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La maledizione di Runik
La maledizione di Runik
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E-book486 pagine4 ore

La maledizione di Runik

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Info su questo ebook

Una serie di inspiegabili casi di follia omicida sconvolge la vita di un piccolo paese ciociaro. In uno scenario tetro e pieno di colpi di scena, il professor Dimitri e il suo assistente dovranno far luce su un mistero che affonda le radici in un passato di oltre 25 secoli. Alcuni indizi, una leggenda e un'antica maledizione: ad opporsi ad essa una lotta corale di persone, unite in una sfida forsennata contro una forza diabolica oscura e distruttiva.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ago 2018
ISBN9788828374473
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    Anteprima del libro

    La maledizione di Runik - Pierluigi Fratarcangeli

    fantasia.

    CAPITOLO 1

    Era il crepuscolo di una giornata nuvolosa di fine settembre. Nel paese il clima frizzante dell’estate lasciava il posto, settimana dopo settimana, alla routine della vita quotidiana; la gente, finite le ferie, tornava alle occupazioni di ogni giorno: chi nei campi, chi nei negozi, chi dietro una scrivania.

    Viale Umberto I era percorso da anziani che passeggiavano su e giù aspettando l’ora di cena, insieme a qualche avventore dei pochi esercizi commerciali rimasti al centro del paese. Alcuni bambini giocavano sul piazzale del Polivalente, al lato di quella strada, che dava su una vallata enorme: da lì lo sguardo si perdeva fino al versante occidentale dell’Appennino laziale, che in quel periodo conservava ancora i colori vivaci della stagione del sole.

    L’ultima festa estiva programmata dal Comune c’era stata alla fine di agosto. In quelle occasioni il paese si riversava quasi interamente lungo quel viale, che costeggiava su di un lato la rocca dove era ammonticchiato il centro storico, come un foulard al collo di un’anziana signora.

    Quasi nessuno, in verità, chiamava quella via alberata con il suo vero nome: in paese la conoscevano tutti come Moddìa perché, pare, qualche secolo prima fu percorsa da un condannato a morte di origini francesi che gridava disperato la frase Mon Dieu. Da lì, sempre stando a questa leggenda, la frase fu adattata all’italiano e prese il nome di Moddìa.

    Passato il mese di agosto, la Moddìa avrebbe perso di vitalità per sei giorni alla settimana; la domenica, invece, era il giorno del mercato settimanale e si riempiva di bancarelle di ogni tipo e di persone che, dopo la celebrazione della messa nelle chiese di S. Rocco e del SS. Salvatore, facevano compere e chiacchiere.

    Giulio Corsi, ingegnere edile, tornò a casa poco dopo il tramonto. Abitava in via Rua De’ cavalieri, una stradina interna alle vecchie mura che per un breve tratto correva parallela alla Moddìa, ma che, rispetto ad essa, si trovava una manciata di metri più in alto, verso la sommità della rocca.

    La moglie, Carla, lo trovò particolarmente stanco. Pensò che fossero le conseguenze del rientro al lavoro dopo 20 giorni di ferie, tra gli ozi, un viaggio nell’est europeo, e qualche lavoretto di riparazione qua e là per la casa.

    ― Come è andata oggi? Duro il rientro?

    ― Bene... beh sì, un po’... ritrovare tutte quelle scartoffie impilate sulla scrivania fa mancare l’aria.

    Sembrava volesse continuare a parlare ma si interruppe, come se altre parole gli fossero rimaste strozzate in gola. Sotto il lampadario del soggiorno Carla notò un pallore ceruleo sul suo volto.

    ― Non ti senti bene? ― riprese lei con tono premuroso.

    ― No, va tutto bene. Scusami, vado nel mio studio, ho delle cose da sbrigare...

