansioni energetiche? Non poteva saperlo. L’IA di Eaco sembrava incapace di interpretare i dati appena ricevuti ma qualunque cosa fosse entrata nel Sistema Solare, aveva una volontà.

    Poi di nuovo le luci si spensero. Sia quelle gialle che quelle rosse, come se la sorgente della perturbazione fosse sparita.

    – Ma dove …? – Mormorò Eletras.

    Poi un’altra pennellata di rosso, questa volta dal lato opposto di Eris. L’oggetto aveva percorso in poco più di un minuto terrestre quasi due miliardi di chilometri e lo aveva fatto saltando.

    – Simulazione – con i pochi dati di cui disponeva il sovraintendente ordinò all’IA di interpolare le tre letture e di tracciare una possibile rotta dell’oggetto. Non impiegò molto: stava andando verso il cuore del Sistema Solare. Ma era una minaccia? Non si era comportato come tale eppure un’inquietudine sottile, la sensazione di avere davanti qualcosa di sbagliato si era insinuata in Eletras. Nessuno, su Eaco, diffidava di quella sensazione.

    Lo spazio profondo aveva insegnato a tutti gli abitanti della stazione qualcosa, una sensibilità particolare, un modo diverso di percepire.

    Fu per quel motivo che Eletras raccolse tutti i dati ricevuti dalle sonde, tutte le memorie di Eaco, tutto quello che nella lunga solitudine di Eris avevano studiato e le inviò a Saturno. Se qualcuno poteva interpretare ciò che la rete intorno alla stazione aveva raccolto, quel qualcuno era a Xanadu, su Titano.

    Erano passate sei ore terrestri dal contatto quando su Eaco risuonò il primo allarme.

    Concluse le operazioni di raccolta Eletras si era ritirato nella sua cabina animato da una strana irrequietezza e lì era rimasto. Le sonde che si coloravano prima di rosso e poi di giallo, il passaggio di un oggetto enorme: per la prima volta da quando era sovraintendente si sentì solo. Lontano dalla luce, lontano da tutti gli altri uomini. Per la prima volta Eaco e tutto ciò che avevano costruito in secoli di privazioni gli sembrava solo un grande, incosciente inganno.

    – Sovraintendente! – una voce si arrampicò oltre la porta della cabina. Qualcosa nell’urgenza di cui era intrisa quella parola lo agitò.

    – Avanti! – ordinò Eletras all’IA della stazione, prima con la voce e poi con un gesto. Si era alzato dalla scrivania.

    Nyeletras, uno degli ufficiali di controllo, entrò rapido. Ogni movimento tradiva una preoccupazione che Eletras non aveva mai notato in nessuno dei suoi uomini, nemmeno quando uno dei soli artificiali era collassato mettendo a rischio un’intera Raccolta.

    – Sovraintendente… – riprese Nyeletras. Ansimava, i lunghi capelli scuri si erano appiccicati sulla fronte e tremava così tanto da non riuscire a comunicare con l’intelligenza artificiale. Tentò, una due, tre volte e alla fine indovinò la sequenza giusta di gesti.

    Il consueto sciame di minuscoli droni lasciò la vasca olografica e si dispose al centro della cabina: Eletras vide Eaco e le migliaia di punti luminosi che formavano la rete di sonde. Ma qualcosa non andava, lo notò subito: un’ombra, un’assenza terrificante. Il grande occhio con al centro la pupilla di Eaco era monco, le luci si stavano spegnendo una dopo l’altra e quell’onda di oscurità si avvicinava.

    – Che cosa…? – chiese il sovraintendente. Ma la paura che emanava Nyeletras era già una risposta.

    – Non lo sappiamo, signore.

    Eletras guardò un’ultima volta la proiezione olografica. L’assenza avanzava e proveniva dal Sistema Solare. Aveva intaccato la periferia della rete ma procedeva a velocità costante spazzando via, o almeno così sembrava, una sonda dopo l’altra: – A che velocità si muove? – domandò poi.

    – Considerato il ritardo di trasmissione, sarà qui tra dieci minuti terrestri.

    – È veloce. Troppo veloce – non avevano il tempo di richiamare le sonde, non avevano il tempo di avvisare Saturno. Lontani dalla luce. Eletras uscì dalla cabina: – In plancia – ordinò.

    Fu una vera e propria corsa contro il tempo. La proiezione continuava a mostrare le sonde spegnersi ed Eletras vide l’onda di nulla accelerare ma sapeva che quel cambio di velocità era legato solo alla vicinanza progressiva del segnale. Più quella cosa correva verso Eaco, più i dati raccolti dalla rete erano attendibili.

    Arrivarono in plancia quando mancavano quattro minuti terrestri …a cosa? Le sonde semplicemente svanivano. Un attimo prima c’erano, un attimo dopo erano sparite.

    – Quanto manca al punto di superamento? – chiese Eletras. Tutti gli ufficiali erano ai loro posti. Tesi ma efficienti. Erano uomini e donne di Saturno e avevano scelto lo spazio come casa.

    – Settanta secondi terrestri, sovraintendente.

    Settanta secondi prima che la velocità di trasmissione delle sonde superasse quella a cui viaggiava il loro avversario, settanta secondi prima di poter avere un qualche tipo di vantaggio. Questo lasciava a Eaco centosettanta secondi per decidere cosa fare, per capire come affrontare quella minaccia misteriosa.

