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Il sale della terra - Atto I: Regnum
Il sale della terra - Atto I: Regnum
Il sale della terra - Atto I: Regnum
E-book324 pagine4 ore

Il sale della terra - Atto I: Regnum

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Info su questo ebook

“Un atto di pietà può pesare più di uno sgarbo…” 
 
Per Julien de Rougeville, cavaliere al seguito di Carlo d’Angiò, questa verità è un fardello troppo grave da sopportare, soprattutto perché a risparmiargli la vita è stato il principale dei suoi nemici, quel Manfredi di Svevia, re di Sicilia ucciso in battaglia, che il suo signore ha spodestato. I turbamenti di Julien potrebbero guidarlo verso la verità che si cela dietro quel gesto, tuttavia è accecato da un obiettivo ben più concreto: restituire al suo casato la dignità che gli spetta, ripulendolo dalla presenza degli altri figli di suo padre, figli di una donna del popolo. Lui è un nobile, il “sale della terra”, per mandato divino chiamato a portare ordine nel mondo! 
 
La crociata di Julien contro la sua casa si mischia con quella che Carlo d’Angiò, nuovo re di Sicilia, porta avanti contro una parte dei suoi stessi sudditi. In questo vortice finisce Benedetta, adolescente costretta a soddisfare i capricci di Drouet, bruto avventuriero francese che non conosce pietà. Benedetta ama Andrea, l’ultimo rimasto dei fratellastri di Julien, e conta su di lui per sbarazzarsi di Drouet. Il peso di una colpa inconfessabile grava nondimeno sulle spalle del nobile diseredato, incatenandolo ad una condizione di noncuranza delle proprie responsabilità. Benedetta però non ha tempo da perdere, deve sbarazzarsi di Drouet prima che questi la trovi, ed è disposta a tutto pur di raggiungere il suo scopo.
 
Qualcosa di terribile sta tuttavia per travolgere tutti. Siamo il 30 marzo del 1282, giorno di Pasquetta, e su uno spiazzo antistante una chiesetta della periferia di Palermo sta per scoppiare una delle rivoluzioni più gloriose e al contempo barbare del Medioevo: il Vespro. I siciliani sono pronti a gridare vendetta contro i dominatori angioini… mentre in quello stesso luogo e in quello stesso giorno Benedetta è pronta a ristabilire il proprio onore facendo scorrere il sangue di Drouet. Di fronte a quella tempesta Andrea dovrà fare i conti con la sua vergogna, mentre Julien si troverà alle prese con la verità che si nasconde dietro quel gesto che l’aveva sconvolto sedici anni prima.

Leitmotiv dell’intero racconto è l’ambizione… quella di Julien e quella di Carlo d’Angiò. “Quale prezzo è infatti disposto a pagare un uomo per vedere realizzate le sue ambizioni? Quello che è disposto a corrispondere Carlo d’Angiò è immenso.” L’ambizione e le sue conseguenze quindi… “perché le ambizioni di un re le pagano gli altri” e Carlo d’Angiò dovrà sperimentare quanto caro può essere il conto presentato da un popolo.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2021
ISBN9791220817882
Il sale della terra - Atto I: Regnum

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    Anteprima del libro

    Il sale della terra - Atto I - Giovanni Mongiovì

    PARTE I

    Julien: La conquista

    Capitolo 1

    26 febbraio 1266, campi di Benevento

    Vive e non vive..., così si pronunciava l’oracolo.

    Nessuno sapeva da chi fosse partita la predizione di tale vaticinio, se fosse discesa dal cielo o se fosse stata inventata di sana pianta. La si attribuiva ad una delle Sibille, profetesse dell’antichità, veggenti senza luogo e tempo, ma cosa più importante... in molti le prestavano fede. E come non crederci d’altronde? Più e più volte la propaganda papale aveva spacciato per morto l’Imperatore Federico e questi si era ripresentato vivo e vegeto, sorprendendo e smentendo amici e nemici. Cosa assicurava che anche questa volta la notizia della sua morte non fosse una menzogna?