    Carla tornò in cucina, dove stava preparando dei dolci per la festa di compleanno della madre, organizzata per quella stessa sera a casa dei suoi genitori. Avrebbero cenato insieme ad amici e parenti vicini e lontani: sessant’anni erano un bel traguardo e voleva che i suoi dolci facessero davvero una bella figura. Li preparava con cura, dosando gli ingredienti con precisione certosina, mentre canticchiava il ritornello de La Donna Cannone, che aveva ascoltato poco prima alla radio.

    ― Hai finito già il tuo lavoro? ― chiese la donna, che dava le spalle alla porta della cucina, sentendo il marito uscire dallo studio. Non ricevette risposta. Forse non l’aveva sentita, pensò.

    ― Se non devi più lavorare comincia a prepararti, così almeno stavolta non saremo gli ultimi ad arrivare. Lo sai che papà ci tiene alla puntualità!

    L’uomo continuò a non rispondere. Carla sentiva i suoi passi attraversare il soggiorno e avvicinarsi alla cucina. Fu sul punto di girarsi, per rimproverare il marito: cosa gli costava risponderle? In quell’istante una pirofila le cadde sui fornelli, rovesciandosi. Si apprestò a pulire l’impiastro che aveva combinato sul pianale della cucina. L’ombra del marito era dietro le sue spalle:

    ― Almeno dammi una mano, per la miseria! Non vedi che casino che ho fatto? ― chiese infastidita.

    Non ebbe nessuna risposta.

    Carla fu trovata morta sul pavimento qualche minuto prima delle ventidue. Era riversa in una pozza di sangue con la gola tagliata all’altezza della carotide. Giulio, seduto su una sedia poco distante, impugnava un coltello, con la mano destra madida del sangue della moglie fino all’altezza del polso. I piedi e le gambe erano perfettamente immobili, e con il tronco si dondolava freneticamente avanti e indietro.

    Li aspettarono a tavola per un po’. Non vedendoli arrivare, cercarono prima di rintracciarli sui cellulari e al numero fisso della loro abitazione; poi, non ricevendo alcuna risposta e incominciando a temere che fosse accaduto qualcosa, pensarono che fosse meglio andarli a cercare. Il cognato di Carla uscì da solo con la macchina alla ricerca dei due, ripetendo tra sé che un ritardo poteva capitare a tutti e che non c’era nulla di cui allarmarsi.

    Fu proprio lui a buttare giù la porta, dopo aver visto che le loro due automobili erano parcheggiate in garage e che nessuno andava ad aprirgli la porta di casa, nonostante avesse suonato il campanello più volte.

    Entrando in cucina fu preso da un orrore indescrivibile che gli paralizzò le gambe e le corde vocali. Si portò le mani alla bocca e fu sul punto di vomitare: vide il corpo sgozzato della cognata a pochi metri dai suoi piedi. Di profilo, la sagoma di Giulio ondeggiava senza sosta con lo

    sguardo perso nel vuoto. Un rigagnolo di saliva gli scendeva dal lato destro della bocca. Si avvicinò a lui, gli tolse il coltello dalle mani e cercò di scuoterlo con violenza da quello stato catatonico. Gli chiese ripetutamente cosa fosse successo, gridandogli in faccia se si rendesse conto di quello che aveva fatto. Non ricevette nessuna risposta, né una smorfia del volto. Nulla. A quel punto, dopo essersi ripreso dallo shock iniziale, realizzò cosa fosse realmente accaduto. Non si trattava di un incubo, non era sul set di un film: lì per terra c’era Carla, morta sgozzata dal marito.

    Avvertì il padre della donna. Poi chiamò il 112, con le mani che, per un irrefrenabile tremolio, ancora dopo una ventina di minuti gli resero difficile comporre il numero sulla tastiera del telefono.

    I carabinieri arrivarono quasi subito sul posto. Sequestrarono l’abitazione e transennarono lo spazio davanti alla porta d’ingresso, per impedire che curiosi e vicini di casa, accorsi increduli sul luogo, intralciassero le prime indagini.

