La cura sono io - pagine di vita con una disabilità
Di Luca Berti
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Anteprima del libro
La cura sono io - pagine di vita con una disabilità - Luca Berti
Prefazione
Mi ha commosso la richiesta di scrivere la presentazione di questo libro. Una sorpresa ed una elezione. Io sono quella Silvia di cui sentirete parlare spesso nelle pagine che seguiranno. Luca è un rabdomante di bellezza, lo è da sempre ed ha continuato ad esserlo anche nella sua malattia. Cerca e trova la bellezza ovunque, nelle cose come nelle persone. Questo è un suo grande dono che ci condivide nello scritto.
Colpisce la dignità con la quale Luca abita la sua malattia, raccontata con lucida franchezza nelle zone di ombra e di luce. Nessun virtuosismo narrativo o ostentazione di super poteri. Traspare l’uomo nei suoi limiti e nelle sue paure; così consapevolmente nudo da abbracciare l’essenziale e farne nuova forza e saggezza per procedere nell’avventura della vita.
Si nota il suo essere riuscito a stare nelle cose che sono, così come sono, in un atteggiamento che potrei definire di ispirazione Mindfulness e Compassion (e lo dico come psicoterapeuta!).
Si legge il recupero del qui e ora
come momento prezioso dove avere occhi di gentilezza soprattutto nei confronti delle sue parti deboli e sofferenti, in precedenza guardate con autocritica e svalutazione. Emerge l’astuzia dell’aprirsi all’altro nella relazione e del gustare il lasciarsi aiutare superando il concetto di debolezza e aprendosi al nuovo concetto di accogliere doni.
Pagine di vita che raccontano dello straordinario nell’ordinario di tutti i giorni; Luca ci fa vedere attraverso i suoi occhi le cose piccole, talvolta sfumature impercettibili ingrandite tramite uno zoom che mette a fuoco ciò che potremmo distrattamente non notare e qualche rigo più avanti ci conduce, sorvolando alti come su un drone, a meta osservare le dinamiche e i grandi sistemi.
Il suo scrivere trasmette un incoraggiamento a guardare oltre la propria condizione, che sia la malattia o la vecchiaia o qualsiasi forma di sofferenza, per abbracciare la vita con gentilezza, creatività e passione.
La cura sono io
è un inno alla resilienza, un messaggio di speranza e testimonianza della forza umana di fronte alle avversità.
Immensamente grata di averlo come sposo nella mia vita.
Silvia
Introduzione
La cura sono io è una frase molto semplice ma dal significato provocatorio. Nasce dopo oltre un decennio di malattia, tantissime esperienze di cure, di attività riabilitative, di letture scientifiche, di incontri con medici e soprattutto dalla frequentazione di innumerevoli pazienti con i quali sono venuto in contatto in questo tempo. La provocazione consiste nel tentare di posizionare il focus delle cure non solo sulla malattia, i suoi sintomi e le medicine ma sulla persona. La mia condizione di malato di Parkinson mi rende oggetto di cure. Gli scritti che seguono sono pagine di un diario di vita reale in cui provo invece a sentirmi soggetto che si cura e non solo bersaglio
di cure. La differenza è sottile eppure capace di cambiare il paradigma di un’esistenza vissuta con una disabilità progressivamente invalidante sopraggiunta poco oltre quaranta anni.
Dare importanza e dare significato a me stesso partendo dall’osservazione di piccole cose o momenti e percependone pienamente le emozioni che producono, è la strada che percorro a piccoli passi possibili.
L’importanza di avere sane relazioni e di curarle, emerge come una conseguenza del prendersi cura di sé.
La determinazione con la quale affrontiamo la vita non è prescrivibile e non si vende in farmacia eppure è un ingrediente straordinario, capace di alimentare azioni e attitudini positive per guardare e poi affrontare le nostre sofferenze.
In queste pagine si scopre tanta energia ancora nelle disponibilità e di cui dobbiamo essere attenti amministratori, consapevoli della sua preziosità. L’energia va spesa e non accantonata. Direzioniamola in modo creativo verso nuovi atteggiamenti, nuove comprensioni, nuove attività senza badare su quale scala: dall’osservare le api su un fiore a fare surf sulle onde dell’oceano.
La rosa rossa
Avevo diciassette anni e tanta voglia di conquistare il mondo. Era quasi l’ora di pranzo, la piazzetta era ingombra di molte automobili e nessuno sguardo si sarebbe messo ad osservarla con più attenzione perché di gradevole lì intorno c’era ben poco. Un quartiere popolare di Roma con un liceo classico che affacciava i suoi muri di mattoni e pensiline in cemento lungo un marciapiede. Qualche alberello spuntava dall’asfalto e cercava di stirare i suoi rami verso l’alto per sfuggire alla bruttezza di quel posto sciatto, ed anche io avrei potuto fare di meglio piuttosto che aspettare lì da quasi mezz’ora.