    Nel 1261, un mendicante convinto di somigliare all’Imperatore, aveva cominciato a spacciarsi per il redivivo Federico. Tale Giovanni di Cocleria si era perciò fatto crescere una lunga barba e, imitando le movenze che credeva fossero appartenute al monarca, aveva disceso i pendii del Mongibello [1] per manifestarsi al mondo. Si trattava ovviamente di un impostore, nondimeno, a giudicare dal fatto che perfino molti ecclesiastici e nobili lo credettero Federico II, si comprende quanto fosse forte la speranza, o la paura, che l’Imperatore vivesse ancora.

    Chi scartava tali voci e speranze senza dar loro credito erano i figli stessi dell’Imperatore. Per questi quel Vivit, non vivit..., quell’esser vivente benché morto, trovava applicazione solo nella propria esistenza, nel sangue che accomuna padre e figli, nel susseguirsi delle generazioni. Non è perciò un caso che il finto Federico avesse trovato la morte proprio per mano di Manfredi, il quale lo aveva tollerato finché non aveva scoperto che il papa, falsamente convinto che quello fosse l’Imperatore, intendeva metterglielo contro.

    Ma cosa restava di quel sangue tanto sacro quanto spregevole a distanza di quindici anni dalla morte del sovrano più controverso della sua epoca?

    Corrado, legittimo erede di tutti i domini di suo padre, era morto di malattia nel 1254, mentre guerreggiava contro i partigiani del papa per assicurarsi il potere. Il fratello Enrico, detto Carlotto, era dipartito già l’anno prima, e Corrado, omonimo figlio del deceduto sovrano, aveva solo due anni. Dei figli legittimi restava quindi Manfredi, colui che più di ogni altro incarnava il sangue di suo padre.

    Manfredi era biondo, ambizioso, mecenate d’arti, estimatore della poesia, amante della falconeria e amico dei sultani d’Africa e dei saraceni del suo Regno. Era Manfredi l’essere più simile a Federico, il perpetuatore delle politiche assolutistiche di suo padre e, benché non fosse Imperatore, la guida di tutti i ghibellini [2] d’Italia.

    Manfredi si era dichiarato reggente del piccolo Corrado, ma di fatto mirava a cingersi in capo la corona del Regno. Così, ignorando che il vero sovrano fosse in Germania, aveva sparso la voce della morte del nipote. Nel 1258 si era fatto infine incoronare Re di Sicilia con l’assenso delle Curie Generali [3] e il tripudio della popolazione, più disposta ad accettare un sovrano cresciuto nel Regno che degli stranieri, com’erano stati visti invece Corrado e il suo seguito di tedeschi.

    Ma lungi dal sostenere quanto la volontà dei baroni quanto il diritto di nascita, il pontefice architettava l’estirpazione della razza di vipere che da troppo tempo infestava il Regno di Sicilia e l’intera politica italiana. Se ne susseguirono molti di papi, ma tutti, o quasi, furono concordi in tale proposito... Offrirono quindi la corona a Riccardo, fratello del re d’Inghilterra e conte di Cornovaglia, e poi provarono con Edmondo, secondogenito dello stesso re. Enrico III accettò per il figlio, ma i costi dell’impresa e il tumulto dei baroni inglesi lo costrinsero a rinunciare.

    Accanto a quello dell’inglese, un altro nome era sovente risuonato tra le mura della Santa Sede: Carlo, duca d’Angiò, fratello di Luigi di Francia... poiché lì, oltralpe, vi era il denaro... e lì la nobiltà scalpitava per la conquista di nuove terre. Negoziò con Carlo papa Urbano IV, e lo incoronò infine papa Clemente IV, entrambi francesi. Carlo tuttavia non veniva insignito del titolo di sovrano di un regno decadente e vacante, ma di un regno vivo e governato dalla discendenza di Federico. Per questo ricevette la corona a Roma, perché a Palermo, dove da Ruggero a Manfredi erano stati incoronati i Re di Sicilia, non poteva ancora recarvisi; né gli importava farlo, essendo un uomo completamente disinteressato alle tradizioni del Regno che si accingeva a conquistare e completamente proteso al conseguimento della sua spropositata ambizione personale.