    Si cercava di far luce non tanto sulla dinamica dell’omicidio, che era fin troppo chiara, ma sul perché un professionista stimato e benvoluto da tutti avesse compiuto improvvisamente un gesto così brutale, per giunta verso la moglie che, era cosa risaputa, aveva adorato fin dal giorno in cui l’aveva conosciuta.

    Il maresciallo Vitali, mentre gli agenti del reparto investigativo procedevano con i rilevamenti, ordinò ai suoi uomini di trasportare Giulio Corsi nel soggiorno adiacente alla cucina. Ci riuscirono a fatica, sollevandolo quasi di peso. Gli rivolse delle domande ad un ritmo concitato. Poco dopo anche lui si rese conto dello stato in cui si trovava quell’uomo.

    Di un interrogatorio non si trattò affatto: l’ingegner Corsi non rispose a nessuna delle domande che il maresciallo gli rivolse. Giunse anche il medico che lo sottopose a stimoli visivi, tattili, a cui non reagiva in alcun modo.

    Continuava ad ondeggiare freneticamente avanti e indietro, tenendo gli occhi fissi di fronte a sé, come stregato da una qualche presenza che gli polarizzava lo sguardo su un punto invisibile.

    CAPITOLO 2

    Erano anni che non si vedeva un autunno così piovoso, almeno in quella porzione di basso Lazio.

    Da giorni ormai il maltempo infuriava senza sosta e secondo le previsioni meteo non avrebbe accennato a migliorare per molto tempo ancora. I tombini delle città debordavano spesso, allagando porzioni di strade o interi quartieri. La Ciociaria sembrava ricoperta di uno strano velo grigio, come in una pellicola cinematografica in bianco e nero.

    ― Mai visto un tempo simile, fa paura.

    ― Da quando in qua hai paura di quattro gocce d’acqua? ― rimbeccò il professor Dimitri al suo giovane assistente.

    ― Insomma, quattro gocce non direi proprio, visto che i tergicristalli non ce la fanno a buttar via l’acqua. Ci vuole ancora molto? ― chiese.

    ― Trenta chilometri circa; ti sento spazientito o sbaglio?

    ― Spazientito... non proprio. Il fatto è che non so proprio per quale motivo siamo partiti per uno sperduto paesino ciociaro, per giunta con questo tempo da cani. Non mi ha dato nemmeno il tempo di salutare Rico...

    ― Andiamo, non ti lamentare! Lo stai viziando quel cane! Quando ti ricapiterà di fare una piacevole scampagnata in questa terra meravigliosa, di santi e contadini sanguigni, un tempo guerrieri feroci? Pensa che resero la vita dura ai Romani, e persero la guerra contro di loro solo perché furono traditi! Che popolo gagliardo; e non ti dimenticare che

    nelle mie vene scorre quel sangue... Ferocior ad rebellandum...

    ― ...Quam bellandum...conosco la storia professore, la conosco bene ― rispose Mattia con aria apparentemente spazientita, ma nello stesso tempo carica di affetto per quel professore, spesso logorroico e, a tratti, ripetitivo fino allo sfinimento.

    ― Sarà forse la centesima, ma che dico, la millesima volta che me lo racconta? ― proseguì con un leggero sorriso.

    ― Non vuoi più sapere il motivo che ci porta qui? ― riprese Dimitri con l’intenzione di stuzzicare la curiosità del giovane.

    ― Beh, avrei qualche diritto di saperlo, non crede? Dopo che mi ha buttato giù dal letto alle cinque del mattino, con una fretta che le persone non hanno neppure nel pieno di una colica intestinale...

    vorrei saperlo sì!

    ― Devi avere ancora un po’ di pazienza: ce la racconterà di nuovo la stessa persona che mi ha contattato. Non posso dirti nulla di preciso perché dalla telefonata confusa di ieri notte ho percepito soprattutto inquietudine, ma non so i motivi che ci sono dietro. Mi ha detto che non è possibile parlarne per telefono ―. A quel punto, dal volto di Mattia trapelò una leggera delusione, convinto com’era qualche secondo prima che avrebbe saputo finalmente la ragione di quella partenza così frettolosa, e misteriosa, che ancora una volta lo portava in giro per l’Italia.

