Cronache dal Parallelo 38
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Anteprima del libro
Cronache dal Parallelo 38 - Consolata Maesano
1. Cartoline dal Parallelo 38
6 giugno 1992
«Non ora, ti prego…»
Rosaria, per la prima volta nella sua giovane carriera, stava fotografando un cadavere. O, per lo meno, ci stava provando. Appena prima dello scatto, infatti, le mani le avevano disobbedito allentando la presa, così la sua Canon era caduta sopra un piccolo cumulo di foglie, con l’obiettivo all’ingiù.
Ma non poteva permettere alle sue emozioni un simile ammutinamento, così trattenne i conati di vomito e impose al proprio corpo di collaborare. Raccolse la macchina fotografica, tolse veloce e alla meno peggio la polvere terrosa dall’apparecchio e si avvicinò di più all’auto con al volante il cadavere dell’ex assessore alle opere pubbliche del Comune di Costa Innocente, Nino Ceravolo. Sul suo viso c’era una smorfia orribile; di lato, sulle tempie, un proiettile aveva aperto un varco da cui il sangue, ormai secco, era sgorgato a fiotti. Rosaria scattò celere un’istantanea di quell’orrore e salutò il brigadiere che piantonava la macchina (una vecchia Fiat 500 bianca che lei, dopo tutte le ore passate alla residenza municipale, aveva conosciuto subito).
Il militare, qualche istante prima, cogliendo lo sguardo titubante della giovane, le aveva fatto un rapido cenno di permesso («Basta che fai presto» parve dirle solo con gli occhi) e non aveva esitato a chinarsi per raccoglierle la macchina fotografica. Ma Rosaria, che neppure si era accorta del gesto, fu più veloce di lui e lo precedette. Conosceva già di vista il brigadiere, anche se in quel momento le sfuggiva il cognome: la ragazza aveva accompagnato spesso Riccardo e Vittoria, i suoi redattori, in caserma e, a loro volta, i carabinieri qualche volta erano passati in redazione. In quelle occasioni, Rosaria aveva provato un forte disagio nel vedere i due superiori muoversi con destrezza in quella fitta rete di relazioni che era poi lo scheletro di tutti gli articoli degni di tale nome. Mostrarsi goffa, in quel preciso istante, sarebbe stato un suicidio professionale, così come interrogarsi su quali fossero gli stati d’animo più controproducenti: l’inadeguatezza o l’ansia? Rosaria sospettava che fossero entrambe facce della stessa medaglia, ma non era il momento migliore per porsi certe domande.
Ad esempio, ora che aveva finalmente scattato la foto, era impaziente di lasciare quel lembo di terra: un grande uliveto abbandonato da anni che confinava con la strada che il morto stava percorrendo prima di essere freddato. La macchina, senza controllo, aveva sfondato il guardrail per poi terminare la sua corsa contro un ulivo alto e malaticcio. Nello schianto, sul cofano era volata qualche foglia giallastra e tutt’attorno si erano depositati i detriti di una densa nube di terra e polvere che, con le prime gocce d’acqua, si convertì presto in un denso e appiccicoso strato di fango.
Le scarpe di tela azzurra di Rosaria ci annegavano dentro come sabbie mobili e, ogni volta che riaffioravano, erano sempre più sudice e zuppe: il celeste, identico a quello della canotta scollata e infilata nei pantaloncini di jeans, era ormai un ricordo chiazzato di marrone.
Dopo qualche passo, Rosaria fu costretta a fermarsi. Avevano avuto la meglio i crampi che, come una mano stretta a pugno, le contorcevano lo stomaco. Piegata in due, Rosaria vomitò dietro un albero di ulivo, mentre i suoi rami le offrivano riparo dalla pioggia. Si sentì toccare la spalla e, quando si voltò, trovò chinato accanto a lei padre Salvatore. Il religioso le fece una carezza e le disse: «Fatti forza, figliola».
Dopodiché, l’aiutò ad alzarsi, per poi proseguire verso il cadavere: i carabinieri stavano per terminare i rilievi e, da lì a poco, l’uomo avrebbe potuto benedire la salma.
La pioggia non frenò di certo la curiosità della gente di Costa Innocente (dove Rosaria viveva e dove aveva sede la redazione del «Parallelo 38», il quotidiano per il quale scriveva) e della vicina Costa Brutia. Due comuni minuscoli, che sommati raggiungevano appena le dimensioni di una città modesta, uniti da quella mulattiera mai asfaltata che il politico stava percorrendo prima di essere ucciso. Conoscenti, curiosi, gente che passava di lì per caso: tutti si erano radunati a pochi metri dal morto. Molti piangevano, altri non sembravano essersi resi conto davvero di ciò che era successo. Qualcuno bisbigliava: «Dio mio, è davvero lui».