    Aspettarono, in silenzio. La proiezione della rete occupava l’intera cupola della plancia mentre tutti gli schermi, telescopi puntanti verso il Sistema Solare, mostravano la porzione di spazio dalla quale qualcosa stava per arrivare. Nessuno aveva avvisato gli abitanti di Eaco: non c’era stato il tempo per farlo.

    – Signore… – fu Nyeletras a parlare.

    – Lo so.

    Le sonde non registravano niente. Svanivano nel nulla e quelle vicine si limitavano a registrare quell’assenza. Che cosa poteva essere? Eletras setacciò la memoria in cerca di risposte tentando così di domare il panico ma tutto ciò che trovò fu l’inquietudine provata sei ore prima alla comparsa dell’enorme oggetto alieno.

    – Saturno salvaci – mormorò Nyeletras.

    Nessuno era preparato a ciò che i telescopi di Eaco avevano iniziato a mostrare sugli schermi. Le sonde, quelle più vicine alla stazione, quelle che gli schermi erano in grado di mostrare si dissolvevano. Una forza invisibile le attraversava disgregandone la struttura e trasformandole in polvere.

    Invisibile. Impalpabile. Gli strumenti non la registravano ma il tocco di quella forza incredibile si manifestava violento, inarrestabile.

    Eletras non si mosse. L’ufficiale addetto alle comunicazioni disse qualcosa, qualcosa che riguardava Disnomia, il satellite naturale di Eris. L’onda distruttiva lo aveva risparmiato perciò, forse, Eaco si sarebbe salvata. Era grande, più grande di Disnomia. Più grande persino di Eris.

    Dopo le sonde toccò alle navi di manutenzione che si muovevano intorno alla stazione: non partì nessun segnale di soccorso. Svanirono, proprio come le sonde, polverizzate da un potere che Eletras non aveva nemmeno mai immaginato.

    Poi l’onda colpì Eaco. Ci fu una vibrazione, forte. Un tremore che scosse la struttura stessa della stazione. Eletras immaginò le migliaia di abitanti di Eaco fermarsi, incerti. Li immaginò guardare i lunghi corridoi della stazione in cerca di qualche risposta. Incuriositi. Preoccupati.

    – Stiamo resistendo. Eaco sta resistendo – mormorò uno degli ufficiali. L’onda li aveva superati continuando la sua corsa distruttiva. Oltre la stazione, verso lo spazio profondo, altre navi vennero disgregate.

    Ci fu uno schianto. Eletras sentì una forza incommensurabile avvolgere Eaco, come una mano grande quanto un pianeta, come una volontà capace di spezzare la materia. Percepì la pressione, percepì che si faceva sempre più violenta e la sentì scomparire all’improvviso.

    In un istante, Eaco e tutti i suoi abitanti divennero polvere.

    Parte 1

    SILENZIO: […] ed è dopo l'arrivo della stazione spaziale aliena nel Sistema Solare, dopo il suo insediamento nell'orbita di Plutone, che è iniziato il periodo poi convenzionalmente definito da tutte le Colonie come Silenzio. Un periodo lungo più di quattrocento anni durante i quali l'incomprensibile energia sprigionata dalla base aliena ha prima distrutto ogni cosa sorpresa fuori dalle atmosfere planetarie, e poi reso impossibile viaggiare nel vuoto siderale. Ogni nave, satellite, sonda o drone inviato nello spazio subiva lo stesso tragico destino: disgregato, polverizzato, ridotto a una nube di atomi. Le Colonie rimasero isolate per tutta la durata del Silenzio impossibilitate persino a comunicare tra loro e durante questi quattro secoli svilupparono caratteristiche peculiari legate alla storia, alla geografia, alle carenze causate della interruzione delle rotte commerciali e all'ecologia dei singoli pianeti. Questo fino a quando la Corporazione dei Necronauti […]

    Storia del Sistema Solare

    1

    – Il colonnello Selmi è pronto a riceverla, capitano Veidt.

    – Grazie.

    Micah fece un respiro profondo, drizzò le spalle e lasciò una delle luminose sale di aspetto del Ministero. Il MIST (il Ministero degli Interni, dello Spionaggio e della Tecnologia) doveva il suo complesso acronimo al significato che quella parola aveva in inglese: nebbia. Era un modo per ricordare che le vere attività svolte all’interno del complesso avevano a che fare con cose che era meglio lasciare al loro posto. O che era meglio ignorare.

    Percorse con passo sicuro il corto corridoio che dalla sala conduceva all’ufficio del colonnello ma sentiva di non essersi del tutto ristabilito. Aveva trascorso l’ultimo anno sulla Piattaforma dei Coralli e se i primi trenta giorni li aveva passati collegato ai complessi macchinari per il ricambio del sangue, poi si era procurato il tempo necessario per rimettersi in sesto. Lanciò uno sguardo distratto alle pareti. Mostravano tutte meravigliosi paesaggi naturali o altrettanto stupendi fondali marini: Selmi era sempre stato molto attento a quelle cose.

    – Colonnello? – chiamò avvicinandosi alla porta.

    – Micah? – Lo stava aspettando, ma anche quello era un suo modo di fare. Fingi sempre di essere sorpreso, diceva.

