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L uso improprio dell'amore
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E-book207 pagine3 ore

L uso improprio dell'amore

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Info su questo ebook

Hai mai pensato di vivere una vita che non è la tua?

La vita di Guy Gougencourt, parigino quasi cinquantenne, è perfetta. Tutto è al suo posto e va come deve andare: notaio, figlio di notaio, lavora in uno studio prestigioso, ha una moglie, due figli, una bella casa e tutte le settimane va a pranzo dagli anziani genitori. Eppure, ogni mattina Guy si sveglia con un profondo senso di insoddisfazione. Perché la sua vita perfetta non l’ha decisa lui, l’hanno decisa gli altri, gli eventi, il caso. Un giorno, uscendo dalla Gare Paris Saint-Lazare, viene sorpreso da un temporale violentissimo e si rifugia nel primo taxi che vede. Alla guida c’è una donna. Grandi occhi scuri, capelli lunghi e disordinati e un profumo inconfondibile di gelsomino e muschio. Il suo nome è Elodie. Mentre Guy, a disagio, cerca di mettere una distanza fra sé e quella ragazza che lo turba, volge lo sguardo sul sedile e vede un libro rosso dalla copertina consunta e con un piccolo fregio dorato. Ne è irresistibilmente attratto, ma non osa toccarlo. Al momento di scendere per sbaglio lo porta con sé e durante la sua notte insonne, lo legge d’un fiato e il contenuto lo colpisce talmente tanto che non può fare a meno di cercare Elodie. È l'incontro di due persone che abbandonano le maschere che indossano per scoprire la loro vera natura. Elodie riesce a fare uscire Guy dal suo guscio e a liberare la sua anima, ma anche se la ragazza sembra libera e imprevedibile come un temporale estivo è in realtà rinchiusa in un gioco di ruoli pensato per proteggere il suo cuore e per curare le sue ferite segrete. Ma l’amore e la libertà hanno un prezzo, e per Guy ed Elodie è arrivato il momento di pagarlo.



Carla Vangelista, una delle voci più intense della narrativa italiana, ci regala una storia travolgente, fatta di passione e sensualità. Un inno alla riscoperta di noi stessi e di quello che davvero vogliamo. Un valzer lento che diventa sempre più veloce e serrato, per dimenticare le regole e inciampare nella vita. E nell’amore.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2017
ISBN9788858971727
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    Anteprima del libro

    L uso improprio dell'amore - Carla Vangelista

    Hallelujah

    1

    Qualunque crescendo, se prolungato oltre quello

    che ci si aspetta, provoca l’anticipazione di un piacere

    che in quel momento, al di là della nostra volontà,

    diventa esso stesso piacere.

    Elodie

    Mi sono messa il cappotto rosso. È lungo e caldo, e il suo colore aggressivo dovrebbe distrarre l’attenzione di chi mi guarda dal pallore del mio viso.

    Che donna coraggiosa, penseranno i passanti che m’incrociano. Solo le donne coraggiose indossano quel colore, soprattutto qui a Parigi, dove tutto è grigio, grigi i tetti, grigi i palazzi, grigi i pendolari del metrò, grigio il cielo, grigie le strade sempre un po’ bagnate di pioggia, grigi i pensieri di chi non è coraggioso come questa coraggiosa donna vestita di rosso.

    Mi sono messa il cappotto rosso perché era il momento giusto. Perché avevo bisogno di travestirmi. E perché non sarebbe mai entrato in questa valigia già pesantissima che mi sto trascinando dietro. Guardo i palazzi aspettando di riconoscere quello che sto cercando. Dopo tutti questi anni non ricordo il numero, riesco a richiamare alla mente solo il nome della strada. Era un palazzo più alto degli altri, più sfacciato nella sua squadrata e tracotante bruttezza di edificio popolare. Salivo i gradini due a due, disdegnando il cigolante ascensore perennemente impregnato dell’odore di verdura cotta, come se fossero state le sue pareti di legno, graffiate da mille firme, disegni e frasi oscene, a scegliere il menu di cui rivestirsi, forse l’unico che conoscevano.