    Viaggiare non lo spaventava affatto e quella non era stata l’unica partenza frenetica che facevano insieme.

    Era convinto comunque che se anche il professore avesse saputo qualcosa su quel caso, o almeno lo avesse intuito, non gliel’avrebbe detto. Era un uomo che amava l’attesa: dava gusto e sapore al tempo, diceva spesso.

    Il professore era un tipo particolare. Senza dubbio. A volte buffo, consapevole di esserlo.

    I due proseguivano sotto il diluvio, a bordo della Fiat Coupé 2300 del 1963, che il professore aveva ereditato dal nonno e da cui non si era mai

    separato. Era Mattia a guidare la vettura durante i loro viaggi. Il professore si rilassava sul sedile laterale, ammirava i panorami e imbastiva lunghi discorsi, farciti spesso di battute di spirito, sui più svariati argomenti: l’archeologia, l’arte, la storia, soprattutto dei luoghi meravigliosi in cui li portava la loro attività collaterale.

    A volte, però, lasciava il posto a riflessioni profonde, da cui veniva fuori la sua interiorità. In quei casi si faceva serio e metteva da parte ogni autoironia. Si rivolgeva al suo giovane assistente, anche se si ritrovava come assorto e isolato in pensieri continui che inseguiva, afferrava e poi superava per cercarne di nuovi. La sua logica si sposava con il suo misticismo ragionato e cosciente, tanto che nessuno dei due aspetti prendeva mai il sopravvento sull’altro. Mattia fu costretto ad ammettere a se stesso, dopo una frequentazione già lunga con il professore, che quello era il tratto di lui che più lo affascinava. Restava rapito dalla razionalità con cui riusciva a coniugare le sue conoscenze culturali, basate su tesi e documentazioni evidenti, con una spiritualità che si fondava su ben altri presupposti: la fede, l’intuito, l’irrazionale, l’illogico.

    Il professore ricevette una telefonata poco prima di uscire dal casello dell’autostrada: Mattia capì dalla conversazione che era lo stesso amico che lo aveva contattato la sera precedente e che ora chiedeva informazioni sul tempo che mancava per giungere a destinazione.

    Lungo quell’ultimo tratto di autostrada si vedevano, sui due lati, ruderi di vecchie fabbriche, che parevano carcasse di mammut.

    Il diluvio rendeva quello spettacolo ancora più triste. Quel paesaggio testimoniava un passato di quella regione che era stato di certo più florido rispetto al tempo presente. Sulla sinistra, in alto, la città di Frosinone si stagliava sulla collina, come un guardiano appisolato.

    Uscirono dall’autostrada. Attraversando la periferia di Frosinone si diressero verso sudest. Erano le prime ore del pomeriggio, ma il cielo coperto dava l’impressione che fosse un’ora molto più tarda.

    ― Eccoci qua, ― disse il professor Dimitri dopo un breve sospiro ― ti

    accorgerai che la bellezza delle campagne ciociare non ha nulla da invidiare alla brughiera inglese.

    Era diventato improvvisamente nostalgico. Tornava in quei posti dopo tanto tempo e il ticchettìo delle sue dita sulla maniglia della portiera tradiva una certa frenesia.

    Il professore era nato da quelle parti, tra contadini sanguigni e guerrieri feroci, come gli piaceva ripetere, in un paesino dove, dopo tanto tempo, stava tornando in quella giornata piovosa di fine settembre. Era l’invito misterioso di un suo caro amico a riportarlo lì più che il desiderio di rivedere la sua terra.

    Gli impegni nella Capitale e i viaggi frequenti per il mondo lo avevano portato più volte a rimandare i suoi propositi di far visita a quel nugolo di casette arroccate.