    Ambizione... quale grande parola è questa! E a quali gravi conseguenze conduce la più egocentrica espressione del desiderio umano!

    Questo voler assiduamente ascendere e affermarsi alla più alta signoria non poteva che trovare terreno fertile in Carlo, figlio cadetto alla ricerca di gloria... uomo avaro alla ricerca di oro. Prima il desiderio di farsi re di un regno prospero... poi il proposito di conquistare il più glorioso impero della Storia, mirando alla presa di Costantinopoli; ecco cosa motivava Carlo.

    Qualcuno dirà che pure Federico II anelò a suo tempo cose simili, che Carlo fu un sovrano per certi versi simile all’Imperatore di casa sveva... entrambi tiranni appagati dalla propria brama, quella di dominare su altra gente. Eppure di Federico diremo che aveva un sogno... una speranza ben lontana dalla mera ambizione personale. Federico mirava a restaurare l’Impero dei Cesari, manifestazione del governo di Dio sulla terra ed espressione di pace universale, così come lui credeva e così come era stato indottrinato a credere. Egli non ambiva alla più alta grandezza, perché grande lo era già, e senza averlo mai scelto. Semmai quel potere ambiva a preservarlo, per renderlo perpetuo, per il resto dei suoi giorni e oltre la sua stessa vita; ma anche questo era solo un sogno...

    Ecco perciò la differenza tra il sogno e la pura ambizione personale. I disegni racchiusi in un sogno sono immensi, irrealizzabili, più grandi della stessa anima umana e motivati da propositi che riguardano non solo la propria persona, ma il mondo intero. Voler cambiare il mondo secondo un’idea, questo è un sogno!

    Gli obiettivi di un’ambizione sono invece carnali, umani, determinati da avidità e bramosia, composti della stessa materia che mosse il Diavolo a volersi fare simile a Dio. L’ambizione inoltre differisce dal sogno in quanto essa è realizzabile, a portata di mano di colui che è disposto a pagare qualunque prezzo per la sua concretizzazione. Ma quale prezzo sarebbe stato disposto a pagare Carlo d’Angiò? E quale mora sarebbe stata aggiunta a tale prezzo?

    Questa tuttavia non è soltanto la storia di un re ambizioso e del suo tentativo di appropriarsi di quanto più potere e ricchezze, questa è la storia di come l’ambizione, nel fallimento e nel successo, conduce l’uomo e popoli interi alla rovina, determinando il tramonto per alcuni e l’illusione di gloriosi albori per altri.

    Parleremo perciò di Julien, il più ambiguo degli sgherri di Carlo, prode milite dell’esercito francese. Parleremo del suo valore e della sua ambizione, offerti al servizio del suo re e al servizio di sé stesso.

    Julien dagli occhi più simili ad una bestia che ad un uomo... dallo sguardo segnato da due colori, l’iride destro verde, il sinistro castano; marchio inconfondibile di un essere a cui appartengono due anime.

    «Avanzano i primi... laggiù!» esclamò concitato Denis, un diciottenne imberbe che era stato scudiero del suo signore fino al giorno prima, ma che adesso, approssimatasi la battaglia, Carlo aveva nominato cavaliere insieme a molti altri aspiranti.

    «Dove sono? Voi li vedete?» chiese incuriosito Julien, aguzzando la vista verso l’orizzonte.

    «Abbiamo bisogno di vederli, Julien?» domandò a sua volta Philippe de Montfort, signore di entrambi e comandante del primo dei tre battaglioni schierati da Carlo d’Angiò.

    «Vostro padre i saraceni li ha combattuti nell’Oltremare [4]... noi renderemo questo servizio a Dio in questa terra!» disse ancora Julien, per compiacere il nobile d’alta stirpe al suo fianco.

