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I giorni che non conto più
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I giorni che non conto più
E-book386 pagine5 ore

I giorni che non conto più

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Info su questo ebook

È una storia d'amore. Ma, soprattutto, di rinascita. Sole ama Thomas. E la vita. Lungo il suo cammino, e quello per Santiago, impara ad amare anche se stessa. Tutti i grandi percorsi sono il risultato di un susseguirsi di decisioni, piccole e grandi, di un'evoluzione che s'intraprende quando alcuni fili si spezzano e ci si trova rasi al suolo. Bisogna toccarlo per cominciare a risalire. È necessario avere il coraggio di affrontarlo per essere finalmente liberi. È un libro colmo di emozioni, parte della vita di esseri umani sconosciuti, che per un breve periodo di tempo hanno intersecato e unito le loro vite, i loro corpi e le loro anime, in un posto chiamato universo. Più ci si avvicina ad osservarle e a percepirne l'energia, più se ne afferra l'importanza. Si comprende quanto siano difficili da gestire le emozioni, quanto la vita sia imprevedibile e meravigliosa. Alcune storie sono verità e giustizia, gioia e dolore: sono l'amore condannato all'amore. Di cui, in ogni caso, sarebbe un delitto privarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ott 2019
ISBN9788831643108
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    Anteprima del libro

    I giorni che non conto più - Silvia Federica boldetti

    sarà.

    Prefazione di Stefano Laghi

    Ho avuto il piacere di conoscere Silvia alcuni anni fa, giovane assistente ai corsi di pasticceria che si affacciava in un mondo tutto nuovo, per lei e per le sue abilità.

    Ben presto, ho capito che quella giovane ragazza aveva potenzialità fuori dal comune, una sorta di iper capacità di capire le cose e farle sue, a tal punto da sviscerarle talmente bene che mi stupiva ogni volta. Come mio solito fare quando incontro un talento naturale, senza che me lo chiedesse, ho cercato di aiutarla più volte nel suo percorso professionale: volevo accompagnarla nel diventare un albero, grande e rigoglioso, affinché le potenzialità che avevo intravisto, diventassero visibili a tutti, affinché tutti ne potessero godere come come del fresco sotto l’ombra delle fronde piene di vita, di foglie e di fiori.

    Il nostro rapporto si è consolidato, così, negli anni; è cresciuto sempre di più, tanto che oggi è come fosse la sorella che non ho mai avuto.

    Considero Silvia una persona meravigliosa, con una energia molto potente ed un’intelligenza fuori dal comune; sentirla emozionata e felice, piena di speranza per un amore stupendo appena arrivato nella sua vita, mi ha fatto capire il bisogno che aveva di esprimersi anche in quei meandri quasi inesplorati: un universo che forse aveva sfiorato più volte, ma con risultati che non ha mai definito idilliaci. Ho compreso quanto avesse bisogno di amare ancor più di essere amata, quanto era grande la sua necessità di avere un punto fisso, un approdo sicuro dopo tutto il suo girovagare nel mondo e dentro se stessa. Era arrivata, finalmente, ad un punto magico, dove le decisioni, anche le più piccole, scrivono la storia della propria vita. Aveva deciso di amare e di lasciarsi andare, di non ragionare più con quel computer che si trova al posto della testa, seguendo unicamente il cuore.

    Mi ricordo ancora, un giorno, mentre mi parlava di come si sentiva e di come percepiva i sentimenti crescere dentro di lei, quanto rise quando gli spiegai la mia versione dell’amore utilizzando tre ciotoline di ketchup, avanzate da un aperitivo.

    I giorni passavano, l’amore cresceva ed i progetti prendevano forma; decine di volte mi ha raccontato idee e programmi, man mano cambiati o perfezionati, perché, tra le mani, le si stava disegnando la vita con una forma, sino a quel momento, anche per lei sconosciuta. Si trovava in uno stato di grazia, a livello energetico, talmente alto, che attraeva a sé un insieme di nuove opportunità e nuove proposte di collaborazioni, da avere il calendario senza alcuna giornata libera.