    Il sottile strato molecolare che componeva la porta si assottigliò fino a diventare una pellicola quasi trasparente.

    – Vieni, entra pure – lo invitò.

    Il capitano passò attraverso la nube di atomi e sentì un leggerissimo formicolio. Qualsiasi apparato non autorizzato, qualsiasi innesto tecnobiologico non registrato, qualunque cosa non fosse negli archivi del MIST, sarebbe stata disattivata da quell’altrimenti innocua nuvola di molecole. Ma lui era un militare e l’intelligenza artificiale che gestiva i controlli del Ministero conosceva ogni millimetro del suo corpo.

    – Allora, ragazzo – esordì Selmi, – fatti vedere.

    Micah camminò fino alla scrivania del colonnello, si fermò a un paio di passi dal tavolo e si piazzò sull’attenti. Si concesse uno sguardo verso il superiore e trovò che Malcom Selmi non sembrava invecchiato. Indossava la divisa nera e blu del ministero che era in perfetta armonia con il cranio lucido e abbronzato. A differenza di molti colleghi preferiva portare antiquati occhiali da vista al posto dei visori. Almeno quando era nel suo ufficio dove tutto l’arredamento richiamava la cabina di un’antichissima nave. Gli unici segni dell’età trasparivano dalle folte e grigie sopracciglia che sottolineavano l’azzurro ghiaccio degli occhi.

    – La vedo in forma, colonnello – esordì.

    – Vorrei poter dire lo stesso di te – commentò di rimando Selmi. – È stato così terribile?

    – Lo è ogni volta, signore. Ma avrebbe dovuto vedermi appena arrivato alla Piattaforma – abbozzò un sorriso.

    – Ti vedo adesso, Micah, e, per Dio, sembri mio fratello maggiore.

    Era vero. Aveva tagliato i capelli molto corti ma si notava che erano comunque tutti bianchi. La carnagione stava iniziando adesso a riacquistare colore ma un’ombra giallastra contornava occhi e labbra. E il peso perso non era stato del tutto recuperato. A trentadue anni ne dimostrava molti, molti di più. D’altra parte, chiunque avesse a che fare con i Necronauti doveva pagare un prezzo, e quello che era toccato a lui non era nemmeno tra i più alti.

    – Con tutto il rispetto, signore, suo fratello maggiore dovrebbe avere almeno cent’anni. Non sono poi così male.

    Le labbra di Selmi si tesero in un sorriso. Aveva un viso gioviale e le piccole rughe ai lati della bocca lo testimoniavano: nonostante fosse a capo del reparto dei servizi segreti assegnato alla Corporazione dei Necronauti, sorrideva spesso. Altri suoi colleghi, impegnati in spionaggi molto meno complessi, non avevano la stessa allegria.

    – Ho apprezzato molto i paesaggi, colonnello – continuò Micah serio, facendo un cenno alle sue spalle – davvero molto.

    – È il minimo che potessi fare. Ricordami: quanto tempo sei rimasto a bordo?

    – Undici mesi. – In due parole Micah condensò tutta l’angoscia provata nella sua ultima missione. Non avrebbe voluto che si percepisse, ma era impossibile nasconderlo.

    – Già, undici mesi. – Con un fluido gesto della mano Selmi fece scorrere dati e immagini dal pozzo olografico sulla scrivania, camuffato da vecchio mappamondo, alle pareti. – Ho letto il tuo rapporto, Micah. Centinaia di volte. Così come ho letto i precedenti. Tuoi e degli altri Osservatori. Sai cosa ho concluso?

    Era finito il tempo dei convenevoli.

    – Che siamo al punto di partenza, signore.

    – Che siamo al punto di partenza – ripeté Selmi, sfilando gli occhiali dorati. – I nostri migliori agenti vengono letteralmente prosciugati da queste missioni, fino a quando non ce la fanno più, e tutto quello che abbiamo lo otterremmo ugualmente se mandassimo su quelle maledette astronavi un cadetto fresco di accademia. O un drone delle pulizie.

    – Un cadetto non riuscirebbe a sopportare più di un viaggio – commentò calmo Micah.

    – No. È vero. Tu quanti ne hai fatti? – Di nuovo fece la domanda conoscendo già la risposta.

    – Sei. L’ultimo è stato il più lungo.

    – E siamo al punto di partenza, Micah. Non sappiamo nulla della necropropulsione. Non sappiamo dove vengano costruite le loro astronavi. Abbiamo solo tonnellate di informazioni sulle cabine che ci mettono a disposizione e su quello che loro decidono di farci vedere. – Selmi distolse lo sguardo dalle immagini che tutto intorno continuavano a ruotare e incrociò gli occhi di Micah. – Questa cosa deve finire, capitano.

    Sì. Era finito il tempo dei convenevoli. Pensò all’ultimo anno. Alla Piattaforma. Alle cure, alle donne con le quali era stato, al profumo del mare.

    – Quando, colonnello?

    – La Sepolcro sarà qui tra una settimana.