Mentre abbandonava l’uliveto e tornava sulla strada, Rosaria iniziò a chiedersi se stesse sognando. In effetti, proprio come nei sogni, realizzò una sorta di blackout: non ricordava assolutamente come fosse finita lì. Alzò lo sguardo dall’asfalto, giusto in tempo per vedere un boato di luce sfiorare lo specchio d’acqua di fronte a lei, che separava la sua regione dalla Sicilia. Per un attimo, un lampo illuminò il grigiore opaco delle nuvole, che da laggiù somigliavano a un pallido lenzuolo adagiato sulle montagne dirimpettaie.
«Ah, sì: ecco cosa stavo facendo…»
La giovane ricordò come pochi minuti prima, durante la consueta passeggiata pomeridiana, stesse per scattare una fotografia al paesaggio: era stato in quel preciso momento che due volanti dei carabinieri le erano passate accanto sfrecciando a sirene spiegate. Rosaria le aveva seguite quasi ipnotizzata, come i topi col suono del piffero magico, e così, invece del mare e dell’orizzonte, la sua fedele Canon si era ritrovata a immortalare una cartolina altrettanto usuale per quelle latitudini.
L’orologio da polso segnava le cinque e trenta.
Osservando la distanza che la separava dalla collina, la ragazza stimò che le sarebbero voluti almeno venti minuti per raggiungere il centro. Da lì la zona vecchia del paese, sulla parte più alta, sembrava un presepe antico e un po’ bruttino, pieno di muschio e di umidità, abbandonato da qualcuno che non vedeva l’ora di disfarsene. Una quarantina di casette traballanti, ammucchiate tra loro (fra le quali, vicinissime, quelle delle nonne di Rosaria), si distribuivano su e giù, formando una sorta di serpentello goffo. Poco dopo, ai piedi della collina, la zona pianeggiante ospitava la parte nuova di Costa Innocente: gli edifici sembravano dignitose pedine di una scacchiera più moderna, non troppo grande ma graziosa e colorata, costruita per ingannare il tempo nell’attesa che le abitazioni soprastanti crollassero tutte come un castello di carte.
La redazione del «Parallelo 38» si trovava proprio al centro di quella scacchiera.
«Maledetta strada nel nulla, senza bar né cabine telefoniche!»
A dire il vero, la cabina non sarebbe stata necessaria. C’erano buone probabilità che la redazione avesse già saputo dell’omicidio e che le avrebbe telefonato a breve. Rosaria aveva in mente di tornare subito a casa, pregare che non le venisse una bronchite, farsi una rapida doccia e raccontare a sua madre cos’era accaduto.
Come preventivato, il telefono di casa iniziò a squillare non appena la ragazza inserì la chiave nella toppa, prima ancora che potesse rendersi conto che la madre non era in casa.
«Rosaria…» esordì Vittoria, la sua redattrice.
Ma la giovane non gli diede il tempo di continuare.
«Hanno ucciso Ceravolo.»
«Lo sai? Io sono già in redazione. Sta arrivando anche Riccardo.»
«Ero lì vicino, credo poco dopo l’accaduto. Ho anche scattato una foto.»
«Ottimo! Allora sai che fai? Meglio guadagnare un po’ di tempo. Per favore, visto che ti viene di strada, lascia la macchina fotografica allo studio, da mio marito. Adesso stacco, così lo chiamo e gli chiedo di svilupparcela subito. Poi, quando arrivi, vediamo il da farsi.»
Rosaria realizzò di non avere tempo per la doccia. Si concesse soltanto un cambio, poi si strofinò brusca i capelli con un asciugamano e, prima di uscire di casa e dirigersi a passo svelto verso la redazione, lasciò un post-it riassuntivo a sua madre.
Camminò celere e si fermò di colpo solo in prossimità della sede del giornale: nel cortile della casa di fronte, c’era un uomo anziano con delle lenti scure, intento a godersi il fresco seduto all’ombra di un grande albero da frutto. Era Franco Sorrenti.
«Come sta, direttore?» chiese Rosaria avvicinandosi allo storico giornalista di zona, che molti anni addietro aveva fondato la testata di cui era tuttora direttore, nonostante l’età e i problemi di salute.
«Giusto te che sei nata ieri hanno mandato!» rispose il direttore, che aveva riconosciuto Rosaria dalla voce.
«Voleva dire domani» lo corresse scherzosa ed entrambi risero; poi lui la invitò a sedersi.
«Direttore, vedo che sa già dell’omicidio di Ceravolo.»
Sorrenti iniziò a raccontarle la lunga storia politica della famiglia del morto.
di ROSARIA D’ANGELO – Tutti i Ceravolo, sin dal dopoguerra, sono stati esponenti della prima ora della Democrazia Cristiana: Carlo, zio della vittima, era assessore regionale ai trasporti nei primi anni Sessanta; Francesco, padre di Nino, ha guidato Costa Innocente da sindaco per due mandati, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, durante i quali ha anche fondato la sezione locale