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Il mercante di reliquie perdute
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Il mercante di reliquie perdute
E-book329 pagine4 ore

Il mercante di reliquie perdute

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Info su questo ebook

Un'indagine di Sir Crispin Guest

«Imperdibile per gli appassionati di thriller medievali e romanzi storici.»
Booklist

Una grande saga

Condannato per tradimento, Crispin Guest ha perso tutto ciò che aveva: il titolo, la terra, il denaro e gli amici. Diventato un abile investigatore, può contare solo su se stesso per riabilitare la propria reputazione. Un giorno una ragazza bussa sconvolta alla sua porta: nella sua stanza è stato trovato un uomo morto, colpito da una freccia. Crispin inizia a indagare, scoprendo che la vittima era uno dei tre corrieri del re di Francia e aveva il compito di trasportare una reliquia destinata ad appianare i difficili rapporti tra Francia e Inghilterra. Gli eventi sfuggono rapidamente al controllo di Guest, che finisce per diventare uno dei principali sospettati per l’omicidio, dalle terribili implicazioni sul piano diplomatico. Mentre la tensione tra Francia e Inghilterra cresce, Guest dovrà svelare il complotto che si cela dietro il delitto, per salvare non solo il suo Paese, ma anche se stesso.

Il miglior thriller storico per il Times
Assassin’s Creed incontra Il mercante di libri maledetti
Un cavaliere investigatore indaga per le strade di Londra

Una grande saga
Nella Londra del 1300 la verità è tutta da dimostrare

«Un must per gli appassionati di mystery medievali e romanzi storici.»
Booklist

«Accattivante… L’audacia di Crispin Guest è assolutamente affascinante.»
Kirkus
Jeri Westerson
È nata a Los Angeles. Affascinata dalla storia medievale e in particolare da quella inglese, ha creato un proprio genere, in cui fonde il mistery medievale con il genere hardboiled, chiamato “noir medievale”. La saga che ha per protagonista Crispin Guest (di cui la Newton Compton ha già pubblicato La misteriosa morte del ladro di pergamene e Il mercante di reliquie perdute) è stata selezionata per il Times Award come miglior thriller storico.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2017
ISBN9788822704993
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    Anteprima del libro

    Il mercante di reliquie perdute - Jeri Westerson

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Postfazione

    Glossario

    Ringraziamenti

    1484

    Titolo originale: Serpent in the thorns

    Copyright © 2009 by Jeri Westerson.

    All rights reserved.

    Pubblicato in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)

    Traduzione dall’inglese di Luca Di Maio

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0499-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Foto di copertina: © CollaborationJS/Arcangel Images

    Jeri Westerson

    Il mercante di reliquie perdute

    Un’indagine di Sir Crispin Guest

    A Craig e Graham

    Capitolo 1

    Londra, 1384

    Carina, come una pastorella battuta dal vento. Dolce, ma un po’ ottusa. Crispin lo percepiva dal modo in cui faceva scorrere le dita screpolate sulla mano destra e dalla cura con cui pronunciava ogni parola. Sollevava il mento e separava le labbra, anche quando non parlava. Si sporse in avanti, mettendola a fuoco. «Parlatemi di nuovo del morto, signora. Con calma».

    Lei si sfregava le mani, umilmente, in modo frenetico, come se sapesse che sarebbe stata punita per questo.

    Crispin le osservò e chiuse gli occhi. La testa era un guscio d’uovo pronto a spaccarsi, e il minimo suono pareva infilzargli il retro delle pupille come aghi affilati. Guardò la caraffa di vino sullo scaffale. Un bicchierino per curare i postumi della sbornia?

    Era seduta su uno sgabello nell’appartamento in affitto di lui, una stanzetta sopra la bottega di uno stagnaio sui vivaci vicoli degli Shambles, tra i mercati e i chioschi dei macellai. Una delle imposte rotte veniva scossa dal vento molesto, che non poteva fare nulla per mitigare il crepitio del focolare fumoso nella stanza. Un tavolo, una sedia, un altro sgabello, un letto stretto e una cassapanca. Tutto affittato. Di suo non c’erano che gli abiti alle sue spalle, e non facevano chissà quale bella figura.