    Sepolcro. Così avevano ribattezzato l’immensa nave della Corporazione non appena era stato presentato al Governo terrestre il conto dei servizi che i Necronauti offrivano. Perché a tutti gli effetti di questo si trattava: un enorme cimitero spaziale sulle cui strutture aguzze venivano stipate decine, centinaia se non migliaia di esseri umani. Malati o sani che fossero erano caricati sulle navi della Corporazione e alloggiati chissà dove, pronti a compiere il loro ultimo dovere: morire e consentire così ai necropropulsori di attivarsi. Le cose, in realtà, erano molto più complesse. In qualche modo la tecnologia dei Necronauti, concepita nelle colonie delle lontane lune di Saturno, consentiva anche alle navi di resistere nello spazio senza essere distrutte dalla strana energia che flagellava il Sistema Solare. Quasi cento anni prima, quando dopo molti decenni di Silenzio era comparsa nell’orbita terrestre una nave spaziale, tutti avevano gioito.

    Adesso la Terra continuava a essere felice dei ritrovati contatti con le colonie. Era entusiasta per la rinnovata unità planetaria che li aveva accompagnati, ma il governo terrestre voleva sapere di più. Un conto era gestire il sacrificio organizzato di migliaia di terrestri, altro paio di maniche era farlo senza porsi domande.

    – Colonnello Selmi. – Una voce nitida riecheggiò all’interno del laboratorio.

    – Ti ascolto.

    – La Luce di Titano è arrivata nell’orbita terrestre. Tra poco inizierà le manovre di avvicinamento alla Piattaforma Norvegese.

    – Bene. Avvisami qualche ora prima dell’attracco.

    – Sì, colonnello. – Un sibilo indicò la fine della comunicazione.

    – Hai sentito? – Selmi si rivolse a Micah.

    – Forte e chiaro, colonnello.

    Il capitano era rinchiuso in una capsula al cui interno ruotavano piccole sfere robotiche. Si avvicinavano, eseguivano analisi e praticavano piccole iniezioni.

    – Non piace a me più di quando non piaccia a te, lo sai – commentò Selmi.

    – Con il dovuto rispetto, colonnello – Micah represse il dolore soffocandolo in una smorfia, – ne dubito.

    – Hai ragione. Non ho idea di come ti possa sentire. Dottor Renewal? Il tempo stringe.

    Un uomo vestito con una scintillante divisa bianco latte si allontanò da uno dei tanti pozzi olografici del laboratorio trascinando con sé alcune delle immagini che stava consultando. Era alto, magro e con uno sguardo molto vigile: – Abbiamo quasi finito, colonnello.

    – Funzionerà? – Incalzò Selmi.

    – Naturalmente – rispose determinato Renewal. – Loro hanno le astronavi, la necropropulsione e tutti quegli impianti tecnobiologici che li tengono in vita. Ma sotto molti aspetti sono più indietro di noi. Suggerire ai loro sistemi di analisi che il capitano Veidt è allo stadio terminale di una grave forma tumorale sarà piuttosto semplice. Gli agenti catabolici che gli stiamo iniettando lo hanno fatto davvero ammalare, per questo tutto sarà così convincente.

    – Spero non lo sia troppo, dottore – sibilò a denti stretti Micah. Qualunque cosa gli stessero facendo, era dolorosa. – Ho una missione da compiere. E da morto non potrò farlo.

    – Non succederà, capitano. Le masse tumorali che stiamo creando hanno una programmazione genetica alla quale non possono sottrarsi. Dopo il tempo prestabilito inizieranno a mutare fino a convertirsi in un circuito biologico il cui ultimo compito, prima di essere riassorbito, sarà quello di emettere un impulso elettromagnetico in grado di farla uscire dalla capsula necropropulsiva.

    – E una volta libero, Micah – Selmi lo fissò attraverso il vetro, – inizierà la tua missione. La Sepolcro farà il primo scalo su Marte e sarà la tua unica opportunità di lasciarla. Tienilo a mente perché dopo quella sosta procederà, almeno stando a quanto dice il piano di volo che ci hanno comunicato, fino alle lune di Giove e là non abbiamo alcun potere. Su Marte il MIST è in grado di nasconderti, proteggerti e organizzare il tuo ritorno qui. Ma se la Sepolcro dovesse rientrare…

    – Non è un’opzione, colonnello – lo interruppe Micah.

    – La pensiamo allo stesso modo, ragazzo. – Selmi diede le spalle alla capsula e iniziò a passeggiare nel laboratorio. – Una volta libero dovrai raccogliere quante più informazioni possibili sulla necropropulsione. Quello è il tuo obiettivo primario e dovrebbe essere anche il più facile. Ti risveglierai in uno di quei maledetti cimiteri e lì cerca di osservare bene ogni cosa, anche quelle che ti sembrano più insignificanti. Ci penseranno i nostri analisti a raccogliere tutto il materiale dai tuoi ricordi. – Si tamburellò le tempie con indice e medio. – E a mettere insieme i pezzi del puzzle. Questa è la tua missione primaria, Micah, perciò da qui in avanti l’unica tua preoccupazione sarà trovare il modo di avvicinarti alle piattaforme di scarico della Sepolcro.

    – Non dovrebbe essere difficile, signore – commentò Micah a denti stretti. Faceva così male essere ammalati di tumore? – L’equipaggio delle loro astronavi è ridotto all’osso. Il carico e lo scarico delle merci è un lavoro che svolgono per la maggior parte i nostri e i loro robot. Sono così sicuri dei loro mezzi da non avere nemmeno una rete di sensori interna alla nave, o almeno io non ne ho mai vista una. Potrei non incontrare nessuno per settimane, come è già successo.