    Gli unici saraceni contro cui quel giorno avrebbero combattuto erano i soldati di Lucera, la città che Federico II aveva ripopolato con gli ultimi islamici di Sicilia. Tale città, centro di produzione di armi, era così importante nelle politiche di Manfredi, e nelle sue simpatie, che questi era stato ribattezzato con disprezzo il sultano di Lucera. Nondimeno, i saraceni della città pugliese erano poca cosa perché l’affermazione di Julien avesse un senso... Qualcosa di più ampio e profondo dava significato a quelle parole cariche del fervore tipico delle guerre contro gli infedeli. Affinché la questione sveva fosse risolta una volta per tutte, il papa aveva infatti indetto la guerra santa, dirottando nelle mani di Carlo i proventi delle decime ecclesiastiche e concedendogli molti altri benefici, pur se quel conflitto era rivolto contro un re cristiano. Clemente IV aveva perfino impiegato il tesoro e il vasellame della cappella papale per finanziare la missione. Inoltre aveva sciolto i soldati dal voto fatto prima della partenza, quello secondo il quale non avrebbero dovuto uccidere altri cristiani, ma solo infedeli.

    Philippe reggeva ancora il grand’elmo [5] sotto braccio, e fu ora, mentre piccolissime sagome avanzavano sull’unico ponte che attraversava il fiume, che l’indossò.

    «Non avete ricevuto il vostro addobbamento [6] proprio in vista di questo giorno?» fece in risposta proprio Philippe.

    «Sire de Montfort, ricordate che vinsi alla giostra tenendo legato all’asta il guanto di vostra figlia.»

    «E voi, Julien, ricordate che mia figlia è stata promessa solo al conte di Maritima.»

    «Dunque quest’oggi saprò meritarmi non solo la gloria e il Paradiso, ma anche il titolo che mi spetta per diritto di nascita!»

    Philippe de Montfort rispose con un ghigno compiaciuto, ma l’altro non poté vederlo per via del pesante elmo che gli copriva il volto. D’altro canto, se era arrivato a promettere la propria figlia a quel giovane cavaliere, è perché stimava grandemente l’ardore e la caparbietà di Julien. Tuttavia Philippe, signore di Castres, aveva posto la sua concessione ad una condizione fondamentale: Julien, nobile di nascita ma senza terre, avrebbe dovuto conquistarsi il suo posto nel mondo che conta.

    «Che fate, mos senher [7]... pregate?» chiese Denis, accorgendosi che il cavaliere a lato aveva raccolto le mani e abbassato il capo ad occhi chiusi.

    «Vi hanno nominato cavaliere, Denis, giusto perché così combatterete col fervore di un cavaliere! Tuttavia avete ancora indosso l’armamento di uno scudiero. Dovreste pregare anche voi, ne avrete bisogno... tutti ne avremo bisogno!» rispose Julien, lasciando emergere il suo profondo senso di religiosità, unico aspetto della sua personalità in grado di moderare la sua ambizione, sempre che il servizio da rendere a Dio non corrispondesse con i suoi motivi personali...

    Al contrario di molti di quei soldati, Julien non era uno dei tanti figli cadetti partiti al seguito del duca d’Angiò, figli di Francia [8], di Provenza e delle Fiandre desiderosi di darsi prestigio in terre lontane da casa... Julien era il primogenito di un sostenitore degli svevi, di un siciliano, il quale, dopo la morte della sua prima moglie, aveva preferito favorire i figli della sua seconda sposa, ignorando il fatto che le terre e i titoli che possedeva li aveva acquisiti grazie al primo matrimonio. Senza alcun riguardo per sangue, onore e morale, Julien, figlio della nobildonna deceduta, era stato respinto in tenera età. Disconosciuto dal padre, era stato allevato dalla sua stessa balia, seppur con l’appoggio di alcuni nobili e prelati che conoscevano la sua storia. Dunque, all’età di dieci anni era entrato come paggio alla corte di Philippe di Montfort... a quattordici anni era diventato scudiero dello stesso conte... e infine, a ventuno, cavaliere al seguito del suo signore.

    Ora, sul campo di Benevento, Julien si giocava il suo destino. Si trattava della sua prima grande battaglia, il primo grande scontro campale a cui prendeva parte. Aveva ventidue anni quel giorno in cui, accanto al suo signore, partecipò alla sua prima carica di cavalleria.