    Non era certo quello il solo motivo, anche se era l’unico che il professore ripeteva a se stesso, forse per attenuare il senso di colpa che lo attanagliava pensando ai posti delle sua giovinezza che sembrava voler dimenticare.

    C’era una motivazione più profonda che lo teneva lontano da quel luogo, come una forza invisibile. Era il dolore che lo investì troppo presto, come un tir lanciato a tutta velocità. Tanto dolore, quando era troppo piccolo per sopportarlo. Voleva che restasse sepolto lì, come gli ordigni inesplosi di una guerra trascorsa. Dopo tanti anni adesso aveva finalmente trovato il coraggio per tornare tra quelle colline ciociare, e l’invito che aveva ricevuto gli sembrava un segno: era arrivato il momento di riappropriarsi del suo passato, del suo dolore, dei colori e dei suoni del suo paese. Aveva trentasei anni.

    Proseguirono lungo il tragitto, ormai breve, che mancava da percorrere. Via America Latina li condusse nella parte alta di Frosinone, evitando l’intenso traffico cittadino; da viale Napoli avrebbero poi preso la Casilina.

    ― Shhh ― fece cenno a Mattia di tacere ― alzo un po’ il volume perché questa mi piace troppo, se non ti dispiace.

    Girò la manopola dello stereo, lasciando che le note di The long and Winding Road risuonassero nell’abitacolo della macchina. Mattia fece una smorfia leggera: non ne poteva più di sentire dischi dei Beatles.

    Dopo circa dieci chilometri, li aspettava sulla sinistra un piccolo aggregato di case ammonticchiate, che da lontano formavano una chiazza di colore grigio e marrone chiaro: Ripi.

    CAPITOLO 3

    Il professor Dimitri godette subito di un’ottima fama di docente fin dall’inizio della sua carriera, sia per le straordinarie doti umane con cui si rapportava agli studenti e ai colleghi, sia per la sua vivacità intellettuale riconosciuta e apprezzata da tutti, anche da coloro che, con un malcelato sentimento di invidia, tentavano di sminuirne il valore.

    Fu titolare di cattedra dall’età di trentadue anni.

    Si distingueva dai suoi colleghi per la capacità di conciliare in modo straordinariamente equilibrato una arguta razionalità, sia pratica che speculativa, con un’apertura, non ingenua, al soprannaturale. Pensava che la ragione, intesa come logica razionale tanto cara agli antichi Greci e fondamento della civiltà occidentale, non avesse il potere di spiegare tutto, non potesse inglobare in sé tutto il senso dei fenomeni che accadono ogni giorno nel mondo. Era convinto che in alcune circostanze la logica avesse persino il potere di coprire la verità.

    Per la comprensione e l’interpretazione dei fenomeni della realtà bisognava riconoscere che in alcuni casi i criteri logici fallivano miseramente, semplicemente perché con essi si pretende spesso di analizzare fenomeni che logici non sono.

    Per questo motivo, spesso, di fronte a misteri inspiegabili, a fenomeni soprannaturali, si rivolgevano a lui persone di ogni estrazione sociale e di ogni ruolo, con la certezza, se non di una soluzione sicura, almeno della lucidità intellettuale con cui avrebbe affrontato i casi.

    Non si era mai permesso di dare del folle a nessuno, neppure a quelli che gli presentavano situazioni o fenomeni totalmente assurdi. Insomma, aveva affiancato alla sua attività di brillante docente universitario, quella di investigatore del soprannaturale, a titolo gratuito, per il gusto di una semplice ricerca della verità, che lui trovava a suo modo, percorrendo strade proprie. E per questo poteva contare sull’appoggio fedele del suo assistente, Mattia Tognon, brillante studente che non si fece scappare, dopo averne constatato lo zelo e l’intelligenza durante l’esame che il ragazzo aveva sostenuto con lui.