    «Ci sta uno morto nella mia stanza», disse lei roca, con accento del Southwark. Accentuava la pronuncia delle parole, facendo arretrare le labbra sui denti, mostrandoli spesso. Uno di quelli inferiori era grigio e scheggiato. «Livith non ci stava. Non ho potuto chiedere a lei. Ci sta sempre per spiegare, ma non ci stava».

    Lui si passò una mano sul viso, ma la testa gli faceva troppo male. Andò lentamente verso lo sgabello. «Chi è Livith?»

    «Mi’ sorella. Si prende cura di me. Io mi confondo. Lei spiega sempre».

    «Capisco», disse lui, comprendendo a malapena. Magari il vino non era una cattiva idea. Si diresse verso la dispensa. Versò una tazza, ma non per sé, e gliela porse. Lei fissò il vino, poi alzò lo sguardo su di lui. «Avanti», disse l’uomo. «Sembra che ne abbiate bisogno».

    Lei afferrò la tazza con le dita tremanti, facendo cadere qualche goccia di vino sul suo vestito blu sbiadito e sul grembiule. Tentò di sorridere. Un baffo di vino lo rese patetico.

    Crispin si sedette sulla cassapanca, con le mani a riposo sulle cosce. Sperava che in questo modo la stanza avrebbe smesso di agitarsi. «Perché siete venuta da me?».

    Lei fece una smorfia con le labbra. «Voi siete il Segugio, no? Ho sentito parlare di voi. Venite a capo delle cose. Dicono che prima eravate un cavaliere e che conoscete ogni sorta di materia».

    Lui agitò la mano, aggrottando le ciglia, ma anche questo gli dava dolore alla testa. «Lasciate perdere. Acqua passata. Adesso è la vostra situazione che mi interessa. Avete un problema e ve lo risolvo volentieri. Ma… mi faccio pagare per questo genere di cose».

    «Non sono riuscita a trovare Livith, così sono venuta da voi. Non dagli sceriffi. Mi fanno paura. Ho sentito che voi siete intelligente come lei. Come Livith. Voi sapete valutare le cose».

    «Sì, è vero. Ma lo faccio per un compenso. Capite?»

    «Livith non mi darà soldi».

    Nessuna sorpresa. «Dove si trova il morto adesso?»

    «Nella nostra stanza. Alla locanda della Testa del Re. Siamo sguattere. Ha una freccia dentro, no?».

    Una freccia? Crispin si raddrizzò. «Non l’ho ancora visto. Sapete chi è?»

    «No. Mai visto prima. Ma ora è morto».

    «Non temete. Farò del mio meglio per trovare chi l’ha ucciso».

    Lei drizzò la testa e fece l’occhiolino. «Ma io lo so già chi l’ha ucciso».

    L’uomo emise un verso di stupore ma, prima che potesse replicare con una domanda, la porta si spalancò.

    Crispin scattò in piedi, facendo muro tra la donna e l’intruso.

    Un ragazzo dai capelli rossicci varcò in fretta la soglia, sbatté la porta chiudendola con il catenaccio, e vi si appoggiò per riprendere fiato. Guardava Crispin da sotto un ciuffo di boccoli. Le lentiggini sgargianti contrastavano con la pelle pallida come un osso.

    «Jack!». Crispin si portò una mano sulla testa pulsante. «Per le dita dei piedi di Dio, che stai facendo?»

    «Mastro», disse il ragazzo. Lo sguardo rimbalzò sulla ragazza che sbirciava alle spalle di Crispin e poi, di nuovo, su Crispin. «Nulla. Nulla di che».

    Crispin fissò il suo garzone. Jack Tucker era un guaio, più di quanto un garzone avesse diritto di essere. Di sicuro era peggio di quelli che lo avevano servito in passato. Tucker faceva pena in quel ruolo: era a stento presente quando c’era bisogno, quasi sempre un fastidio e una bocca in più da sfamare. Non voleva un garzone! Non più, non se lo meritava. Ah, se solo sette anni prima Crispin non avesse ordito un tradimento. Se solo non fosse stato catturato dalle guardie reali. Se solo non l’avessero privato del suo titolo di cavaliere e delle sue terre. Se solo… se solo. Allora non starebbe vivendo sulle strade puzzolenti degli Shambles, sopra alla bottega di uno stagnaio, con un ladro come garzone e una sempliciotta come cliente.