    Gli arcieri saraceni di Manfredi, quei guerrieri provenienti da Lucera, avanzarono fino ad avere a tiro la fanteria dei provenzali, riparata dietro ai propri scudi. Dovevano colpire prima che si formasse la mischia, prima che rischiassero di saettare gli amici insieme ai nemici. E così quella pioggia ne colpì alcuni, ferì ed uccise. Fu allora che la cavalleria comandata da Philippe de Montfort, temendo che la pioggia di frecce facesse ancor più danno, investì gli arcieri, causando un’immane strage. Vennero perciò allo scoperto i cavalleggeri siciliani, e con i militi angioini fu scontro. Questo avvenimento specifico fu il battesimo di sangue di Julien. Lancia in posizione di carica, si fiondò a ranghi serrati sui nemici. Poteva ben poco la cavalleria saracena di Manfredi, armata alla leggera, contro i formidabili militi di Francia. Essi, ricoperti da lunghi usberghi [9], montanti cavalli possenti foderati di ferro, travolsero come un fiume in piena gli agili, ma deboli, cavalieri della prima linea di Manfredi, adesso schiacciati tra le lance dei fanti e le aste dei cavalieri.

    I soldati di Provenza rischiarono invece di soccombere dinanzi alla seconda carica dei siciliani. Vennero nella mischia i mercenari tedeschi, i quali erano rivestiti d’armature in piastre, una recente invenzione che garantiva una protezione maggiore rispetto alla cotta di maglia. Allora Carlo dovette impiegare anche il suo secondo battaglione, quello che lui stesso comandava, composto da mercenari italiani, tra cui i guelfi fiorentini, e da altra gente di Francia. Ma quelli, tuttavia, continuavano a schiacciarli e a farli indietreggiare.

    Tutto questo ovviamente successe durante molte ore, dal mattino presto e per gran parte della giornata.

    Nelle ore più calde Julien si ritrovò poi ad ingaggiare una strenua battaglia con uno di quegli irriducibili mercenari tedeschi. Per tutto il tempo era stato ben attento a non perdere di vista lo stendardo di Philippe de Montfort, ma adesso si ritrovò a cercare con lo sguardo quel vessillo nella terribile confusione. Provò a ricongiungersi almeno con gli scudi azzurri gigliati d’oro e sormontati dal lambello rosso, stemma della casa d’Angiò, ma nulla da fare... tutt’attorno a sé aveva soltanto le aquile nere di Svevia. E fu mentre tirava a destra e sinistra le redini del suo cavallo, che una lancia sbucò dalla mischia e provò a trapassarlo dal basso. La schivò d’impulso e ne afferrò l’asta con le mani. La tenne tuttavia così stretta che, tirata a sé dal nemico, volò di sotto ai piedi dell’offensore. Un errore banale, dettato dalla foga, che Julien giudicò immediatamente stupido e fatale. Quello ora tentò di infilzarlo, ma lui indietreggiò a fatica tra i corpi degli uccisi finché la lancia non rimase incastrata nella ferraglia di uno già morto.

    «Wurm [10]!» gridò stizzito il tedesco, schiumando saliva sulla barba mentre lo diceva.

    Julien allora ritrovò la sua spada e cercò di rialzarsi, nondimeno si scontrò schiena con schiena con un fante francese che indietreggiava. L’urto lo sbilanciò in avanti, verso quello che lo aveva disarcionato, verso la spada di questi issata in alto per finirlo una volta per tutte. In un istante appena, mentre avanzava scoordinato, Julien si accorse della soluzione: l’ascella del nemico era sguarnita! Presto diresse lì la punta della sua spada. Il suo nemico era ora fuori combattimento, seppur non ancora ucciso.

    Adesso Julien vide in lontananza il leone rampante del conte di Castres. Dopodiché si accorse, ora che la paura si era leggermente diradata, che gli scudi gigliati attorno a sé erano più di quelli che aveva visto poc’anzi.