    Insieme avevano fatto luce su misteri cupi, avevano spiegato, a modo loro, fenomeni ai limiti dell’inverosimile. Intelletto e sentimento, razionalità e senso del soprannaturale, illuministi e romantici nello stesso tempo.

    I due erano stati interpellati da istituzioni e da semplici cittadini in ogni parte d’Italia e d’Europa e negli ultimi tempi, in un paio di occasioni, era stato richiesto il loro parere anche da oltreoceano.

    Il professor Dimitri ed il suo assistente intervennero in molte situazioni oscure. Alcune restarono poco note, come ad esempio un caso di licantropia nell’entroterra sardo, oppure rispetto ad episodi di possessione diabolica, per i quali chiedevano spesso preziosi consigli a don Filippo, che qualche volta accorreva in loro aiuto. Singolare fu, tra i tanti, un episodio di vampirismo che si verificò alla foce del fiume Alico, nella Sicilia sud - occidentale, dovuto, si scoprì poi, ad una intossicazione acuta di alcuni bagnanti che si erano contaminati con prodotti chimici scaricati in acqua da una fabbrica di quella zona.

    Ma ciò per cui ebbero notorietà furono casi passati poi alla ribalta della cronaca mondiale. Il professor Dimitri, ad esempio, con una risolutezza propria del suo modo di fare, aveva liquidato con poche frasi, ma taglienti, il mistero del lago di Lochness su cui era stato interpellato da un’associazione non governativa del nord Europa: ― Idiozie allo stato puro, ― disse agli interessati ― e le immagini diffuse ovunque da tutte le TV del mondo non sono altro che fotomontaggi grezzi, messi in circolo con il solo scopo di aumentare la mole di turisti in quella zona sperduta della Scozia.

    Gli scozzesi ne pensavano una più del diavolo pur di spillare quattrini alla gente. Le loro ricerche non furono divulgate da nessuna rivista né da nessun altro veicolo di comunicazione, per non avere ripercussioni sul turismo in quella lontana località delle Highlands; ciò nonostante sulla questione, per quanto lo riguardava, non c’era più nulla da dire: era una balla. Punto.

    Nel 1997, invece, in occasione dell’ostensione della Sacra Sindone nella sua nuova collocazione, fu spronato dalle alte gerarchie del Vaticano ad interessarsi della vicenda, con l’auspicio che al termine delle sue ricerche potesse stilare un saggio che facesse luce una volta per tutte su quel mistero che, forse più di ogni altro, chiamava in causa quegli opposti tra cui Marco Dimitri si districava con l’abilità di un funambolo: la fede e la ragione. Si mise subito al lavoro, con la cura che il caso imponeva, prendendo alla lettera l’esortazione dell’allora pontefice Giovanni Paolo II, che invitava ad accostarsi allo studio della Reliquia senza posizioni precostituite che non diano per certe ipotesi che non lo sono.

    Passò anzitutto a rassegna il tragitto che quello straordinario reperto percorse da Gerusalemme alla sede del museo della Sindone di Torino, attraverso Edessa, Costantinopoli, Atene, per poi giungere in Europa per mano dei Templari. Quando gli furono chiare le tappe principali di questo percorso, si gettò a capofitto nell’analisi del reperto, per accertarne la datazione e per spiegare come fosse possibile che su una tela di lino restassero impressi con quella nitidezza i tratti di un uomo defunto.

    Contestò con estrema rapidità la presunta datazione che veniva fuori dall’esame del radiocarbonio effettuata nel 1988, in contemporanea ad Oxford, Zurigo e Boston, e che collocava la Reliquia tra il XIII e XIV secolo. Era convinto, infatti, che l’incendio a Chambery, da cui la Sindone era fortunatamente scampata, aveva sottoposto il tessuto ad un notevole stress termico che, unito alla potente irradiazione da cui era scaturita l’impressione sul telo, falsava l’esame del radiocarbonio di diverse centinaia di anni.

