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Robot 93
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E-book334 pagine3 ore

Robot 93

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Fantascienza - rivista (220 pagine) - Versione digitale di Robot 93 con racconti di Sarah Pinsker (Premio Nebula), Jack Vance, Dario Tonani, Braggion, Catellani, Dama, Napolitano e Aloisio - Distopia climatica - Solarpunk - Love Death + Robots - "Robot 93" di Silvio Sosio


Vi è mai capitato di scavare nei ricordi, vecchi compiti di scuola, fotografie o cartoline, e scoprire qualcosa di voi stessi che proprio non immaginavate? Che vi coglie di sorpresa e magari vi fa cambiare l’idea che avete di voi stessi? O scoprire che quella vecchia trasmissione televisiva che avete dimenticato vi ha lasciato molto più di quanto non sembri possibile? Se vi è successo qualcosa di simile Due verità e una bugia di Sarah Pinsker – Premio Nebula quest’anno – vi darà più di un brivido. Come un brivido ve lo darà, pensando a Lampedusa o al confine Bielorusso, un racconto di Jack Vance del lontano 1953 che sembra scritto oggi. E il breve ma toccante La schiuma alla fine del mare di Dario Tonani, che tocca temi coi quali tutti, purtroppo, abbiamo avuto a che fare. Romina Braggion, multiforme talento emergente, viaggia nel tempo, Alfonso Dama tra gli universi e Nicola Catellani tra le linee temporali, mentre i brillanti Aloisio e Napolitano cavalcano tra i terraformatori spaziali: ce n’è per tutti!

E poi un'intervista con l'illustratore Michal Karcz, Distopia climatica, Solarpunk, evoluzione del libro e la serie Love Death + Robots. E nell'editoriale un commento sulla serie Foundation.


Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.

LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2021
ISBN9788825418446
Robot 93

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    Anteprima del libro

    Robot 93 - Silvio Sosio

    L’EDITORIALE

    Tradurre (sullo schermo) è tradire

    Silvio Sosio

    Il protagonista è un agente del servizio segreto imperiale. È stato incaricato di andare a prelevare uno scienziato da un pianeta periferico e portarlo su Trantor. Allo spazioporto l’agente nota un veicolo che li insegue. Inseguimento con le auto a cuscinetto d’aria. L’agente, Seldon e la figlia di Seldon, Arcadia, prendono l’astronave, Hari Seldon spiega all’agente le sue teorie storiografiche in una scena poetica con musica, brandelli di frasi, immagini di galassie, e l’agente si convince che la causa di Hari Seldon va difesa a ogni costo e che deve a lui la sua lealtà. Durante il viaggio verso Trantor un clandestino cerca di uccidere Seldon. Inseguimento. Sparatoria. Arrivo a Trantor. I due incappano in una rivolta anti-imperiale, approfittando della quale un assassino cerca di uccidere Seldon. Inseguimento. Seldon arriva di fronte all’imperatore e gli spiega il suo progetto di Enciclopedia Galattica. Scena poetica con musica, brandelli di frasi, immagini di galassie. L’imperatore è convinto. La spedizione parte per Terminus, scortata dalle navi imperiali. Il viaggio procede. A metà strada si avvicina una flotta di navi con teschi sugli scafi: è la flotta del Mule. La scorta imperiale dà battaglia ma è sopraffatta. Sembra la fine ma ecco delle bordate laser arrivare come dal nulla: colpiscono le ultime navi del Mule! È la flotta della Fondazione! Salvor Hardin in persona in collegamento annuncia che il nemico si ritira, ma uno degli ultimi colpi ha ferito a morte l’agente. Scene felici e suggestive sul pianeta Terminus. Arcadia che sta mettendo tristemente in una scatola gli effetti personali dell’agente morto nello scontro finale e nota qualcosa. Musica di tensione: il passaporto imperiale dell’agente era falso, e nascosto al suo interno ce n’era un altro con le insegne di un ente misterioso: la Seconda Fondazione. Musica tesissima. Silenzio. Titoli di coda.

    Era il 2007 quando scrissi questo soggetto, in un dibattito sull’eventualità che qualcuno potesse realizzare un film tratto dalla Fondazione di Asimov. Era un’esagerazione: non immaginavo che, quattordici anni dopo, qualcuno avrebbe fatto peggio di così.