    «Anche agli dèi piacciono gli scherzi», si lamentò.

    Jack fissava la caraffa di vino e Crispin stava per sgridarlo per l’interruzione, quando, al piano di sotto, la porta dello stagnaio vibrò con un tonfo sordo. Crispin attraversò la stanza e andò a spalancare le imposte della finestrella che dava sulla strada. Il fetore delle macellazioni e delle interiora arrivava fino alla sua camera, al secondo piano. Un ragazzo che trascinava polli in una gabbia di legno si dirigeva veloce alla porta accanto, dal pollivendolo, seguito da un uomo che reggeva per le zampe diversi conigli morti, facendosi strada nel fango con le lunghe orecchie degli animali che strascicavano a ogni falcata.

    Crispin si sporse dal davanzale. C’erano due uomini davanti alla porta dello stagnaio sotto di lui, e vi battevano i pugni.

    Si voltò di nuovo verso la stanza. «Per l’amor di Dio, Jack. Che hai combinato?».

    Jack fece spallucce, continuando a guardare la ragazza. «Vi chiedo perdono per avervi interrotto, signore».

    «Perché questi uomini ti stanno cercando?»

    «Una piccola differenza di vedute riguardo a una proprietà, diciamo».

    «Li hai derubati».

    Jack aprì la bocca. Le sopracciglia inarcate. «Perché è questa la prima cosa che pensate di me?». Si portò le mani ai fianchi. «Mi ficco nei guai e voi pensate che sono andato a tagliare borse».

    «Allora? È così?»

    «Che c’entra… ».

    Sotto la finestra, gli uomini grugnivano in attesa, e Crispin si sporse di nuovo a osservarli. Martin Kemp, il mite stagnaio padrone di casa, aprì la porta di botto e chiese educatamente spiegazioni. Al che gli uomini risposero. Crispin non riusciva a distinguere le parole, ma il volume delle voci aumentava mentre ogni fazione argomentava la propria situazione.

    La voce stridula che si era unita alle altre poteva appartenere solo alla moglie di Martin, Alice. Crispin sobbalzò a quel suono che gli penetrò i timpani. La sua presenza non fece che peggiorare le cose e, nonostante le proteste di Martin, alla fine gli uomini lo spostarono di lato e lo oltrepassarono. Tutti fecero le scale che portavano da Crispin, continuando a litigare.

    Jack scattò verso l’altra finestra che dava sul cortile del retro. «Scusate, mastro. Devo andare. Parleremo più tardi». Aprì velocemente le imposte e si voltò a guardare Crispin con aria mortificata. Precipitatosi fuori dalla finestra, Jack saltò sul palazzo accanto e sgattaiolò tra i tetti.

    Crispin chiuse entrambe le finestre e fece un sorriso contrito alla ragazza, che non parve capire o essere interessata a quanto stava accadendo.

    All’improvviso la porta tremò sotto i colpi dei pugni. Facendosi coraggio, Crispin levò il catenaccio e tirò verso di sé la porta, rimanendo sulla soglia con aria indignata. «E questo che significa?».

    Gli altri si fermarono all’istante. Evidentemente non si aspettavano Crispin né il suo accento raffinato. Due estranei – uno magro e dai capelli d’oro, l’altro basso e robusto con folte sopracciglia scure – stavano sul pianerottolo accanto allo stagnaio e alla moglie. «Vi chiediamo perdono, signore», disse il biondo facendo un inchino, «ma stavamo inseguendo un ladro e abbiamo ragione di credere che sia venuto da queste parti».

    Con un calcio, Crispin aprì ancora di più la porta, cosicché potessero vedere la stanza spoglia. «Vi pare che si trovi qui?».

    Osservarono la ragazza – gli occhi spalancati e la bocca aperta per lo stupore – e poi di nuovo Crispin.