    Un bel giorno, tutto cambiò.

    Leggendo il libro, anche se Silvia ha deciso di creare una storia esemplificativa, mantenendo però sentimenti, sensazioni e alcuni riferimenti reali, si capisce che, come Sole, cadde in un limbo. Un precipitare che la portò, molto velocemente, in uno stato catatonico mentale, incredibile da pensare per una persona come lei, dotata di una capacità di ragionamento immediato e risolutivo. Di colpo, si trasformò totalmente in un’altra persona. Nemmeno io la riconoscevo.

    Silvia, per giorni e giorni, ha cercato di capire il perché, ha cercato di spiegarsi come fosse potuto succedere; per giorni è rimasta appesa ad un filo in balia di una risposta, una decisione che non le spettava, ma le pendeva addosso. In quei giorni l’ho vista spogliata di ogni difesa, senza alcuna capacità di reazione e, soprattutto, ho letto nei suoi occhi la paura, l’enorme paura di smarrire il cuore, come a voler dire: «se lo perdo, non ricapiterà mai più».

    Questo libro è il risultato di una serie di decisioni, piccole e grandi, di un’evoluzione che Silvia ha intrapreso dopo che quel filo si è spezzato.

    È un libro colmo di emozioni, parte della vita di esseri umani sconosciuti che, per un breve periodo di tempo, hanno intersecato e unito le loro vite, i loro corpi e le loro anime, in un posto chiamato universo. Da fuori e dall’alto del cielo, per chi non le vive, sembrano avere poca importanza, ma più ci si avvicina ad osservarle e a percepirne l’energia, più si afferra la loro importanza e la comprensione di quanto l’emotività possa essere complicata da gestire.

    Sono sicuro che più di una persona si rispecchierà in questo racconto, un amore come tantissimi altri, una storia che non sarà stata la prima né l’ultima; poiché le persone s’incontrano e si vivono e certe relazioni entrano nella carne, s’impastano con la passione e arrivano dritte al cuore. Sono storie di verità e giustizia, gioia e dolore: sono l’amore condannato all’amore.

    Stefano Laghi

    Introduzione

    «Del tuo libro, l’immagine che più mi resta viva nella mente è quella di Sole che non è ne bruco né crisalide, ma è una bellissima farfalla. Questa farfalla è l’unico elemento colorato in questa copertina, con il suo colore, fucsia porpora. Durante questo suo trasformarsi, durante questo percorso, anche da bruco, lei sfiora tante persone, che però, per un motivo o per l’altro, non sanno schiudersi, incapaci di aprirsi al suo amore.

    È per questo che tutte le altre farfalle, un po’ confusionarie anche nel disegno, sono solo una linea, molto etera, che tende a dissolversi e a incasinarsi, come un gomitolo quando si srotola sul pavimento: loro non hanno ancora capito il cammino da percorrere.

    Al contrario, Sole ha raggiunto questa consapevolezza e, con la sua scia colorata, va a toccare tutte le altre farfalle incontrate nel viaggio, lasciando ad ognuna di loro qualche frammento di amore che inevitabilmente si porteranno con loro per sempre, lungo il sentiero che le aspetterà.

    Perché lei, con il suo essere variopinta, la sua energia, la voglia di vivere e di dare, inizia un volo fluido, omogeno e senza linee spezzate: non come quello spigoloso e incerto di tutte le altre.

    È un volo libero, di chi ha raggiunto una nuova consapevolezza e la certezza di avere una forza interiore enorme. In questo suo volteggiare disegna un cuore, perché l’amore che porta dentro colorerà sempre di più la sua vita, e chi la incontrerà e capirà veramente chi è e come è realmente, non potrà restare indifferente a tutto questo suo amore.

    Io, il tuo libro, l’ho visto così». (Giulia Riva)

    Giulia Riva è un’amica ed è una artista. Quando ho deciso di scrivere, la prima persona a cui ho pensato per la copertina è stata lei. Non so spiegare il perché, sono quelle cose che senti, annesse a quelle coincidenze dell’essere proprio lei ad avermi consigliato il libro di Coelho, prima della partenza. Allora, partivo solo con il cuore colmo e anche un po’ pesante, incamminandomi per Santiago con la voglia e la speranza di riuscire a rinascere. Di scrivere, non avevo nemmeno l’idea.