    «Sire de Montfort... sire de Montfort! Alle ascelle... alle ascelle, quando alzano il braccio per colpire!» urlò Julien non appena si fu ricongiunto con Philippe, il quale era riconoscibile dal volto oltre che dal proprio vessillo, avendo tolto per qualche motivo il grand’elmo che indossava ad inizio della battaglia.

    «Julien, perché tirate per le redini il vostro destriero?»

    Julien non seppe che dire.

    Dunque Philippe comandò ad un fante che da alcuni minuti combatteva al suo fianco:

    «Tu, aiuta il nostro amico a montare a cavallo.»

    Poi Philippe si voltò verso i suoi e gridò:

    «Alle ascelle... quando alzano il braccio!»

    E a Denis disse:

    «Trova il Re e digli che finché continueremo a colpirli sulle armature i colpi continueranno a rimbalzare. Ma non hanno protezioni sotto le giunture, alle ascelle... ed è lì che dobbiamo colpirli! E poi, che si dia ordine ai balestrieri di colpire i cavalli!»

    «Signore... i cavalli?» chiese sconcertato Julien, giudicando quel gesto, quello di colpire il destriero del nemico, un atto disonorevole, non consono ai valori cavallereschi.

    «Sbrighiamo questa faccenda, Julien!» rispose risoluto Philippe.

    L’espediente di Julien aveva d’altronde dato un vantaggio non indifferente all’esercito di Carlo... un vantaggio tanto decisivo che Manfredi dovette impiegare i mercenari tedeschi del secondo battaglione. Ma nulla... non era più soltanto una questione di numeri. Adesso che il vantaggio dei siciliani era stato assottigliato, la vittoria per gli infervorati soldati di Francia era a portata di mano. Carlo diede dunque ordine al suo terzo battaglione di circondare il nemico su entrambi i lati; uno scacco matto senza possibilità di contrattacco.

    Dall’altra parte del fiume osservava Manfredi. Egli, speranzoso oltre misura, aveva ancora con sé l’esercito dei baroni, ed era pronto a lanciarlo nella mischia, impedendo l’accerchiamento dei suoi. Non la pensavano però così i cavalieri venuti dal settentrione d’Italia e molti dei suoi stessi vassalli. Facendo dietrofront, la maggior parte di essi si diede alla fuga.

    «Dovete fuggire anche voi, Sire!» pregarono i fedelissimi di Manfredi, cercando di scrutare negli occhi del Re di Sicilia a quale decisione lo stesse per condurre la sua delusione.

    «Maledetto sia quel papa francese, servo del proprio ventre, che me li ha scagliati addosso, condannandomi a questa fine per il sangue che mi scorre nelle vene! Muoio scomunicato, come mio padre, e circondato da tutti quei nemici che a lui non lo poterono scalfire. Gioisci, Carlo... gioisci... oggi è il tuo giorno! Non ci sarà tuttavia gioia nei giorni avvenire, perché ti presenti come usurpatore di un Regno già consacrato dal sangue dei suoi legittimi eredi.» sentenziò Manfredi, alzando la visiera dell’elmo e fissando l’orizzonte.

    «Sire, dovete fuggire anche voi! Imbarchiamoci per la Grecia, chiediamo aiuto al Basileus [11].» lo esortò Teobaldo degli Anibaldi, barone romano tra i più intimi amici del Re.

    «Grazie amico mio, ma non ci sarà nessuna fuga. Sia pure che dobbiamo morire quest’oggi... il fato darà ragione alla nostra causa!»

    «Lo sanno tutti che vostro nipote Corrado non è morto come si diceva...»

    «Sia pure che sarà la discendenza di mio fratello a vendicarmi... o la mia stessa!»

    Manfredi ora si voltò verso i pochi che gli erano rimasti vicini e chiese:

    «Perché non siete fuggiti come i vostri compagni?»

    «Sire, ricordate? Io ho giurato di morire accanto a voi.» rispose il solito Teobaldo.

    Altri diedero simili conferme della loro lealtà.

    «Ebbene, conserviamo il nostro onore e la dignità di questo Regno!» concluse Manfredi.

    «Accordatemi però un’ultima richiesta.» avanzò adesso Teobaldo.