    Asimov, che era uno che magari pensava che i computer del futuro sarebbero stati grandi come pianeti ma tutto sommato un po’ di visione ce l’aveva, una volta scrisse: "temo che se un giorno dovessero fare una versione di Fondazione su media visivi le idee verrebbero buttate via a favore degli effetti speciali". E se per effetti speciali non ci limitiamo al significato più tecnico ma allarghiamo il campo a quello della costruzione della trama, non si può negare che il Buon Dottore ci abbia preso in pieno.

    Come tanti altri della mia generazione mi sono appassionato al genere leggendo Asimov. Avevo undici anni quando lessi il primo libro di fantascienza, Cronache marziane; subito dopo ne lessi un altro che aveva anch’esso la parola cronache nel titolo, Cronache della galassia. Da lì in poi andai avanti a leggere praticamente solo cose di Asimov finché non fu più possibile trovarne di nuove. Poi passai ad altro.

    La mia idea attuale su Asimov è che non si possa seriamente considerare un grande scrittore tout court, ma che sia senza dubbio un grande scrittore di fantascienza. I suoi personaggi non approfondiscono i misteri dell’animo umano; ma i suoi racconti e romanzi offrono un patrimonio ineguagliabile di idee, affrontate con la lama affilata della logica, e sono in definitiva un piacere intellettuale, come gialli sofisticati, ma con in più un’afflato cosmico e scientifico che il giallo non possiede.

    Idee, appunto. Che poi se vogliamo sono un po’ il nucleo del genere fantascienza: una letteratura di idee. E in un ipotetico grafico che posizioni i vari scrittori su un sistema di assi cartesiani rispetto al loro modo di intendere il genere Asimov per me è quello più vicino al centro. O magari la vedo così proprio perché ho cominciato leggendo Asimov, chissà.

    Avete già capito a questo punto che questo editoriale è una lamentazione per come è stata realizzata la serie tv tratta dalla Fondazione di Asimov. Ora, non vorrei sembrare il solito fan boy che non tollera il minimo cambiamento nelle riduzioni cinematografiche o televisive. Ho ben presente il concetto che i media sono diversi e l’adattamento è obbligatorio. Non solo: lo scopo del produttore deve essere quello di realizzare un’opera che parli allo spettatore, non che racconti l’opera da cui è tratta. Per cui va bene modernizzare degli elementi, e anche cambiare un po’ il bersaglio. Esempio: V for Vendetta di Alan Moore attaccava Margaret Thatcher; alle sorelle Wachowski la Thatcher, scomparsa dal panorama da decenni, non interessava; hanno preso le idee più generali e le hanno esaltate realizzando un ottimo film.

    Quando sono venuti fuori i primi dettagli sulla serie prodotta da Apple tratta da Fondazione si è sollevata naturalmente una grossa polemica sul fatto che alcuni personaggi avevano subito un gender swapping, ben tre, Gaal Dornick, Eto Demerzel e Salvor Hardin da uomini erano diventati donne. Scelta a mio avviso più che corretta: Asimov aveva pubblicato Fondazione sulla Astounding diretta da John Campbell, uno che aveva idee piuttosto nette al riguardo. Se Asimov avesse messo una donna nera nei panni del warden della Fondazione, Campbell lo avrebbe rispedito a casa a riscrivere tutto mettendoci un uomo bianco. Perché, avrebbe detto Campbell, così non è credibile, e forse una scelta del genere, ancorché coraggiosa, avrebbe effettivamente dirottato su di sé l’interesse mettendo in secondo piano ciò che interessava all’autore. Oggi, anno 2021, la situzione è capovolta: non sarebbe credibile una storia in cui tutti i personaggi fossero uomini bianchi. Verrebbe accusato di maschilismo lo stesso Asimov: il quale, a parte la pessima abitudine di importunare le donne con pacche sul fondoschiena (chissà se a qualcuna delle sue vittime qualcuno avrà detto «non te la prendere»), aveva in realtà idee piuttosto progressiste in materia di parità dei sessi. Ma Asimov di sinistra ma non aveva particolare voglia di battersi per la politica: se Campbell gli diceva di fare così lui faceva così, ed era anche abbastanza intelligente da non aver bisogno di farselo dire.

    Penso anche però che ci sia un limite alla reinterpretazione. Che le idee possano essere rigirate, adattate, modernizzate, ma non sistematicamente tradite. Almeno un nucleo centrale deve restare. Per fare un esempio eclatante, non penso che si possa prendere un robot, farlo aderire a una religione e fargli uccidere persone sul solo presupposto della lealtà all’imperatore, e poi dire che questa cosa è tratta da Asimov. Le leggi della robotica fanno parte della nostra cultura, sono citate ovunque e spesso applicate in libri e film che parlano di robot. Non possono essere calpestate così.