    Quando ho schiacciato l’ultimo punto dell’ultima pagina, emozionata, esaltata e felice, le ho inviato la bozza affinché la leggesse, senza nessuna ulteriore indicazione. Mi piaceva l’idea che, attraverso il suo modo di comunicare, tratto e pennello, potesse dare una seconda vita e interpretazione alle mie parole. Non le avevo messo confini né dato fili da seguire, ero curiosa di vedere quale fosse l’anima e il messaggio che sarebbero trapelate da tutto questo nero su bianco.

    La copertina l’avete vista, e la bellezza di un libro credo stia nelle diverse emozioni e immagini che ciascun lettore ne estrapola. Nelle sensazioni, nel ritrovarsi tra le parole e interpretarle, nel riconoscersi in un personaggio o in una situazione. Nel dare una propria forma ai volti, ai luoghi e ai momenti.

    Non voglio dirvi nulla attraverso i miei occhi, perché le prossime pagine sono uno specchio abbastanza grande di come vedo il mondo e le emozioni.

    Spiegarvi la copertina ritenevo fosse importante e, ascoltando il messaggio che vi ho riportato, sono scoppiata in lacrime.

    Spero che questa storia possa lasciarvi una proiezione altrettanto meravigliosa, parola dopo parola, toccando corde molto più in profondità della vostra pelle e facendovi innamorare di voi e della vita. Perché tutto, ma proprio tutto, parte da lì.

    1.

    «Sto arrivando, sono ai piedi della salita».

    M’infilo le prime scarpe che trovo e il giaccone e mi avvio per le scale.

    Sono brasata, rientrata dall’ennesimo viaggio di lavoro in giro per l’Italia meno di un’ora fa, ho avuto giusto il tempo di farmi una doccia al volo; la stanchezza delle tante ore in piedi in un laboratorio che profuma di farina e di burro, dell’aver la valigia sempre pronta e del guidare troppe ore in giro per la penisola, alla fine della settimana si fa sentire, ma un suo messaggio sa spazzarla via come se non esistesse affatto.

    Questo periodo che non ci siamo visti mi è parso interminabile, anche se ci siamo sentiti ogni giorno e in ogni momento possibile: considerando il fuso di dodici ore e la difficoltà delle comunicazioni per le sue giornate a girovagare e scoprire la Nuova Zelanda su un van e le mie a lavorare e poi a dormire mentre lui è sveglio, praticamente era come essere insieme in ogni momento in cui entrambi avevamo gli occhi aperti. Perché la vita è tutta una questione di priorità, e il modo, se si vuole, in fin dei conti si trova sempre. Non importa quanta distanza fisica, o reale, sia quella da colmare: noi, ad ogni modo, avevamo trovato il nostro.

    Entra dal cancello con la sua Peugeot sgangherata. Ogni volta che la vedo sorrido quando appare con questa scatolina nera, dato che trascorre le sue giornate lavorando con le macchine con la M maiuscola, il cui rombo ti risuona nella testa e crea un gorgoglio stupendo nella pancia. Ma il solito detto del calzolaio, vale anche questa volta, un po’ come me che non scarto un uovo di Pasqua da anni, pur facendone migliaia ogni stagione. L’aria è fredda, è inizio dicembre, e dopodomani è prevista una nevicata epocale, anche se per ora, dei fiocchi non se ne vede nemmeno l’ombra e il cielo è terso e pieno di stelle. Respiro. È sera ma è già buio pesto, penso un attimo all’estate, a quando le giornate saranno lunghe e calde, piene di luce. Mi chiedo se saremo insieme da qualche parte.