    Manfredi aveva gli occhi lucidi, dunque poggiò una mano sulla spalla dell’altro, segno che questi poteva esporre la sua richiesta.

    «Lasciate che io muoia da re!»

    Manfredi sorrise commosso. Indossare la soprasberga [12] reale significava convogliare l’attenzione dei balestrieri e dei soldati su di sé. Forse un semplice cavaliere avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere, ma un re...

    «E sia...» rispose Manfredi, non tanto per averne un vantaggio, ma perché una lealtà così grande non poteva essere disattesa.

    Ora quel piccolo stuolo avanzò ordinatamente sul ponte. Poi, dopo aver fatto le ultime preghiere, Manfredi e i suoi caricarono il nemico, puntando dritti al cuore dei francesi, dritti alle insegne di Carlo d’Angiò.

    Julien se li vide sbucare da oltre la coltre di polvere, quindi si trovò a tu per tu con questo gruppo di cavalieri che menavano fendenti mettendoci tutta la propria rabbia. Un colpo al guanto e la spada gli cadde di sotto. Il suo cavallo nitrì, come a sottolineare il disappunto per quella seconda distrazione. La lama impugnata fieramente dal nemico giungeva ora fino al suo viso, fino alla base del cappuccio. Un affondo calcato da quella distanza e con la punta della spada avrebbe divelto le maglie della cotta d’arme e gli avrebbe raggiunto la gola. Ma quello sorprendentemente non colpì, piuttosto rimase a guardarlo come rapito da un pensiero. Gli istanti trascorsero lenti... e tutt’attorno ogni cosa parve attendere la risoluzione di quell’incertezza.

    Julien, il quale se ne stava ad ansimare affannosamente e a braccia aperte, immaginava cosa avrebbe significato morire sgozzato, ma pure si chiedeva perché quello indugiasse. Poi, nell’istante in cui l’indeciso aprì la visiera, un colpo dall’alto prese questi alla testa. Un altro al petto seguì il primo. Ora fu Denis a fissare gli occhi sia verdi e sia castani di Julien, mentre il corpo dell’uomo che aveva esitato ad ucciderlo cadeva da cavallo.

    «Tutto bene, mos senher?» chiese il giovane cavaliere.

    Julien era ancora sconvolto per l’accaduto, ma fece un cenno col capo.

    «Senza una spada serve a poco che il mio sia un equipaggiamento da scudiero e il vostro da cavaliere. Forse vi hanno salvato le vostre preghiere, mos sire Julien!» esclamò Denis.

    Dei temerari cavalieri che avevano cercato una morte onorevole, non si salvò nessuno. Teobaldo degli Anibaldi morì combattendo insieme al suo Re, così come aveva promesso, nella certezza di aver onorato fino in fondo la causa. Manfredi, l’ultimo Re di Sicilia in cui scorreva il sangue dei normanni e degli svevi, morì invece fissando quegli occhi così insoliti, nell’incertezza di avere davanti a sé un volto familiare.

    Un atto di pietà può pesare più di uno sgarbo quando esso non è atteso. E proprio perché tale pietà l’aveva ricevuta senza averla mai richiesta, Julien sembrava adesso far parte degli sconfitti.

    L’esitazione del nemico l’aveva sconvolto. Perché quell’uomo non aveva affondato il colpo alla gola? Perché, guardandolo negli occhi, aveva indugiato?

    Esaurita la battaglia, mentre gli sciacalli al seguito della truppa tagliavano dita e polsi di morti e morenti per derubarli di anelli e bracciali, mentre i pietosi compagni tiravano via dal campo i cadaveri dei loro, Julien se ne stava immobile, seduto tra le centinaia di cadaveri disseminati sul terreno. Teneva il cappello di ferro [13] tra le mani e fissava gli occhi sgranati di Manfredi. Stanco tornò all’accampamento solo dopo molte ore.

    Tre giorni dopo ancora si raccoglievano i cadaveri, e solo allora qualcuno ebbe il sospetto che quella bionda chioma appartenesse al controverso sovrano del Regnum.

    Quando alcuni prigionieri, parenti di Manfredi, confermarono di

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