    Guardatemi. Ho trentacinque anni, un cappotto rosso, una valigia e sono libera. Libera di andare dove voglio, una macchia di sangue che non sopporta confini, con la sua vita dentro un bagaglio che si porta a mano.

    Il palazzo potrebbe essere questo. Mi fermo e alzo il viso verso i pochi tozzi balconi che imbruttiscono ancora di più la facciata squallida, come un naso fuori misura su un viso già sufficientemente sgraziato. Guardo i panni stesi che sfidano il cielo gonfio di pioggia, le persiane scrostate di chi ha deciso che il cielo non vuole più vederlo e le ha chiuse, osservo il portone, e lo riconosco. So che non avrò bisogno di premere il pulsante opaco del citofono, ricordo che basta tirare due volte e spingere, ricordo tutto, ora.

    Ho addosso un cappotto rosso, ho una valigia in mano e una storia da raccontare. E sono venuta da chi so che può ascoltarla.

    Mi aggrappo al battente e tiro due volte, poi do una spinta decisa. Ecco la penombra densa, ecco la cassetta delle lettere dipinta sbrigativamente di un azzurro infantile, ecco l’ascensore che allora non prendevo mai. Questa volta lo scelgo. L’odore di verdura cotta è una certezza che mi accoglie materna. Manovro un po’ per tirare dentro la valigia, questo è un ascensore stretto, fatto per una sola persona o per la solitudine di quelli che cercano un qualunque contatto con l’altro, anche se durerà solo per pochi piani. Premo il numero cinque, sento un cigolio e io e la mia valigia cominciamo a salire, non sono più sicura della storia che voglio raccontare, penso che dovrò togliermi il cappotto rosso e che allora il mio coraggio mi abbandonerà e finirà anche lui buttato negligentemente su una poltrona.

    L’ascensore si ferma e io resto immobile. Forse non mi riconoscerà, dopo tutti questi anni. Forse non mi aprirà. Forse non mi ascolterà. Di colpo, di fronte al rischio di un rifiuto, il mio bisogno diventa così urgente che apro di scatto la grata di ferro nero, spintono con gesti bruschi la valigia lungo il pianerottolo, 25B c’è scritto in alto, niente nome sul campanello che premo con forza. A lungo.

    La porta si apre dopo pochi secondi di totale silenzio. Niente rumore di passi, nessun tossicchiare di chi si prepara a dire Buongiorno.

    I capelli di Alain sono diventati tutti bianchi. E gli occhi sono vivi e brucianti come allora, ma ingentiliti da un reticolo di rughe.

    «Ti sta bene il rosso» mi dice con voce tranquilla, senza sorridere, senza un accenno di stupore. «Vuoi entrare?» si sposta di lato, e io intravedo alle sue spalle colori immutati.

    «Non mi chiede perché sono qui?»

    «Non certo per vendermi un aspirapolvere.» Gli angoli delle sue labbra sottili si distanziano in un sorriso.

    «Ho una storia da raccontarle» gli dico, e già sono pacificata.

    «Devo ricordarti le buone maniere?» La sua voce è severa.

    Chino la testa. Esalo un sussurro. «Maestro.»

    Lui annuisce e mi fa una carezza sui capelli. «Ho appena messo su il tè. Entra.»