    Sono letteralmente emozionata come i bambini la notte di Natale, come quando aspetti così tanto qualcosa che nel momento in cui arriva, ti chiedi come sia possibile essere riusciti a resistere tanto a lungo. Che poi, se mi fermo a riflettere, è passato un mese. Sono solo una delle manciate di giornate che hanno composto i miei trent’anni di vita, eppure, mi sono sembrate eterne. Perché in certe occasioni ti rendi conto di quanto il tempo possa essere relativo, lunghissimo, eterno, veloce e immediato a seconda di ciò che fai. O di quello che aspetti. Questa volta camminava lento, come una lumaca in salita, per arrivare fino ad oggi. L’attesa del piacere è essa stessa piacere. Non so se il filosofo avesse ragione ma, sicuramente, questo aspettare ha la potenza di amplificare le emozioni nel momento in cui l’attimo che hai aspettato con ardore ti si precipita davanti.

    Scende dalla macchina, con i suoi capelli scompigliati, mossi e scuri. Ha i soliti jeans morbidi, le scarpe da ginnastica rosse fuoco e la felpa grigia con le scritte gialle. Insomma, ho capito da tempo che il come vestirsi non è una delle sue questioni esistenziali. Appena fuori dalla sua scatoletta nera si lega la chioma ribelle a cipolla: con i capelli legati così, come li definisco da sempre, mi piace da impazzire, lui lo sa. Ci fissiamo senza proferir parola e mi si avvicina, ci abbracciamo in uno di quegli abbracci che sanno catturare tutta l’essenza di una persona, come il koala con il suo eucalipto, e mi solleva, portandomi fino alla porta di casa in braccio. Per me questo è un tabù: non so esattamente spiegare il perché, ma è come se avessi bisogno di sentire il terreno sotto i piedi, il controllo del mio peso, il poter scegliere se fare un passo avanti, uno indietro o star ferma, mentre quando qualcuno ti solleva, ti ritrovi letteralmente nelle sue mani... Ad ogni modo, non lo permetto quasi a nessuno, ma a lui si. Come in un mucchio di altre situazioni: un esercito di ma, di esperienze che non ho mai provato e di eccezioni, piccoli sassolini di una spia accesa che mi fa intuire di essere in un terreno emotivo inesplorato. Non so ancora definirlo e sto a malapena cominciando ad accorgermene.

    Saliamo in casa e non riesco a smettere di sorridere. Era troppo tempo che non sentivo la sua voce, l’avevo quasi scordata, se non fosse stato per un vocale che mi aveva mandato dicendomi «Ma come Sole non ti ricordi che suono ha la mia voce?». Ricordo ancora quella sera, al ristorante, quando avevo ricevuto il suo messaggio: ero rimasta per due ore con l’espressione da scema di quando sei innamorata ma non lo hai ancora ammesso. Uno di quei piccoli gesti che finisci per ascoltare in loop, poiché capaci di farti percepire la vicinanza dell’altro nonostante i diciottomila chilometri di distanza.

    Certe persone hanno il potere di farci diventare luminosi senza rendersene conto. Le amiamo per come ci fanno sentire, per l’amore che riusciamo a dargli in modo totalmente naturale senza chiedere nulla in cambio, senza amarle per essere ricambiati. Semplicemente perché se tenessimo dentro quell’impulso, sarebbe privare l’universo di un’energia strepitosa. Eppure, è lo stesso sentimento che talvolta è una condanna, perché ti rende cieco di fronte al fatto che le visioni possono essere un miraggio. Dietro un’immagine idilliaca può nascondersi una discarica capace di rovinare tutto il paesaggio, un’onda pronta a sommergere un castello di sabbia in riva al mare senza possibilità alcuna di proteggerlo.

    «Sole, mi sei mancata» dice fissandomi negl’occhi e cambiando espressione tutto d’un tratto, come se si concentrasse per esprimere i propri sentimenti.

    «Anche tu Thomas» gli rispondo con la stessa intensità, con voce dolce, come se quelle tre parole contenessero tutto quello che ho provato e pensato durante i troppi giorni distanti.

    «Ah, resto anche domani, vado via domenica mattina» aggiunge facendo finta di dare poco peso alla frase.

    «Davvero?».

    Sono stupita e senza parole: non era mai successo il riuscire a stare insieme per tutto un week end senza nient’altro che noi.