    È solo un esempio, naturalmente. Goyer, lo sceneggiatore responsabile dell’adattamento, tenta di raccontare la caduta dell’Impero come parafrasi della crisi dell’impero americano, con un 11 settembre e una dinastia imperiale di cloni (idea, questa, intrigante, lo ammettiamo) che forse allude all’alternarsi di partiti politici che si spacciano per diversi senza esserlo davvero. E fin qui potremmo anche starci, ma poi riempie la storia di personaggi con poteri psichici, trasforma Hari Seldon in un’intelligenza artificiale, la Psicostoria diventa una specie di magia precognitiva che non interpreta solo gli eventi macropolitici ma addirittura i salti casuali delle astronavi. Salvor Hardin, famoso per la frase la violenza è l’ultima risorsa degli incompetenti, lascia la frase a suo padre e se ne va in giro armata di fuciloni. Non si tradisce solo il libro, si tradisce tutto ciò in cui Asimov credeva.

    Per carità: Foundation è anche una bella serie, appesantita da un paio di episodi noiosi e onestamente troppo simile, soprattutto da un punto di vista visivo, a Star Wars, fino alla conclusiva rivelazione sono tua figlia, che insomma, ehm, se ci pensate è quasi imbarazzante. Ma è una produzione piena di soldi, tutta la qualità comprabile c’è, e la fedeltà, forse, non è un bene che si possa acquistare.

    Se solo, se solo, non si intitolasse Foundation, ecco. R

    Illustrazione

    Illustrazione di Matteo Di Gregorio

    NARRATIVA

    Due verità e una bugia

    Sarah Pinsker

    Traduzione di Annarita Guarnieri

    PREMIO NEBULA 2020

    Illustrazione

    Sarah Pinsker (New York, 1977) si è affermata da meno di dieci anni come una delle voci più intriganti sulla scena del nostro genere letterario. Prediligendo, a suo stesso dire, il racconto al romanzo (anche come lettrice) ha collezionato finora una decina di posti in finale del premio Nebula per la narrativa breve, vincendolo due volte: per questo racconto e per quello già pubblicato su Robot 78, Nostra Signora della Strada. Tuttavia nel 2020 si è aggiudicata lo stesso premio anche per il romanzo, A Song for a New Day, che ha per protagonista un musicista, come il racconto sopra citato (l’autrice scrive i testi e canta con una band, gli Stalking Horses), e dal quale sarà tratta una serie tv. (FL)

    Nei suoi ultimi anni il fratello maggiore di Marco, Denny, era diventato una di quelle persone che venivano letteralmente fagocitate dalle cose che possedevano, quelle su cui si girano documentari, per le quali intervengono gli enti sociali e che le persone evitano con ogni scusa di andare a trovare, che smettono di uscire e di cui si parla solo con sospiri e silenzi. Questi erano i pensieri di Stella dopo la morte di Denny, e furono anche il motivo per cui – dopo aver adocchiato le altre quattro presone presenti al funerale – si offrì di aiutare Marco a sgombrare la casa.

    – Sei sicura? – chiese lui. – Lo conoscevi a stento, e sono passati trent’anni dall’ultima volta che lo hai visto.

    Justin, il marito di Marco, gli assestò una gomitata nelle costole. – Accetta la sua offerta. Domani io devo tornare a casa, e il suo aiuto potrebbe tornarti comodo.

    – Non mi dispiace farlo. Denny era gentile con me – affermò Stella, poi aggiunse: – Ma lo farò per aiutare te.

    La prima parte della frase era una menzogna, la seconda era vera. Denny era stato lo strano fratello maggiore che era sempre là quando gli amici si ritrovavano da Marco, ai tempi delle scuole superiori, che si aggirava loro intorno con un blocco per appunti e un’espressione furtiva. Ricordava gli sforzi fatti da Marco per cercare di includere Denny, la sua ammirazione avvolta nella delusione, il suo lento scivolare nell’imbarazzo.

    Stella e Marco erano stati buoni amici, a quei tempi, ma lei non aveva mantenuto i rapporti con nessun compagno delle superiori. Non aveva scusanti, perché i social media potevano rimettere in contatto chiunque in qualsiasi momento, e non era certa di cosa rivelasse su di lei – o su di loro – il fatto che nessuno avesse cercato di comunicare.