    2

    C’erano tre cose che Guy Gougencourt non riusciva a sopportare: la pioggia, il treno dei pendolari del giovedì sera e gli eredi avidi. In quel momento – ed era giovedì – si trovava su un treno pieno di uomini vestiti più o meno come lui – completo grigio, camicia bianca e cravatta – che tormentavano i loro cellulari, in una specie di gara a chi parlava a voce più alta. La pioggia batteva incessantemente contro il finestrino e lui aveva passato il pomeriggio in una casa di campagna addobbata a lutto a guardare i familiari del defunto che si accanivano rabbiosi sul testamento come se fosse stato un osso troppo piccolo per soddisfare tutto il branco di cani. Tre cose odiate su tre. En plein. Il pranzo dai suoi genitori era stato consumato in fretta nella solita atmosfera fredda e severa che si respirava nella casa del Notaio. Sua madre sospirava piano mentre sbocconcellava le cotolette alla Villeroy, e il Notaio aveva fatto un accenno di sorriso solo quando Marthe aveva portato in tavola la crème brûlée. Dentro di sé, e prima, da ragazzo, quando parlava con suo fratello Jean-Claude, Guy aveva sempre chiamato il padre in quel modo, il Notaio, come se la sua professione fosse stata un abito impossibile da dismettere. Quando erano piccoli, lui e Jean-Claude recitavano spesso scenette impaludati nei cappotti – tutti rigorosamente neri – del genitore. Impersonavano a turno il padre, e le rappresentazioni, qualunque fosse l’argomento, finivano con il Notaio che con aria truce licenziava in tronco tutti, anche il Presidente della Repubblica, se osava tenergli testa. Un giorno lui li aveva sorpresi durante una delle loro recite: il silenzio gelido e indignato che ne era seguito, unito a una settimana di pasti a base di brodino come punizione, li aveva dissuasi dal continuare il loro gioco.

    Guy sospirò di sollievo accorgendosi che il treno stava entrando nella stazione di Saint-Lazare. S’infilò il cappotto nero da notaio, identico a quelli che il padre aveva indossato per tutta la sua vita, radunò le carte che aveva cercato senza successo di studiare – ma il giovedì in treno accadeva sempre così – e si preparò a scendere. La sua prudenza innata gli aveva consigliato di prendere l’ombrello quella mattina, nonostante un pallido sole sembrasse promettere tempo clemente, e mentre attraversava la banchina e sentiva la pioggia scrosciare si congratulò con se stesso per non essersi lasciato sorprendere. Solo gli stupidi che non esercitano l’ordine nella propria vita erano vittime delle sorprese. E le sorprese erano la quarta cosa che Guy non sopportava.

    Mentre per aprire l’ombrello si destreggiava fra i fascicoli che teneva sottobraccio e la valigetta di pelle nera, udì lo squillo del cellulare. Guy interruppe le sue mosse da giocoliere e lo prese dalla tasca del cappotto. Gisors, c’era scritto sul display. Il che significava la casa dei genitori. Il che significava la voce flebile di sua madre che s’informava se il viaggio era andato bene (solo un’ora e mezzo di treno, mamma), se Hélène era venuta alla stazione a prenderlo, se a Parigi pioveva forte come lì (siamo sotto lo stesso cielo, mamma), insomma: se lui era ancora vivo. Guy sospirò e rispose.

    «Sì, mamma, arrivato adesso. Il viaggio è andato benissimo. No, cercherò un taxi, Hélène è rimasta a casa coi gemelli, Jérôme ha un po’ di febbre. No, mamma, niente di grave, solo l’influenza che è in giro in questo periodo. Piove molto anche qui ma ho l’ombrello. Certo. Certo che non ho dimenticato il tuo pâté.» Dopo questa affermazione corrugò le sopracciglia e cominciò a frugarsi nelle tasche e a guardare fra le sue carte. Il sacchetto del maledetto pâté era rimasto sul treno. Iniziò a fendere la folla controcorrente, imprecando fra sé e ascoltando la madre che nel frattempo gli raccontava di come la sua pressione non si volesse abbassare nonostante le nuove medicine, di come Marthe non fosse più quella di prima e delle sue scarse prestazioni nel pulire l’argenteria, dello scaldabagno che faceva di nuovo rumore. In pratica gli ripeté tutte le cose che gli aveva già raccontato durante il pranzo. Non era Alzheimer, pensò Guy salendo di corsa sul vagone e dirigendosi verso il posto che aveva occupato, ma povertà di vita.