    «Davvero. Sono atterrato lunedì ed è già stato complicato aspettare fino ad oggi per vederti, sapendo che i chilometri in mezzo erano solo 200». Mi sorride continuandomi a guardare con i suoi occhi color nocciola, storcendo la bocca nel suo solito modo buffo. «Ti ho portato una cosa, anzi due: questi sono perché hai sempre freddo» e tira fuori dalla tasca un paio di guanti bordeaux di lana, semplicissimi, intrisi di un pensiero che mi pare stupendo. Quei gesti che fa chi ti conosce e vuole in qualche modo proteggerti. «…e poi c’è lui, perché volevo che avessi qualcosa di buffo che ogni volta che guardi ti ricordasse me».

    Dalle sue mani sbuca un piccolo pupazzo di un kiwi, con il becco lungo, il pelo marron-grigio arruffato; se gli schiaccio la pancia, emette il verso. Un po’ come Groot, dice solo quello, ma con quel suono mi racconterà un sacco di cose: già lo so.

    «Oddio ma è stupendo! È un kiwi! Che meraviglia, prima o poi li vedrò dal vivo! Ci andremo, promesso? Ma… come si chiama?». Sono entusiasta come una bambina.

    «Certo che ci andremo Sole, si chiama… Beppe!».

    «Beppe?! E perché?» da dove diavolo gli sia saltato fuori un nome del genere per un pupazzo, non ne ho idea.

    «Boh, perché è il primo nome che mi è venuto in mente e credo gli si addica con quel suo pelo ingarbugliato, goffo, il becco a punta e… senti, non chiedermi perché, ma ho pensato che dovessi averlo appena l’ho visto…» ribatte come fosse ovvio.

    «Grazie, lo amo già» perché tutto ciò che esula la normalità non può avere nulla di comune o nascere da circostanze ovvie. E questo piccolo kiwi è perfetto come riflesso di quello che siamo, nome compreso.

    Tengo Beppe in mano mentre mi avvicino a lui e finalmente lo bacio come sognavo di fare da troppi giorni. Lui mi abbraccia e mi respira, inebriandosi della mia aura come per non lasciarla andare e tenersi l’essenza, anche per quando non gli sarò fisicamente così vicino.

    «Be’ mi butto in doccia, vestiti che andiamo a mangiare» dice frettoloso mentre entra in bagno.

    «Sì, ho già prenotato nel solito posto, avviso che siamo un po’ in ritardo» rispondo preparata e precisa, come sempre.

    «Brava… anzi, avvisa che faremo tardi e… raggiungimi nella doccia» aggiunge mentre si riaffaccia dalla porta socchiusa, sbucando solo con la testa e con una mano.

    «Quello non dovevi nemmeno dirmelo, è un mese che ho voglia di te» e mi tolgo la maglietta seguendolo in bagno e chiudendomi la porta alle spalle. Finalmente, tra il vapore e la schiuma, ci siamo solo noi, nello stesso metro quadrato di spazio.

    Nel solito ristorante ormai ci salutano con il sorriso, siamo quelli buffi, lui alto, vestito come viene e con qualche tatuaggio che esce dalle maniche, che io adoro, e io piccina, con i capelli colorati e naturalmente buffa senza sforzarmi.

    La luce è calda come sempre, i tavoli apparecchiati con le tovagliette di carta paglia e il tovagliolo a quadrettoni legato con uno spago decorato con un fusillo crudo. Il menù con la proposta del giorno è scritto sulla lavagna nera con il gesso e le pareti sono di pietra. Le salette sono piccole, niente affatto rumorose perché contengono al massimo una quindicina di persone. L’ambiente sembra famigliare e ricorda un locale tipico di una cittadina di campagna, ma ogni piatto è preparato a regola d’arte, nella semplicità di una cucina piemontese con qualche proposta gourmet e di pesce.

    Scherziamo con i camerieri, lui fa un po’ lo stronzo ed io lo dico alla ragazza che ci segue sempre per le ordinazioni. Sorride a lui, ma so che è dalla mia parte. Parliamo e ci punzecchiamo, faccio la finta gelosa e ci perdiamo a vicenda nei nostri sguardi.