    – Potresti. Ma non lo sappiamo. Forse i necropropulsori necessitano di manutenzioni che non immaginiamo, forse tutto l’equipaggio si nasconde quando gli Osservatori vanno in giro per la nave. Troppe domande, capitano. Con il tuo ritorno speriamo di avere qualche risposta in più. Dottore?

    – Ho finito, colonnello. Siamo pronti a indurre il coma.

    – Micah?

    – Sì, colonnello.

    – Allora in bocca al lupo, ragazzo. Ti risveglierai tra sette giorni, qualche ora prima che la Sepolcro lasci la Piattaforma Norvegese. È l’unico modo per essere certi che non sia proprio tu uno dei primi a morire durante l’attivazione dei necropropulsori: sarai libero prima che questo succeda e così li fregheremo. Il viaggio per Marte dovrebbe durare tre giorni, dipende da quanti Salti intendono fare. Ma anche su questo si sono dimostrati volubili, in passato.

    – Lo so, colonnello, sono andato su Marte durante la mia prima missione. – Si passò la lingua sulle labbra secche. – Equipaggiamento standard? – Chiese. Ma conosceva già la risposta.

    – No – intervenne Renewal, – interferirebbe con la sua malattia artificiale.

    – Equipaggiamento di sopravvivenza, Micah – concluse laconico Selmi.

    – Va bene. Tre giorni. Già mi manca la Piattaforma dei Coralli.

    – Chiudi gli occhi, ragazzo, e fatti una bella dormita.

    Micah Veidt deglutì, fece un lungo respiro e nel profondo della gola sentì il metallico sapore dei Necronauti. Quello, ne era certo, non l’avrebbe mai più abbandonato.

    2

    La Piattaforma Norvegese era stata costruita dopo il primo contatto con la Corporazione, quasi cento anni prima, sfruttando l’aspra superficie delle Isole Svalbard. La distanza dalle principali città, il clima artico e la grande massa oceanica disponibile ne avevano fatto il luogo più adatto per consentire l’atterraggio della nave spaziale. Enormi piloni alti quasi due chilometri sostenevano una grandissima struttura ottagonale lunga otto chilometri, composta da leghe sintetiche in grado di resistere a pressioni e temperature altrimenti insopportabili. Otto generatori di materia, localizzati ai vertici della Piattaforma, creavano una bolla a bassa gravità in modo che il peso della Sepolcro non facesse collassare l’intera struttura e due dozzine di magneti rendevano possibile l’aggancio dell’astronave alla Piattaforma. Erano stati costruiti su indicazioni della Corporazione perché le leghe metalliche che componevano la Sepolcro si comportavano diversamente da qualunque materiale terrestre. Serviva un posto dove incontrare i Necronauti, dove rifornire le loro sfere della morte, dove imbarcare gli osservatori, dove scaricare i beni provenienti dalle altre colonie e dove definire quali tratte commerciali si sarebbero potute aprire nel Sistema Solare. A tutte quelle domande rispondeva la Piattaforma Norvegese.

    – Eccola – disse un giovane militare addetto ai controlli strappando il colonnello dalle sue riflessioni. Le proiezioni olografiche mostravano l’immensa macchia incandescente della Sepolcro iniziare la discesa verso la Piattaforma.

    – Eccola – commentò Selmi. Lanciò uno sguardo agli altri pozzi olografici e non potè impedire alle sue mascelle di contrarsi. L’oceano artico, normalmente quieto, brulicava di attività. Navi, mezzi sottomarini, città flottanti: uno spiegamento di forze imponente che aveva il duplice scopo di accogliere e intimidire i Necronauti. Farlo, secondo Selmi, era tanto giusto quanto sbagliato, perché l’intimidazione era il volto più orgoglioso della paura.

    Spostò lo sguardo sui rilevatori di avvicinamento e poi alzò la testa verso lo schermo principale della sala di controllo. Mostrava il cielo pallido e gelido dell’Artico, ma tra poco quello stesso cielo sarebbe cambiato. Vedere la Sepolcro entrare nell’atmosfera era uno spettacolo al quale era impossibile abituarsi.

    Non lo avrebbe mai ammesso ma ogni volta che questo accadeva, prima dell’avvio delle operazioni, faceva in modo di essere in quella sala. L’astronave della Corporazione era immensa, anche secondo i canoni dei veicoli spaziali concepiti prima del Silenzio, e le sue forme sfidavano molte delle leggi fino a quel momento adottate. Lunga oltre due chilometri, era frastagliata da guglie, torri ricurve, rostri e segmenti appuntiti che richiamavano l’antichissimo stile gotico terrestre. La prua si apriva in lunghe e affilate strutture tentacolari mentre le uniche componenti arrotondate erano quelle legate alla necropropulsione. Al centro della Sepolcro, o come la chiamavano i Necronauti Luce di Titano, tre enormi ellissi il cui asse maggiore culminava in grandi strutture ovali, oscillavano intorno al nucleo necropropulsivo: un'immensa sfera circondata da filamenti e sovrastrutture metalliche che lo stringevano in una ragnatela pulsante.