    Le sue ricerche durarono mesi, ma anche in quel caso si espresse con una valutazione secca, ma tutt’altro che imprudente. Era convinto che la scienza, in quell’occasione, avrebbe dovuto tacere: il metodo scientifico e la logica non erano criteri attraverso cui indagare quel mistero, che aveva ben altri parametri e che si rifaceva a coordinate di natura soprannaturale. In quel caso sì, la logica avrebbe davvero coperto la verità.

    Dopo aver messo insieme le parti di una ricerca condotta su più fronti, dopo averne assemblato i diversi risultati era davvero il caso di dirlo: in quell’occasione la terra e il cielo si legavano in un abbraccio soprannaturale che non poteva e non doveva essere spiegato. I risultati, come è ovvio, riempirono di gioia e ammirazione i committenti della Santa Sede, che omaggiarono il professore e il suo assistente con un encomio elargito proprio dal Santo Padre.

    Il caso della presunta morte del vero Paul McCartney fu più semplice del previsto: era fuori discussione che l’ex beatle fosse stato davvero sostituito da un sosia dopo il decesso avvenuto, pare, per incidente stradale. Esaminò una vecchia Rickenbacker del ’58, usata dal musicista quando era ancora un semi sconosciuto, ed il celebre basso Hofner del 1969, dei tempi di Abbey Road: le impronte digitali non corrispondevano affatto. Ciò voleva dire che, pur con una somiglianza sorprendente, i due Paul McCartney erano due persone diverse.

    In quel caso non serviva proprio scomodare il soprannaturale. Nemmeno questa scoperta fu mai divulgata, forse per non danneggiare le case discografiche che sul mistero di questa vicenda, ancora dopo decenni, continuano a fare fior di quattrini.

    Ebbene, il particolare talento dei due investigatori nel fare luce sulle vicende più oscure ed intricate questa volta li portò in Ciociaria, a Ripi, dove li aspettava un caso non meno strano degli altri di cui si erano occupati. L’automobile svoltò a sinistra, lasciando la Casilina, e imboccò via Meringo Alto.

    Il diluvio, dopo una breve sosta di qualche minuto, aveva ripreso più intenso e violento di prima.

    CAPITOLO 4

    La Fiat Coupé del professore si fermò lungo il ciglio della strada di via Meringo Alto. Ricordava benissimo dove viveva l’amico, nonostante i molti anni trascorsi dall’ultima volta in cui gli aveva fatto visita. Notò che aveva rifinito e arredato tutta la palazzina di tre piani in cui viveva, e sapeva da una conversazione telefonica di qualche tempo prima che si era trasferito dal piano superiore a quello intermedio. Vide anche, poiché era l’aspetto più vistoso che gli si presentava davanti, che il vecchio lavatoio, dall’altra parte della strada, dove ricordava le donne del paese intente a fare il bucato, era stato trasformato in un grazioso Museo dell’energia.

    Angelo e la moglie Rosa erano già sul piazzale ad aspettarlo. Quando il professore scese dalla macchina, i due gli andarono incontro per abbracciarlo, senza aspettare nemmeno che attraversasse la strada. I saluti furono carichi di affetto, con il sapore buono di rincontrarsi dopo tanto tempo. Il professore presentò Mattia ad Angelo e Rosa. Tutti e quattro, qualche minuto dopo, entrarono in casa.

    ― Caspita come si sente la tua erre moscia dal vivo! Non me la ricordavo! ― disse con un sorriso di burla il professore, non appena si accomodò sul divano.

    ― Perché, ti risulta che va via con il tempo? ― rispose Angelo, sorridendo a sua volta. Era un uomo di bassa statura, con i capelli mori e corti; qua e là ne spuntava anche qualcuno bianco, che però si notava pochissimo. Al lato del naso aveva un grosso neo, visibile sul volto anche da lontano.

    Indossava spesso dei jeans, insieme ad una camicia e ad una giacca, da cui emergeva il ventre un po’ prominente.

    La erre moscia

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