    Ordino pesce, lui carne. Qui, ormai, arrivano preparati quando vengono a spiegarci il menù, perché sanno che mangiamo in modo praticamente complementare: quello che piace a me non piace a lui, con qualche dovuta eccezione. Una di queste è il vino: non manca mai la colonna sonora di un Nebbiolo di una specifica cantina delle Langhe, che beviamo ovunque andiamo. Non so se sia come un rituale, se lo adoriamo e basta o se sia uno di quei sapori che leghi indissolubilmente a qualcuno e sembrano più buoni quando li degusti con quella determinata compagnia. Fatto sta che, come sempre, una bottiglia se ne va tra le chiacchiere, con me che dal secondo bicchiere ho già la testa leggera che gira e il sorriso di chi è felice e non gli interessa nasconderlo. Sono esattamente dove vorrei, con chi vorrei, e tutto il resto del mondo può aspettare. Anzi, potrebbe anche fermarsi e nemmeno me ne accorgerei.

    Mano nella mano, a guardarsi in silenzio, si dicono tante di quelle cose che nemmeno immaginavo possibili. Invece, per uno come lui che non parla molto, capisco essere quel tipo di comunicazione esaustiva per tutto il resto, che non richiede ulteriori spiegazioni e lascia senza parole anche me.

    Cosa siamo l’uno per l’altra? Non ne abbiamo mai parlato. Per ora, tutto è complicato. Una storia sbagliata come mi direbbe De André, storia comune per gente speciale. Arriverà il momento in cui parlare anche di questo, ma non sarà stasera, e nemmeno domani. Non si può forzare il destino: è necessario lasciargli fare il suo corso.

    È la prima volta nella mia vita che per una giornata intera non mi alzo dal letto. Ci svegliamo senza avere idea di che ora sia e poco importa, ma i lucernai sono interamente bianchi: quaranta centimetri di neve cadono sul pavimento non appena, come bambini, proviamo ad aprire le finestre per vedere quanto è bello il manto circostante che copre le colline di Torino.

    Il cielo sa di neve, l’aria è fredda e tersa, e noi restiamo al caldo accoccolati: tra qualche chiacchiera, il rotolarsi tra le lenzuola, la televisione, e un pranzo a letto totalmente di fortuna con le poche cose del mio frigo e della dispensa ancora sopravvissute e commestibili. Il vero regalo è questo: una giornata del nostro tempo tra le due vite frenetiche che facciamo.

    Purtroppo, le giornate sono di ventiquattro ore. Se quelle a migliaia di chilometri di distanza mi sembravano infinite, il tempo insieme è passato troppo in fretta. È già domenica mattina.

    «Ci vediamo presto, promesso» mi dice come se rispondesse alla domanda che avevo in mente e non avevo esternato.

    «Bene, perché a me manchi già» gli rispondo con occhi malinconici. Quelli di chi vorrebbe trovare una scusa per non lasciarlo andar via.

    Mentre esce dal cancello è come se tornassi di colpo alla realtà e, nello stesso istante, lui si catapultasse nuovamente nella sua vita, di cui, per ora, non faccio davvero parte. È domenica, ma su a casa mi aspettano le scartoffie per organizzare la settimana in giro per l’Italia, perché è quasi Natale, uno dei periodi più incasinati dell’anno per il mio lavoro. Eppure, per la prima volta nella vita, penso che non ci sia affatto solo quello e le mie passioni. Ci può essere molto altro per cui vale la pena investire il proprio tempo e le proprie energie: lo stare insieme degli ultimi due giorni me l’aveva appena confermato.

    Il cancello gli si chiude alle spalle facendolo sparire dietro le lamiere di ferro battuto, come in un sipario.

    Il mio telefono s’illumina e mi suona tra le mani.

    È un suo messaggio: nessuna parola, semplicemente un cuore.

    2.

    Sono appena tornata da Decathlon, credo di non aver dimenticato nulla, o almeno lo spero.