    «Mamma, la linea è disturbata. Ti telefono domani» disse bloccandola mentre si lamentava dello scaldabagno. Infilò il cellulare in tasca e si chinò sotto il sedile. La busta azzurra di plastica era lì, per fortuna. La afferrò sollevato. Ogni fine del mese sua madre faceva il pâté e la successiva settimana era tutto uno scambio di telefonate fra lei ed Hélène sul nuovo ingrediente, il tempo di cottura, quanto era piaciuto anche ai bambini e così via. Scaldabagno, Marthe, pressione arteriosa, pâté: su quelle cose si fondava la sopravvivenza mentale di sua madre.

    Alzandosi di scatto con il prezioso involto in mano, Guy incontrò la propria immagine riflessa nel finestrino ricamato di pioggia. Un viso serio e affidabile, i miopi occhi azzurri parzialmente nascosti dalla pesante montatura di tartaruga, i capelli corti di un castano ancora indomito nonostante l’inarrestabile aggressione di alcuni fili imbiancati. Mentre scendeva dal vagone e ripercorreva velocemente il suo itinerario lungo la banchina, pensò che mancavano pochi mesi al suo compleanno. Le labbra gli si contrassero in una smorfia di fastidio. Non gli piacevano i compleanni e il suo meno di tutti. Ma per gli imminenti cinquant’anni, Hélène e sua madre già progettavano pietanze speciali e succulente, e i gemelli − gliel’aveva detto Hélène intenerita − a scuola già stavano pasticciando con pastelli e fogli colorati per preparargli un quadro a sorpresa. Magari questa volta sarebbe stato un compleanno normale, non come gli altri. Magari.

    Fuori dalla stazione il posteggio dei taxi era di un vuoto desolante. L’incidente del pâté gli aveva provocato un ritardo che a quell’ora poteva essere fatale, soprattutto vista la pioggia. Tutti i maledetti pendolari del giovedì lo avevano fregato sul tempo. Per un secondo meditò di prendere la metropolitana, ma lo scroscio incessante che gli percuoteva l’ombrello lo scoraggiò. Quando vide un taxi rallentare e fermarsi, si lanciò con la determinazione disperata di chi sa che difficilmente gli si presenterà un’altra occasione. Mentre stava per afferrare la maniglia della portiera, una signora grassa e piena di pacchetti si materializzò dall’ombra.

    «C’ero prima io» borbottò sgarbatamente spintonandolo e barricandosi dentro la macchina prima che lui potesse dire qualcosa. Esasperato, contrasse la mascella e si dispose all’attesa. Ma in quel momento, attraverso la cortina d’acqua, vide un secondo taxi parcheggiato poco più in là, fuori dalla linea che delimitava il posteggio. Lo raggiunse a passi veloci e si aggrappò alla maniglia come un naufrago alla zattera di salvataggio, ma la portiera era chiusa. Dall’interno della macchina proveniva una musica assordante, e il conducente muoveva la testa seguendo il ritmo. Guy si chinò e bussò contro il finestrino. L’autista – era una donna, lo notò in quel momento – non sentì, o fece finta di non sentire. Guy colpì di nuovo il finestrino, a palmo aperto stavolta. Finalmente la donna si girò verso di lui, scosse la testa e gridò al di sopra della musica «Fuori servizio!» indicando in alto l’insegna spenta. Guy rimase immobile mentre le scarpe gli si riempivano d’acqua. La donna si girò di nuovo verso di lui. Lo squadrò per un attimo, poi con un sorriso divertito si allungò per togliere la sicura dalla portiera posteriore.

    «È veramente troppo bagnato. Salga!» gridò.

    Guy sospirò grato e, destreggiandosi tra fogli, valigetta, pâté e ombrello, montò nel taxi. La donna spense la musica.

    «Con l’influenza che c’è in giro non voglio averla sulla coscienza» disse ridendo. Aveva una voce morbida, senza un accento particolare. «Dove la porto?»

    «25 Rue Saint-Georges» rispose lui tentando di scrollarsi via l’acqua dal cappotto.