    – Il fratello del tuo amico Marco è morto la scorsa settimana – aveva commentato sua madre, durante la prima serata della sua visita a casa, e lei si era sentita di colpo sopraffare dal rimorso per aver lasciato che quella particolare amicizia finisse, soprattutto quando aveva letto il ritaglio di giornale con il necrologio conservato da sua madre e si era resa conto che i genitori di Marco erano a loro volta deceduti alcuni anni prima. Era stato per questo che era andata la funerale e che si era offerta volontaria. – Mi piacerebbe aiutarti – disse.

    Si presentò alla casa due giorni più tardi, abbigliata con vestiti prelevati da una borsa di indumenti che sua madre aveva scartato ma non si era mai decisa a dare in beneficienza: jeans fuori moda da decenni e chiazzati di vernice, consunte scarpe da ginnastica e una T-shirt sformata dal tempo con un’immagine del Batman di Tim Burton. Non si sentiva in imbarazzo per quel vestiario – era sensato per affrontare una pulizia di fondo – ma c’era qualcosa di assurdo nella combinazione fra quei particolari abiti e quella specifica porta.

    – Non riesco a credere che tu abbia ancora quella T-shirt – commentò Marco, uscendo sulla soglia. – La mia si è disintegrata. Ricordi che abbiamo marinato tutti e due la scuola per andare alla prima?

    – Sì. Non sapevo neppure che mia madre l’avesse ancora. Credevo l’avesse buttata via da anni.

    – Forte… e grazie per quello che fai. Mi ero detto che non avrei chiesto aiuto a nessuno, ma che se qualcuno si fosse offerto avrei accettato. Promettimi che non modificherai in peggio l’opinione che hai di me per l’aspetto che ha questa casa. I miei genitori l’hanno data a Denny e io ho cercato di aiutarlo quando venivo a trovarlo, ma lui ha messo bene in chiaro che se avessi insistito troppo non sarei più stato il benvenuto.

    Stella annuì. – Lo prometto.

    Marco le porse un paio di guanti di latex e una mascherina di carta per coprire il naso e la bocca, e solo allora lei rifletté per la prima volta su quanto dovesse essere brutta la situazione all’interno. Non aveva realmente messo a fuoco il fatto che lui era sgusciato fuori aprendo la porta di una fessura e che l’aveva accolta all’esterno. Il prato era ben curato, con le aiuole coperte di pacciame e libere da erbacce, pronte per la primavera che prometteva di esplodere da un momento all’altro, se solo l’inverno avesse acconsentito ad andarsene. Le imposte bianche erano state ridipinte di fresco.

    Fu per questo che rimase sorpresa quando Marco aprì di nuovo la porta solo di una fessura per farla entrare, lasciando appena lo spazio necessario per sgusciargli dietro. Qualcosa era ammucchiato dietro il battente, e anche davanti alla soglia e in ogni possibile spazio dell’ingresso, lasciando solo uno stretto sentiero che portava alla cucina, un secondo verso il salotto e un altro che andava alle scale del piano di sopra.

    – Oh – disse.

    Marco le lanciò un’occhiata. – Non è troppo tardi per tirarsi indietro. Non sapevi per cosa ti stavi offrendo volontaria.

    – No – ammise Stella – ma va bene lo stesso. Hai un piano su come procedere?

    – Sala da pranzo, salotto, tinello, camere da letto, in quest’ordine. Non ho idea di quanto ci possa volere per ciascuna stanza, quindi qualsiasi cosa riusciremo a fare andrà bene. La maggior parte di quello che vaglierai finirà nei rifiuti, chiuso in sacchi che porterò al cassonetto nel cortile. Fammi sapere se trovi qualcosa che valga la pena di conservare. In ogni caso probabilmente dovremmo lavorare nella stessa stanza, dato che non voglio che l’uno o l’altro di noi muoia sotto un mucchio di roba. Questo è stato tutto quello che sono riuscito a elaborare mentre sgombravo un passaggio attraverso la cucina per poter accedere al cassonetto. Se rimanessi sepolto lavorando qui da solo non mi troverebbe mai nessuno.

    – Allora partiamo dalla sala da pranzo. – Stella cercò di infondere entusiasmo – o almeno supporto morale – nella propria voce.

    Era strano vedere una casa in cui aveva trascorso così tanto tempo ridotta in uno stato simile. Non riteneva di essere in grado di dire dove si fossero trovati un tavolino o una credenza, eppure erano là, sotto gli strati più profondi… e i ricordi tornarono a galla.