    Ho preso i voli ieri, decidendo di partire domani, annullando alla bene e meglio quello che potevo per ricavare sette giorni per me. Complice il fatto che la persona con cui dovevo lavorare ha avuto un imprevisto… Il mondo le chiama coincidenze, personalmente, credo che non esistano. Quando l’universo indica una direzione, tutto quello che si trova al suo interno o nel suo raggio d’influenza, procede verso la stessa meta.

    Talvolta, le decisioni dell’ultimo memento, quelle che nascono senza troppe elucubrazioni, sono le più sensate che possiamo inseguire. In quei casi, la pancia ragiona molto più velocemente di quanto potrebbero fare i neuroni, anche se pare che le sinapsi abbiano velocità supersoniche. Nonostante quello che dice la fisica però, a volte le nostre viscere conoscono tutto molto prima che lo realizziamo, prima ancora di rendercene conto. Qualcosa di diverso dall’inconscio, totalmente innato ed istintivo.

    Le imprese più grandi della mia vita le ho compiute proprio così, come il cambiare vita dopo due lauree e l’imbarcarmi per affrontare un campionato del mondo di pasticceria, che poi ho anche vinto. Decidendo di salpare esattamente nel momento stesso in cui l’idea mi è balenata in mente o, dall’altra parte della cornetta, mi si poneva la domanda «Allora, tra venti giorni, le selezioni per rappresentare l’Italia al mondiale, le fai tu?».

    In quei casi l’indecisione non esiste, è solo la sfumatura che ti fa capire di avere un cervello che funziona e soppesa ciò che accade. A poco serve la materia grigia, perché il cuore l’ha già doppiata correndo nella direzione ben indicata dal groviglio di tutti i nostri sogni. E, a volte, le scelte possono apparire estremamente difficili poiché ci ritroviamo senza l’appoggio di chi ci vuole bene; non perché siamo soli, unicamente poiché nessuno può provare al posto nostro le sensazioni di certi attimi. È per questo che sono unici, per questo, unicamente nostri.

    «Sei un’incosciente» mi dicevano. Avevo deciso di dare poco peso alle parole degli altri, ma, pensandoci adesso, forse avevano ragione: incosciente perché il mio inconscio è la guida migliore che abbia mai avuto.

    Sono dimagrita, mi guardo riflessa nello specchio e ho il viso stanco con una luce un po’ meno brillante del solito. Le cosce, tenendo i piedi uniti, sono lontane dallo sfiorarsi. Il reggiseno è mezzo vuoto, il viso molto più sottile e la pancia piatta come non l’ho mai avuta. Quella, non mi dispiace affatto. Mi fa arrabbiare vedermi così, ma so che comunque sono in risalita, che il fondo toccato qualche settimana fa è ormai solo un’ombra nella mia testa: sono al giorno 17, quella via di mezzo del tempo che è passato, ma non troppo per considerarlo solo un ricordo lontano e indolore. Vorrei mettere l’acceleratore ma non posso, questo l’ho imparato bene, e quindi partirò per incamminarmi in un percorso dove il tempo è padrone, in un elogio alla lentezza che si conquista passo dopo passo.

    Il "purple" domina tutto quello che mi porterò, come lo fa tra i miei capelli. Una persona una volta mi ha detto che ogni colore ha un karma e che, se siamo attirati da quelle determinate sfumature, probabilmente quell’energia fa parte di noi. Non saprei come definire il mio colore, è un misto tra magenta, ciclamino e viola, ha le sfumature dell’erica e dei fiori di campo. Cerco un po’ su internet e di per sé non trovo il colore esatto: direi che è una miscellanea del rosa, simbolo della capacità di dare e ricevere amore, verso gli altri e per se stessi, del rosso, pregno di energia vitale, mentale e fisica, della passione che guida le azioni e governa l’impeto e del viola, che, agli antipodi del rosso, simboleggia la capacità di identificarsi con il prossimo.

    Non so dire se sia davvero così, eppure mi piace pensare che nulla accada per caso. Anzi, ne sono certa. Quindi sorrido a questo karma, sperando sia davvero quello che mi contraddistingue.