    «No, signore», rispose l’uomo dalle sopracciglia folte. Scrutò nuovamente la camera e fece un cenno rassegnato.

    Alice, la moglie dello stagnaio, spingeva. «È qui. Fidatevi».

    L’uomo dalle sopracciglia folte aggrottò la fronte verso Alice e, poi, verso Crispin.

    «Signore», disse, «se quel ragazzo si trova qui, vi chiediamo di consegnarcelo. È un ladro e stiamo cercando di fargli avere la giusta punizione».

    «Sciocchezze. Il mio appartamento è tutto qui. Vorreste forse insinuare che si nasconde nelle pareti?».

    Come se fossero una persona sola, si chinarono tutti per guardare sotto il letto di paglia: l’unico posto plausibile per un nascondiglio.

    Un vaso da notte solitario giaceva nell’ombra.

    L’uomo dalle sopracciglia folte sbuffò per la delusione e tutti si raddrizzarono.

    Alice si mise in posa. «Lo impiccheranno alla forca più alta, se l’avrò vinta io».

    «Taci, cara», disse lo stagnaio a mezza bocca. Il cappuccio di cuoio gli avvolgeva la testa e lui fremeva per l’agitazione.

    Gli uomini parlottarono tra loro finché quello dalle sopracciglia folte disse: «Non vi disturberemo ulteriormente, signore. Le nostre scuse. Dio vi guardi».

    Fecero un inchino a lui e alla ragazza, rivolsero uno sguardo severo ad Alice e, lentamente, si ritirarono per le scale.

    Martin e Alice rimasero sul pianerottolo.

    Crispin gettò un’occhiata alla ragazza. I clienti erano ben pochi e – come al solito – era in ritardo con l’affitto. Se la giovane fosse stata in grado di rivelargli il nome dell’assassino, come aveva detto, questo avrebbe comportato una ricompensa da parte dello sceriffo. Le studiò il viso e strinse i denti.

    Sempre che ci fosse davvero un morto.

    Provò a chiudere la porta, ma Alice Kemp allungò una grande mano, fermandola. «È la terza volta questa settimana che il ragazzo si mette nei guai», disse facendo salire il tono della voce come una spiritata. «Dovrei chiamare lo sceriffo».

    «Su, cara», disse Martin. La corporatura esile dell’uomo sembrava non poter competere con la grassezza di Alice. Crispin sapeva che lo stagnaio era capace di agitare un martello con grande abilità, eppure non pareva in grado di gestire sua moglie. «Non ce n’è bisogno. Crispin sa bene come gestire qualsiasi difficoltà. Non è vero, Crispin?».

    L’ultima parte era una preghiera e Crispin annuì. «Sì, signora Kemp. Farò del mio meglio».

    «Il vostro meglio! Ah! Il vostro meglio fa pena». Scrutò la ragazza. «E meglio che questa sia una cliente, Crispin Guest, perché non ammetto puttane sotto il mio tetto».

    «Signora!», borbottò lui, avvicinandosi minaccioso con il suo naso affilato. «Questa giovane donna è una cliente», disse a denti stretti, «ma non per molto, se continuate così. Se volete il vostro affitto per tempo…». Fece un gesto con la mano aperta verso la porta, invitandola a uscire.

    Martin impallidì e strattonò la moglie via dalla soglia.

    Crispin sbatté la porta e tirò il catenaccio. Sbuffava dalle narici, mentre ascoltava i loro passi scendere e svanire.

    Contò fino a dieci e si voltò, provando a sorridere, ma la testa gli pulsava e non glielo permise. «Mi scuso», disse rigidamente. «Erano il mio padrone di casa… e sua moglie». Pronunciò l’ultima parola scoprendo i denti. Gesticolò a vuoto verso la finestra chiusa. «E il ragazzo era Jack Tucker. Insiste per spacciarsi come mio garzone, ma temo che sia più portato per fare il tagliaborse».

    La ragazza non mutò espressione. Sollevò giusto il naso all’insù. Aveva gli occhi grigi, come quelli di Crispin, ma più slavati dei suoi, grigio ardesia. E, nonostante la fissità dello sguardo, sembrava ci fosse un minimo di barlume dietro quegli occhi.