    Poi, sparsi lungo tutta la superficie della nave, altri blocchi sferici incastrati tra guglie e protrusioni aguzze. Biancastri, sembravano uova di un mostruoso insetto e si distaccavano dal nero opaco della nave: le sfere della morte. Al loro interno c’erano uomini e donne rinchiusi nelle capsule che aspettavano, privi di conoscenza, venisse il loro turno.

    La Sepolcro era in grado di ospitare diverse centinaia di capsule e stando ai calcoli che il MIST aveva fatto questo le poteva garantire un’autonomia nello spazio di alcuni anni. Un tempo sufficiente per muoversi libera nel Sistema Solare, da Urano a Marte, senza tappe intermedie ma dosando bene i salti. I Necronauti erano molto previdenti in questo e nessuna di quelle sfere era mai del tutto vuota.

    – Ci siamo – sussurrò Selmi, senza che nessuno lo sentisse. Nella sala di controllo scese un silenzio carico di aspettativa.

    Per primi arrivarono i fulmini. Rossastri e avvolti da nubi scure si allargarono come una macchia di inchiostro nel cielo sopra la Piattaforma: lo scudo incandescente generato dalla Sepolcro reagiva con l’atmosfera terrestre stravolgendone il clima. Il mare venne increspato da un forte vento che iniziò a formare vortici sulla superficie.

    – Controllo. Avviare i protocolli di stabilizzazione. – La voce calma dell’ufficiale ai sensori tolse un po’ di inquietudine a quel momento.

    Alcune delle navi semisferiche disposte intorno alla piattaforma si schiusero rivelando bassi e tozzi cannoni. Qualcosa iniziò a ruotare al loro interno e una luce bianca sprigionò dalle bocche di fuoco. L’aria venne saturata da onde elettromagnetiche che si opponevano alla tempesta innaturale causata dalla Sepolcro.

    – Non sarà un giorno d’estate – commentò un altro ufficiale alle spalle di Selmi, – ma ce la dovremmo cavare con un semplice acquazzone.

    Il vento perse parte della sua potenza ma il fragore dei tuoni superò le pareti della sala percuotendosi sulle strutture metalliche. Intanto il cielo si era quasi completamente oscurato. I pozzi olografici del controllo mostravano la stilizzata sagoma dell’astronave avvicinarsi ma sugli schermi ancora tutto era avvolto dal fitto olocausto climatico in corso.

    – Attivare i generatori di materia. Gravità artificiale operativa.

    Un lieve ronzio strisciò attraverso la Piattaforma. Selmi lasciò che la sua attenzione si dividesse tra il cielo e il mare: quello era il momento più impressionante di tutta la procedura. La bolla di gravità artificiale creata dai generatori iniziò a influenzare tutto ciò che era rinchiuso al suo interno. I mezzi del governo terrestre sapevano come compensare il suo effetto ma la natura no. Pinnacoli di acqua marina iniziarono a sollevarsi proiettati dal vento e dalle onde verso l’alto, come se una pioggia torrenziale salisse dal mare. L’aria per contro continuava a scaldarsi scatenando nuovi fronti temporaleschi sempre più vicini.

    E finalmente la prua della Sepolcro fece la sua apparizione. Tentacoli più scuri delle nubi che li circondavano perforarono il cielo. Erano avvolti da un’arrotondata membrana che diventava sempre più trasparente ma che a contatto con l’acqua marina sospesa sfrigolava in getti di vapore. Ci furono altre secche detonazioni mentre le navi sferiche continuavano il loro lavoro di controllo climatico.

    L’astronave continuò la lenta discesa e dopo minuti che sembravano ore, finalmente, la tempesta si dissolse: la Sepolcro adesso planava stretta da filamenti scuri che originavano dal nucleo necropropulsivo e che sembravano legarla a qualcosa oltre l’atmosfera terrestre. I fili si arricciarono diventando simili a eliche di DNA e si richiusero sull’astronave, strisciando dal nucleo alle piccole sfere che ne costellavano la struttura.

    Poi, non appena l’intera nave fu all’interno della bolla gravitazionale, i filamenti scomparvero. – Iniziare aggancio.

    I magneti della Piattaforma si sollevarono e con un lungo, graffiante e tremendo grido si fissarono ai rostri affilati della Sepolcro. L’intera Piattaforma sobbalzò sotto il peso dell’astronave, ma i piloni erano progettati per resistere a sollecitazioni ancora maggiori perciò si assestarono quasi subito.

    Iniziò una tiepida pioggia battente che cadeva lenta come neve. Selmi udì lontane detonazioni: le montagne delle isole Svalbard protestavano contro la violenza subita scagliando valanghe di neve lungo le valli disabitate.

    – Attracco completato.

    Ci siamo, pensò Selmi.

    – Signore – disse l’ufficiale addetto alle comunicazioni.

    Uno dei pozzi olografici si illuminò anche se quella comunicazione non era per loro, quanto per il senatore Wilford, rappresentate del governo terrestre presente sulla Piattaforma.

    – Salve, terrestri. – La voce, metallica e stentata, li raggiunse prima delle immagini. – Sono il capitano Zytras della Luce di Titano. Saturno vi porta i suoi saluti.