    In ogni caso vivo a colori, addosso, tra i capelli e nei dolci che preparo, perché almeno ogni mattina, per quanto possa essere arruffata, o si prospetti una giornata orrenda, guardandomi allo specchio ho già un motivo per essere felice. Forse fuori e dentro piove, ma io sono colorata, e al sole m’illumino come un ciclamino di inverno, come un loto in una palude e un’orchidea in mezzo all’afa umida delle strade affollate del Vietnam. Dopotutto, gli arcobaleni, senza la pioggia non esisterebbero.

    Preparo lo zaino, arrivo a otto chili cercando di portare tutto il necessario ma nulla di più, perché ogni singolo grammo lo sentirò sulle mie spalle, a ogni passo.

    Considerando che lo zaino vuoto pesa un chilo e trecento grammi e altrettanto il sacco a pelo, di meno proprio non potevo portare: due cambi, nel caso m’inzuppi sotto la pioggia, qualche medicina, giacca, felpa, scarpe comode da dopo camminata, l’eBook per leggere, macchina foto, le cuffiette e Beppe.

    Le previsioni non sono delle migliori dato che dà pioggia per tutta la settimana, ma in fondo, penso che ogni seme, per germogliare e nascere, abbia bisogno di un sacco di acqua. Sì, è vero che l’acqua fa anche marcire, ma sono morta abbastanza e ho così tanto bisogno di vita che la pioggia servirà a sbucare dal fango e tornare in superficie. Se ce ne sarà in abbondanza, sarà la volta buona che riuscirà a lavarmi via tutti i pensieri dalla testa, e le lacrime che ho speso dal viso.

    Perché ho scelto il cammino di Santiago? Perché è una di quelle esperienze che ho sempre inserito nella mia "to do list". Quelle per cui vorresti trovare il tempo che alla fine non trovi mai e rimandi. E prima o poi arriva l’istante giusto in cui non puoi più farne a meno, in cui tu devi venire prima del resto per non perderti, anzi, per ritrovarti.

    Purtroppo ho solo una settimana, in cui riuscirò a fare solo gli ultimi 120 chilometri di quello francese: volo fino a Madrid, treno e poi solo passi con me stessa. Parto quasi alla cieca, nessun ostello prenotato, poche idee anche di quello che mi aspetterà, se non qualche informazione veloce chiesta a un’amica che si è incamminata per la stessa strada qualche mese fa, con tutt’altre ragioni e con testa e cuore più leggeri.

    Mi ripeto che l’importante è partire, con la convinzione che non so ancora in che modo, ma questo percorso mi servirà. Perché nella vita, tutte le volte che ne sentiamo il bisogno, dobbiamo saperci reinventare e, ogni volta che accade, è come se morissimo per rinascere. Ogni morte, ogni cambiamento, è segnato da un rito di passaggio. Succede quando la vita finisce, al nostro funerale, ma anche in tutti i momenti memorabili del percorso, come la cerimonia di laurea, il matrimonio, o il semplice festeggiare il compleanno. Questa volta però, ho bisogno di farlo da sola, un rito sconosciuto e non condiviso. Devo capire chi sono, e so che nessuno può aiutarmi se non quella che vedo riflessa nello specchio tutte le mattine, quella che a volte non sopporto, quella che però si sopporta e deve imparare ad amarsi un po’ di più tutti i giorni: me.

    Qualche giorno fa ho fatto un tatuaggio, una foglia di ginko il cui gambo si snoda a formare la scritta resilienza. All’interno del braccio sinistro, a contatto con il cuore. Sono una di quelle persone convinte che i tatuaggi abbiano il potere di fissare un’energia sulla pelle e in un certo senso continuare a trasmettertela nel tempo.

    La resilienza, in fisica, è la capacità di un corpo di attutire un urto e in psicologia quella del saper superare eventi traumatici e periodi di difficoltà. Per me, il ginko è il simbolo per eccellenza della resilienza, insieme alla fenice. Ho deciso di

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