    Lasciò perdere.

    «Stavamo parlando di un morto», disse con calma. «E del suo assassino. Voi dite di sapere di chi si tratta».

    «Livith non c’era», ripeté.

    «No, non c’era. Me l’avete detto». Gemette e chiuse piano gli occhi. Ci sarebbe voluta tutta la giornata. «C’è qualcun altro a conoscenza di questo morto in camera vostra?».

    Lei scosse la testa. «Volevo il vostro aiuto».

    «Ce l’avete. Chi l’ha ucciso?»

    «Non dovrei dirlo…».

    «State proteggendo qualcuno?»

    «Non è questo».

    Si succhiò l’indice sporco.

    «Se sapete chi è stato, me lo dovete dire».

    Si corrucciò e le lacrime presero a rigarle le guance di mele. Si tolse il dito dalla bocca e lasciò cadere la mano sul suo grembo. Con voce sottile disse: «Sono stata io».

    Capitolo 2

    Crispin fece del proprio meglio per assumere un’espressione blanda e non minacciosa. Osservò la figura esile della ragazza, da capo a piedi.

    Era di una spanna più bassa di Jack Tucker, il quale, a sua volta, era un palmo più basso di Crispin. «Lo avete ucciso voi

    «Sine. Per forza, no? Ci stavo solo io». Si asciugò il naso umido con le dita.

    Lui si sistemò sulla sedia, avvicinandola a lei, e la guardò negli occhi.

    «Non significa necessariamente che l’abbiate ucciso».

    «Invece sì!». Le grandi pupille vagavano come lampi qua e là nella stanza, senza mai trovare pace. «Devo essere stata io».

    «Vi ha aggredita?»

    «No».

    Notò che le tremavano le labbra e che una lacrima le scorreva feroce sulla guancia, portandosi dietro una scia sporca. «Credo sia meglio andare nel vostro appartamento e cercare di capirci qualcosa. Forse vostra sorella è tornata».

    «Sì!». Fece un balzo e lo spinse in direzione della porta. «Forse è tornata».

    Tolse il chiavistello alla porta e attraversò in fretta la soglia. Crispin la osservò scendere le scale. Si sistemò il mantello sulle spalle, chiuse la porta e la seguì con passo pesante.

    Le ombre di metà mattina disegnavano trame sulla via, lasciando che qualche pozzanghera catturasse il cielo blu, mentre le altre riflettevano un grigio spento. Un uomo con un carretto di legnetti sistemati alla rinfusa portava il suo carico per le strade piene di fango, bestemmiando tutti i santi in modo colorito. Un cane gli annusò i talloni e poi trotterellò in avanti per alzare la zampa sul primo gradino delle scale di Crispin.

    «Sbrigatevi!». La ragazza stava ballando accanto a una pozzanghera ghiacciata davanti alla bottega dello stagnaio. «Livith potrebbe essere tornata e sarà arrabbiata nera con me».

    «Per averle lasciato un cadavere in camera?», mormorò Crispin. «Lo credo bene».

    La seguì lungo gli Shambles, per carreggiate melmose e vicoli bui che puzzavano di fango. Le nuvole, che si erano aperte da poco, si richiusero rendendo la strada buia e minacciosa di pioggia. Crispin conosceva la Testa del Re, una locanda in un edificio leggermente migliore del suo ritrovo preferito, la Zanna del Cinghiale su Gutter Lane. Non considerava quest’ultimo una taverna elegante, ma i proprietari erano i suoi amici Gilbert ed Eleanor Langton, e ciò ne faceva un posto piacevole. La Testa del Re era un po’ più malfamata, vicino al molo; meno invitante, sempre che non si volesse affogare i dispiaceri nel vino annacquato o in una birra ancora più piccola.