Avevo parcheggiato sul bordo della strada e rimanevo seduto con entrambe le gambe su un lato della moto; cercavo di scaldarmi avvicinando le mani e le gambe al motore, curvandomi leggermente con la schiena. Di tanto in tanto allungavo la testa fuori dal piumino, che mi avvolgeva gonfio, per mantenere una postura meno impacciata.
Guardavo le scalette della scuola aspettando lei. Sarebbe uscita di lì a poco e… chissà, forse sarei riuscito a farmi perdonare; non riuscivo a comprendere la «materia grave» per la quale il giorno prima nello stesso punto mi aveva ignorato girandosi dall’altra parte scomparendo tra i crocchi di ragazzi che si dirigevano a prendere l’autobus. Era stato inutile cercarla al telefono per chiedere una spiegazione, un motivo che giustificasse un rifiuto così netto. Ma si sa, le ragazze a sedici anni vogliono attenzione totale, e basta poco per far scattare la stizza.
La rabbia mi era salita alle stelle, mi sentivo umiliato perché avevo attraversato la città per nulla, neanche una parola e neanche uno sguardo. Eppure eccomi di nuovo qui, il giorno dopo, ad aspettare intirizzito dal freddo e senza nessuna garanzia di successo.
Mi misi a pensare, rimuginando stizzito a mia volta e soprattutto con la guancia che mi doleva come se fossi stato preso a schiaffi. Così ipotizzai che il malessere poteva essere stato procurato dal fatto di non averla chiamata mentre ero in vacanza, un piccolo viaggio di alcuni giorni prima. All’epoca per chiamare da fuori casa occorreva un’organizzazione impegnativa: procurarsi i gettoni telefonici, trovare una cabina libera, sincronizzare gli orari per trovare l’altra persona vicina al telefono… insomma serviva una determinazione che io, leggero e spensierato com’ero, avevo ritenuto non necessaria. Ma la leggerezza era stata quella di non curarmi di valutare se anche lei ritenesse la chiamata come non necessaria. Quel particolare per me non era «materia grave» ma per lei, giustamente, era «materia sufficiente».
Passano i minuti, passano altri brividi di freddo, passano gruppetti di studenti rumorosi che si salutano e tornano a casa. Odio questi momenti di transizione in cui tutto passa ma non ti serve; i dubbi crescono… vorrei solo che passasse quello per cui sto aspettando, ma forse anche questo aiuta ad imparare meglio la lezione.
Riconosco il sorriso in mezzo al gruppetto di ragazze vocianti che scendono le scale, lo avrei riconosciuto anche se fosse stato buio. Lo zainetto su una spalla, i jeans chiari, il giubbetto ancora non indossato, l’andatura leggera con i capelli spettinati dal vento e da una giornata di studio; mi accorgo di essere attirato da tanti particolari, così comuni e allo stesso tempo così diversi; per me speciali. Cerco i suoi occhi, istintivamente, come ad indagare il suo stato d’animo… sì… un altro sorriso! Non saprò mai se mi stesse cercando, non ce lo siamo mai detti, però penso fosse certa di trovarmi in quel punto e proprio a quell’ora. Da lontano i nostri sguardi si incontrano e rimangono in contatto per alcuni secondi, quanto basta perché io salti giù dalla moto e sfoderi come un trofeo quello che avevo portato: la rosa rossa viene illuminata dal sole freddo di quel novembre del 1986 lasciando trasparire tutta la mia intenzione di chiedere scusa. Attimi che percepisco troppo lunghi, irrazionalmente dilatati ed in cui il respiro si ferma, il cuore batte forte, ed i pensieri scorrono veloci terminando tutti con dei grossi punti interrogativi.
Il rumore della piazzetta che ora brulica di gente, l’odore acre dei gas di scarico dei motorini che stanno impestando l’aria, l’autobus che si ferma sbuffando alle mie spalle, tutte cose che potrebbero anche non esistere; c’è un contatto, lontano una decina di metri e forse di più ma c’è, forte, profondo, voluto, uno sguardo. Gli occhi le si stringono leggermente e gli angoli della bocca scoprono un accenno di sorriso che diventa a poco a poco nuova alleanza; un semplice sorriso pone fine a tanti dubbi e lascia