    3

    Gli incontri tra il governo terrestre e i capitani della Corporazione si erano svolti faccia a faccia solo una volta nella storia delle fitte relazioni commerciali tra i due sistemi: il giorno in cui la Luce di Titano si era rivelata al mondo. Poi l’aspetto inquietante dei Necronauti, unito agli effetti micidiali dell’atmosfera all’interno delle navi, aveva fatto sì che ogni incontro avvenisse nelle stanze virtuali della Piattaforma Norvegese. Nonostante la tecnologia sulle colonie avesse a volte preso direzioni differenti rispetto a quella della Madre Terra, come nel caso nella necropropulsione, tutto originava comunque da lì e i sistemi di comunicazione delle astronavi corporative non erano così diversi da quelli terrestri.

    Selmi non aveva mai voluto partecipare a quegli incontri, non attivamente almeno. Era sempre rimasto dietro le quinte cercando di indovinare anche quello che non veniva apertamente detto durante quei confronti: quel giorno non faceva differenza.

    Osservava, prendeva appunti e insieme agli analisti tentava di tracciare un realistico e completo profilo della struttura gerarchica di Saturno.

    – Abbiamo aperto il canale – commentò l’ufficiale addetto alle comunicazioni.

    Nella stanza si condensarono alcune figure che presero via via definizione. Come sempre il segnale proveniente dalla Sepolcro impiegava più tempo degli altri; per il momento era soltanto un involucro scuro e privo di contorni.

    – Le operazioni di carico sono cominciate rispettando i tempi previsti dai nostri accordi – esordì il senatore Wilford, un uomo spiccio e molto pragmatico. La sua trasposizione virtuale sedeva a un grande e rotondo tavolo con il piano in vetro incorniciato da una lucente struttura di alluminio e acciaio. Accanto a lui, in alta uniforme, il capitano Alan Bellini: il rappresentante della marina terrestre addetto alla logistica. L’immagine era nitida e, nella complessiva artificiosità della stanza, sembrava persino troppo vera.

    – Vi siamo grati per la perfetta efficienza, senatore Thomas Wilford. – Le parole anticiparono di alcuni istanti l’immagine. – E sarà nostra cura fare in modo che tutto proceda il più celermente possibile.

    Selmi pensò ci dovesse essere qualche ritardo tra audio e simulazione virtuale perché le labbra biancastre del capitano Zytras non si muovevano. Poi si accorse che non era stato lui a parlare, ma una seconda figura alle sue spalle ancora nascosta dal cattivo segnale.

    – Permetta che mi presenti, senatore – continuò. Era basso, non più alto di un metro e settanta, e l’unica cosa che per il momento si riusciva a intuire era il pallore di viso e mani. – E permetta che vi spieghi il senso della mia presenza.

    Fece un passo avanti o qualcuno, a bordo della Sepolcro, aumentò la potenza del segnale; il risultato fu una qualità migliore della proiezione.

    Era davvero molto pallido, con lunghi capelli neri che gli ricadevano sulle spalle e con un vestito color bronzo. Il volto era privo di sopracciglia e i grandi occhi, forse neri, forse marroni, erano un po’ troppo distanti tra loro. Nel complesso, per quanto non perfettamente definito e a tratti agitato da fluttuazioni della trasmissione, non era affatto gradevole.

    Niente se paragonato all’altro, pensò Malcom Selmi. I Necronauti riuscivano sempre a disgustarlo più di quanto credesse possibile. Pensava di essersi abituato, in tanti anni di servizio al MIST, ma la realtà era che semplicemente non si poteva accettare una cosa del genere. Eppure, nonostante il rigetto, la presenza del capitano della Luce di Titano attirava lo sguardo come le alghe carnivore facevano con i molluschi di mare.

    Anche da seduto Zytras era alto quasi quanto l’altro uomo. Il bianco del viso superava il semplice pallore e la pelle era talmente chiara da essere quasi trasparente. Quando il segnale lo permetteva, definendo meglio i tratti somatici del Necronauta, affiorava su guance, fronte e collo una ragnatela di capillari bluastri che sembravano in procinto di esplodere, tanto erano marcati. Ma la cosa che Selmi non avrebbe mai accettato era la fusione tra biomeccanica e carne che martoriava il capitano: solo la testa era libera da innesti. Tutto il corpo era avvolto da un macchinario pulsante che lo rendeva massiccio e sgraziato. Gambe e braccia riuscivano a muoversi solo perché strani meccanismi animati da un’energia di cui ancora non comprendevano l’origine gli permettevano di farlo. Quell’esoscheletro sembrava agitarsi, più fluido di quello che il metallo avrebbe permesso, entrando e uscendo dal corpo del Necronauta in più punti. La qualità dell’immagine non permetteva di più e nessuno degli Osservatori era mai stato ammesso nella cabina di comando di una nave corporativa, ma la sensazione che trasmetteva era una e una soltanto: morte. Selmi si domandò cosa dovevano aver pensato i rappresentanti del governo terrestre, cento anni prima, quando per la prima volta avevano incontrato un Necronauta.