    Proseguirono verso sud. Gli uomini ben vestiti e i mantelli con la pelliccia diminuivano, sostituiti da figuri grigi e anonimi, incupiti sotto luridi cappucci di pelle di gatto. Persino i cavalli erano diversi via via che si avvicinavano al Tamigi. Gli splendidi manti dei cavalli da monta cedevano il passo a fragili somieri che tiravano i carretti con movimenti strascicati, e con le costole in evidenza sotto i fianchi opachi. I ratti, invece, sembravano in salute e con il pelo lucido e, in alcuni casi, grossi come maialini. Passeggiavano lungo le fondamenta, cercando cibo per ore e ore.

    Quando Crispin e la ragazza ebbero superato un recinto stretto, l’edificio emerse dalla malinconia dell’asfissiante fumo londinese e dalla nebbia salmastra attorno al Tamigi. Un palazzo grande e squadrato, le mezze palizzate scure sembravano rughe e le tegole afflosciate del tetto sopracciglia. Un ragazzo non più grande di Jack stava ramazzando la soglia con una scopa rattoppata in un pigro movimento avanti e indietro. La giovane non lo salutò, né il ragazzo alzò lo sguardo. Invece, lei fece attraversare il cortile a Crispin, portandolo nel retro dell’edificio, nelle stalle. L’aria era pungente per l’odore di sudore di cavallo, di fieno fangoso e di sterco. Un ratto guardò Crispin muovendo i baffi, si voltò e fuggì su per il muro prima di scomparire sotto una tegola.

    La ragazza si girò di nuovo verso Crispin per assicurarsi che la stesse seguendo ancora, scese le scale che portavano in un podere a un livello più basso e aprì una porta. Il passaggio era buio, a eccezione di una luce leggera intorno agli infissi di una porta. La ragazza la aprì e si fece da parte. Crispin sentiva odore di fumo e muffa. Le pareti di pietra erano striate per l’umidità. Una finestrella semicircolare con le sbarre d’acciaio li guardava di traverso sopra le loro teste, facendo entrare solo sponde di sfumata luce blu e pioggerellina. La finestra era al livello della strada, e l’unica vista che offriva a Crispin era il terreno sdrucciolevole e piedi che andavano veloci.

    Una candela accesa e il focolare – se così si poteva chiamare quel mucchietto di pietre e bastoncini al centro del pavimento – bruciavano svogliatamente. Il fumo saliva verso il basso soffitto ad arco, faceva dei mulinelli tra i pilastri e serpeggiava fino alla finestra aperta.

    Nel ripostiglio, barili accatastati e sacchi gonfi che lasciavano appena lo spazio per un giaciglio di paglia ammassata, un vaso da notte scheggiato, un tavolo, una panca, due ciotole e due cucchiai di legno.

    E un cadavere nell’angolo.

    Nessun segno di colluttazione o d’irruzione. Niente era fuori posto o risultava strano. Sembrava semplicemente che l’uomo fosse caduto nel punto in cui era stato colpito. Aveva la schiena appoggiata alla parete, le gambe stese davanti a sé, la testa che penzolava di lato. L’asta di legno di una freccia gli fuoriusciva dal petto, proprio all’altezza del cuore. Un colpo preciso. Solo venti centimetri di freccia con impennaggio di falco sbucavano dalla pellanda zuppa di sangue. Crispin s’inginocchiò per toccare la gola dell’uomo, ma la pelle livida e gli occhi fissi e asciutti gli dicevano che non avrebbe sentito alcun battito. A parte la puzza di ruggine del sangue, l’uomo sapeva di acqua alla lavanda. Crispin prese una delle mani senza vita e la esaminò alla poca luce che c’era. Le unghie erano pulite e tagliate. Accanto a lui giaceva una grande borsa contenente una scatola di legno.

    Non si trattava di un furfante in cerca di divertimento. Quella pellanda inquartata con il campo di gigli blu e dorati fece accapponare la pelle a Crispin. Non era un francese qualsiasi: la sua livrea rivelava che veniva dalla corte di Francia.

    Crispin si girò per guardare la ragazza alle sue spalle. «Avete aperto la borsa?».

    Lei scosse la testa.

    Lui si asciugò il sudore dal labbro superiore. Un corriere, forse. Un corriere morto. Impossibile trovare un aspetto positivo nella faccenda.

    Udì un rantolo e si voltò. Una donna si stagliava in controluce nel corridoio. «Per le palle di San Cuthbert, che succede?», urlò.