    «Che poi l’influenza non c’entra niente con le infreddature. Una cosa sono i virus e una cosa il raffreddore» riprese lei allacciandosi la cintura di sicurezza.

    Era una di quelle che chiacchieravano, pensò Guy. Restò in silenzio per scoraggiare qualunque altro tentativo di familiarizzazione. Lei mise in moto e ingranò la marcia.

    «Parigi è tutta bloccata. Si metta comodo perché non ne usciamo in meno di un’ora» disse partendo.

    Guy fece un piccolo grugnito per essere cortese. Dopotutto la tassista l’aveva salvato nonostante fosse finito il suo turno. Tirò fuori il portafogli e controllò se aveva banconote di piccolo taglio. Una lauta mancia era doverosa e giusta. E a lui piaceva fare quello che era giusto. Ripose il portafogli e decise di rilassarsi, provando a escludere dalla mente il rumore dei clacson e le voci concitate degli automobilisti fermi nell’ingorgo che si prospettava davanti. Socchiuse gli occhi. L’abitacolo era caldo e c’era un piacevole profumo di gelsomino. Più qualcos’altro: un aroma profondo e scuro che gli ricordava l’autunno, gli anfratti delle rocce, le cavità degli alberi nei quali da piccolo osava infilare la mano, tremando per la possibile presenza di una creatura maligna e sperando nella scoperta di un tesoro inestimabile. Muschio, decise, era profumo di muschio. Il suo olfatto era da professionista. Da ragazzino aveva accarezzato l’idea di diventare un naso, e di creare essenze e fragranze mentre abitava in una casa in Provenza, circondato da piante e aromi. Ma poi gli eventi avevano preso il sopravvento e non c’era stato modo di scegliere. E ora viveva fra odori di stampanti surriscaldate, d’inchiostro, di fritto dei fast-food e di tubi di scappamento.

    Il taxi, che per un po’ si era mosso agilmente, frenò di colpo proiettandolo in avanti e facendo scivolare per terra la valigetta di pelle, il pâté e i fogli.

    «Mi scusi» disse la tassista con un gesto stizzito in direzione dell’utilitaria che le aveva appena tagliato la strada. «Il mondo è pieno di imbecilli e quasi tutti hanno la patente.»

    Guy mormorò un «Non si preoccupi» e per un attimo incontrò lo sguardo della donna nello specchietto retrovisore. Occhi grandi e castani, pensò di sfuggita. E capelli dello stesso colore. Lunghi e un po’ arruffati. Era una vita che Hélène voleva farsi crescere i capelli. Ma i suoi erano biondi e fini, molto diversi dalla massa lucida e selvaggia della tassista. «Sembro Cosetta dei Miserabili» diceva Hélène ogni volta che riusciva a raggiungere la lunghezza che si era prefissata. «Sembro un salice piangente.» E invariabilmente se li tagliava.

    Guy si chinò a raccogliere le sue cose. Mentre le riappoggiava sul sedile, notò qualcosa che prima doveva aver coperto con la valigetta. Era un libro rosso, spesso e dalla copertina opaca e consunta. Nel centro, impresso a lettere dorate, il titolo recitava Il Gioco. Sotto, una piccola orchidea, anch’essa dorata, si schiudeva morbida. Lo agitò per richiamare l’attenzione della tassista.

    «Credo che qualcuno abbia dimenticato…»

    Lei gli lanciò una veloce occhiata nello specchietto.

    «No, quello è mio.» Sorrise. «Oggi volevo andare a comprarmi un cappotto rosso. E lo volevo dello stesso rosso della copertina. Per questo l’ho portato con me.»

    Guy annuì e si abbandonò di nuovo contro lo schienale, privo d’interesse.

    «L’ho trovato» continuò la donna voltando il viso verso di lui. «Il cappotto rosso, dico.»

    Era molto più giovane di quello che Guy aveva pensato. Trenta, trentacinque anni al massimo. Naso

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