    – Il mio nome è Eliphas Nuuro – continuò l’uomo, superando di un passo il capitano, – e sono un incaricato rappresentante dei Governi Uniti di Saturno, oltre che un emissario della Corporazione. Per quasi cento anni abbiamo costruito insieme una solida trama di rapporti, commercio e informazioni. – Aveva la voce più sicura di quella dei Necronauti, priva di ogni spigolosità metallica. – Crediamo, la nostra capitale Titano crede, sia venuto il momento di rafforzare ancora di più questo legame. Nei lunghi decenni di collaborazione il nostro più alto e appassionato scopo è stato quello di mettere al servizio delle Colonie – fece una pausa sottolineandola con un ampio gesto del braccio – e della Terra – continuò – le forze di cui disponiamo in modo da far riprendere gli indispensabili contatti tra i pianeti del nostro Sistema Solare. I Capitani delle nostre navi – con un altro gesto fluido indicò l’uomo alle sue spalle – hanno svolto egregiamente il compito loro assegnato, ma adesso crediamo sia venuto il momento di andare avanti. Di andare oltre. Di… – scelse la parola con cura – … progredire.

    Lo spettrale viso del capitano si mosse in un lento cenno di assenso.

    – Senatore Thomas Wilford. – Eliphas sollevò la testa e allargò le braccia, i palmi rivolti verso i suoi interlocutori. – Titano chiede il permesso, e l’aiuto, del governo terrestre per l’apertura di un consolato di Saturno sul vostro pianeta.

    Wilford rimase impassibile. Selmi, dalla sua postazione, imprecò a sufficienza per tutti.

    – Be’, Eliphas, il suo modo di esprimersi è tanto forbito quanto concreto – rispose il senatore, nascondendo alla perfezione la sorpresa. – Naturalmente avremo bisogno di un po’ di tempo.

    – Naturalmente.

    – E di alcune specifiche. Mediche e sanitarie, se capisce cosa intendo.

    – Siamo pronti a fornire tutta l’assistenza necessaria, senatore.

    – Che, immagino, non comprenda informazioni dettagliate sulla necropropulsione. – Wilford lanciò la stoccata con noncuranza, come se stesse parlando del tempo.

    – Bel colpo – commentò con un sogghigno il colonnello Selmi.

    La sfocata immagine del capitano sembrò irrigidirsi, come se l’esoscheletro che indossava si fosse stretto su di lui. Eliphas, per contro, rimase impassibile.

    – No, senatore. La necropropulsione è e resta un fardello del mio popolo. Naturalmente spero che questo non comprometta la possibilità che un consolato di Saturno trovi sulla Terra un luogo sicuro.

    – Naturalmente.

    – Ne sono felice. I dettagli logistici per lo scarico delle merci e per il loro carico potranno essere discussi direttamente con il capitano della Luce di Titano mentre sarò lieto di comunicare io personalmente, dalla mia cabina, tutte le specifiche e le inevitabili esigenze che l'apertura di un consolato comportano.

    Wilford si alzò: – Come può immaginare dovrò discutere la sua proposta in Senato. Non credo ci saranno obiezioni ma sa, la vecchia politica è insidiosa e i tempi non sono quelli di un viaggio nello spazio. Certo, se ci aveste avvisati prima avremmo potuto avviare le consultazioni per tempo – non fece nulla per nascondere il disappunto.

    – Reputiamo terribilmente scortese avanzare una richiesta del genere per bocca di un capitano della Corporazione. Non si preoccupi, siamo disposti a pagare in termini di tempo il prezzo del rispetto che Saturno nutre nei confronti della Terra. Se volete scusarmi, non voglio trattenervi oltre.

    – Nessun disturbo, Eliphas. Spero ci saranno altre occasioni. – Wilford fece un passo di lato, scartando la sedia.

    – Senza dubbio, senatore. È interesse dei Governi Uniti di Saturno fare in modo che un rappresentante mio pari sia sempre a bordo delle astronavi della Corporazione e mio sarà il compito di fortificare i rapporti con la Terra. È iniziata una nuova era per l’intero Sistema Solare ed esserne stato il promotore mi emoziona. – Incrociò le braccia e fece un inchino prima di ritirarsi nell’ombra della proiezione.

    – Capitano Bellini, le lascio le formalità. Se così si possono chiamare. – Wilford scoccò un’occhiata al capitano della Sepolcro, rimasto solo nella sala. Le formalità di quel tipo costavano migliaia di vite.

    – Grazie, senatore. – La voce del Necronauta gracchiò, metallo su metallo. – Capitano. Sono a disposizione così come i miei uomini.

    L’immagine del senatore vibrò, prima di svanire in un lampo di neutrini.

    Selmi si alzò dalla sua postazione con un’espressione colpevole. La missione di Micah Veidt, alla luce di quanto aveva appena sentito, passava in secondo piano.

    O forse no?

    4

    Micah trascorse sette giorni prigioniero della malattia. E degli incubi. Sognò le pareti metalliche della Sepolcro che si stringevano su di lui fino a soffocarlo e poi, quando queste lo lasciavano libero, si ritrovava solo in un lungo corridoio umido e fatiscente. Sollevava le mani, nel sogno, e se le portava al viso per scoprire con orrore che l’abbraccio dell’astronave lo aveva segnato più di quanto potesse immaginare. Era in quel momento che, nel modo sinistro e irresistibile dei sogni, vedeva se stesso. Vedeva le proprie mani scavare nel volto, affondare nella pelle per liberare placche di metallo rossastro. E la stessa cosa succedeva a braccia e gambe. In un vortice di terrore sempre più frenetico, del vecchio Micah Veidt non rimaneva nulla: al suo posto una caricatura ancora più deforme dei Necronauti stessi. Una fusione

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