    La sempliciotta corse tra le braccia della nuova arrivata, sprofondando in un forte lamento. Il volto squadrato della donna si deformò in un’espressione scioccata, e trascinò la ragazza all’interno della stanza cercando di zittirla. Le mani tremanti le coprivano la bocca.

    Crispin si alzò traballando. «Siete voi Livith?».

    La donna strinse contro il petto la testa della sorella, che si calmò visibilmente e si accoccolò. La sua bocca si aprì, ma non nel modo tardo della ragazza. Le labbra umide erano vermiglie, quasi quanto le macchioline scure sulle guance. Il viso spigoloso – non morbido e tondo come quello della sorella – giocava con i chiaroscuri, toccato da lunghe sponde sferzanti di capelli biondo cenere. E gli occhi. A Crispin piacevano quegli occhi, con un’ombra color nocciola al posto del grigio scialbo della ragazza più giovane. Emanavano intelligenza, persino sotto quell’evidente paura. «E voi chi diamine siete? Che avete combinato?»

    «Sono Crispin Guest. Mi chiamano il Segugio».

    L’inarcatura delle sopracciglia mostrò apprezzamento.

    Lui guardò di nuovo il cadavere. «Non l’ho ucciso io. Vostra sorella è venuta a chiamarmi. Crede di aver ucciso quest’uomo».

    Livith osservò il corpo ricurvo nell’angolo, con l’asta della freccia che adesso risplendeva per un raggio di sole di passaggio.

    «Per le lacrime di Gesù!», sibilò. Spinse la sorella via dal suo grembo e la guardò in faccia. «Stupida che non sei altro! Non potresti averlo ucciso tu. Lo sai benissimo!».

    «Ma ci stavo solo io qui, Livith, e tu no…». Soffocò in un gemito e si mise a singhiozzare.

    «Ora sono qui». Strinse a sé la ragazza e si rivolse a Crispin. «Come avrebbe fatto a colpirlo?».

    Crispin diede un’occhiata svogliata alla stanza. Non si aspettava di trovare un arco. «In qualche modo, vostra sorella ha distorto la realtà. Ma c’è una verità qui. Ed è anche seria».

    Livith sistemò la ragazza sulla panca e si voltò. «Si chiama Grayce».

    Crispin fece un inchino malfermo. «Vi chiedo scusa. Non si è presentata…».

    «E voi non vi siete preso la briga di domandare».

    Lui non contestò. Annuì e si massaggiò gli occhi pesanti con le nocche.

    «Sei ubriaco. Che razza di bell’aiuto». La donna si mise una mano sul fianco, il mento alto. Persino una macchia di sporco sul naso non ne diminuiva la bellezza, anche se Crispin non gradì quello sgarbato passaggio di tono.

    Si raddrizzò la mantellina sulle spalle. «Non sono ubriaco. Ieri lo ero. Oggi… ho solo quei postumi velenosi».

    Lei grugnì. «Il grande Segugio».

    Lui sospirò abbattuto. «Conosci il morto?».

    Livith incrociò le braccia e diede una rapida occhiata al cadavere, prima di scuotere la testa. «Mai visto prima».

    «E comunque, ubriaco o no, io so che quest’uomo è un corriere francese. Avete idea del guaio in cui vi siete cacciate con questo morto nella stanza?»

    «Sto cominciando a rendermene conto». Si mangiava le unghie.

    Lui infilò i pollici nella cintura, picchiettando sul cuoio. «Tua sorella ha ammesso di averlo ucciso».

    «Ma non è vero! Cristo!».

    «Così sembrerebbe. Ma lo sceriffo non sarà comprensivo come me».

    Il disprezzo defluì lentamente dai lineamenti severi della donna. «E allora che facciamo?»

    «Sto riflettendo». Si voltò di nuovo verso il morto e poi osservò la finestra. «Che ragione aveva di venire qui?»

    «Era ubriaco?», suggerì Livith.

    «Oppure stava cercando qualcuno, magari, ed è entrato nella stanza sbagliata».

    Livith seguì il suo sguardo e indicò la finestra. «La finestra.

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