    Dieci di loro si erano trovati lì per andare insieme al ballo di fine anno, e il padre di Marco li aveva fotografati insieme, commentando: – Ai miei tempi si andava al ballo di fine anno con la propria ragazza. – La madre di Marco era prontamente intervenuta a zittirlo. Denny li osservava, seduto sulle scale, con l’onnipresente blocco per appunti in mano… la cosa non era parsa strana finché Marco non gli aveva detto di andare di sopra, ma a quel punto di colpo lui aveva cessato di essere un altro membro della famiglia che osservava i festeggiamenti per diventare qualcosa di più inquietante.

    Lei e Marco attraversarono il salotto per raggiungere la sala da pranzo, tuttora dominata da un grande tavolo che però era coperto di stick di colla, pennelli e altri attrezzi artistici. Ogni altra superficie era occupata da cumuli torreggianti, ma la sezione contrassegnata da fogli di giornale sporchi di pittura suggeriva che Denny aveva utilizzato il tavolo.

    L’odore della cucina si sentiva da tre metri di distanza e la sua espressione dovette darlo a vedere perché Marco osservò: – Dico sul serio, non ci entrare a meno di esserci costretta. Ho aperto tutte le finestre e messo in funzione tre ventilatori, ma non è abbastanza. Ho pensato che potevamo cominciare da qui perché sarebbe stata forse la cosa più facile. Puoi occuparti della credenza e delle vetrinette delle porcellane mentre io provvedo a sgombrare il tavolo. Dividi le cose in due categorie: rifiuti e quello che pensi potrebbe non esserlo, il che include gli oggetti personali e qualsiasi cosa ritieni possa avere un valore. Morire è una cosa costosa in modo sconvolgente.

    Stella non seppe dire se si riferiva alla morte di Denny – non sapeva come fosse successo – o al funerale e non se la sentì di chiederlo. Si domandò come mai Marco avesse scelto per sé quel lavoro impersonale che non richiedeva di prendere decisioni, ma quando si imbatté in una delle tazze di porcellana di sua nonna, rotta dal peso degli stati sovrastanti, pensò di capirlo. Forse non ricordava bene cosa c’era sepolto lì sotto, ma vederlo danneggiato sarebbe stato per lui più duro del lasciare che lei lo buttasse in un grosso sacco nero. Quegli oggetti avrebbero ridestato dei ricordi, la loro assenza non lo avrebbe fatto.

    Ben presto comprese anche lo scopo dei guanti di latex: quegli strati riservavano spiacevoli sorprese: giornali su giornali alternati a giocattoli e oggetti antichi, poi di colpo escrementi di topo o un bolo di pelo vomitato da un gatto, o il filamento appiattito di quella che un tempo era stata una pianta verde, o qualcosa di ammuffito e di indefinibile. A quanto pareva, Denny era anche stato un fumatore, dato che a intervalli di alcuni strati faceva la sua comparsa un portacenere pieno. I giornali per lo più erano facili da scartare: risalivano a dieci, quindici o anche trent’anni prima ed erano la cronaca e i necrologi del settimanale locale, da cui erano stati ritagliati alcuni articoli.

    Qua e là si imbatté in qualcosa che era sopravvissuto: un vassoio d’argento, una teiera resistente, una foto in cornice. Ripose quegli oggetti sul tavolo, in uno spazio che Marco aveva sgomberato, e per qualche tempo le parve di spostare soltanto il caos da un lato, ma alla fine cominciò a vedere progressi sotto la forma del mobilio che emergeva dalle cataste. Quando ebbe finito con il tavolo, Marco trascinò fuori i sacchi con gli scarti attraverso la cucina e fino al cassonetto prima di etichettare tre scatoloni con le diciture: tenere, dare in beneficenza e vendere, e di cominciare a vagliare gli oggetti che lei aveva messo da parte. Su alcuni oggetti esitò più che su altri, e Stella decise di non chiedergli come effettuava le sue scelte. Se avesse voluto parlarne lo avrebbe fatto.

    – Ci fermiamo per pranzare? – domandò Marco, quando sul tavolo rimasero soltanto scatoloni pieni.

    Lo stomaco di Stella aveva cominciato a borbottare un’ora prima, quindi fu più che felice di fare una pausa. Allungò istintivamente una mano verso il telefono per vedere che ora fosse, poi si bloccò e si tolse i guanti come aveva imparato a fare durante le lezioni di primo soccorso, alle superiori, per

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