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Energy I
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E-book395 pagine5 ore

Energy I

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Info su questo ebook

L'avventura si colora di rosa e fantascienza in questo splendido romanzo d’esordio di Elena Orlandini. Un Paranormal Romance avvincente, fresco, dove i sentimenti si svelano e crescono tra le spighe di grano di un crop circle e i fulmini del Tennessee. Una ricca e misteriosa famiglia vive sulle colline di Norville, isolata dal resto del mondo. Nulla sembra coinvolgere i Volta nella vita della cittadina, finché Thomas, il figlio primogenito, si imbatte per caso in Jess, la ragazza venuta dalla città, e che da quel giorno cambierà la sua vita... tingendola di colori mai visti prima. È il primo volume di una nuova saga.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2019
ISBN9791220051859
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    Anteprima del libro

    Energy I - Elena Orlandini

    STRADE DIVISE

    La sveglia trillò più del solito quella mattina, o almeno così parve, tanto era ostinata a buttarmi giù dal letto. Allungai una mano da sotto le coperte e la zittii con un colpetto secco, mettendomi poi seduta. L’immagine di rimando nello specchio dell’armadio era davvero tremenda: i capelli arruffati, gli occhi ancora stretti e il viso imbronciato di chi avrebbe voluto dormire almeno un altro paio d’ore. Ravviai qualche ciocca ribelle poi crollai di nuovo sul letto, fissando il soffitto. Era incredibile che ancora capitasse, eppure a volte mi sentivo estranea a quella stanza, nonostante fossero passati più di due anni dal mio trasferimento.

    Tutto era accaduto molto in fretta – troppo a dire la verità – una sera come tante, dove i miei stavano litigando. Più volte avevo parlato di questo con Sally, la mia migliore amica, ed eravamo giunte alla conclusione che fosse stato il lavoro di entrambi a creare frustrazione. Mia madre era una hostess di linea, mio padre un ingegnere informatico, e durante la settimana non si vedevano granché, così nei weekend si caricavano di tensione che regolarmente sfociava in discussioni più o meno accese. In quei momenti, me ne stavo per conto mio, in camera, chiudendo le loro diatribe fuori dalla porta, e mi attaccavo al telefono per parlare con Sally oppure mi piantavo davanti alla finestra per cercare di individuare una stella. Sapevo che non l’avrei vista, poiché abitavamo in città e le luci artificiali illuminavano tutto; nonostante ciò la cercavo, ero certa che si trovasse lassù. Quella sera, però, capii che era successo qualcosa di diverso quando mio padre uscì di casa sbattendo l’uscio, lasciandosi dietro uno strano silenzio. Mi ero affacciata sul corridoio e solo a quel punto i singhiozzi sommessi di mia madre erano arrivati sino a me. L’avevo raggiunta e mi ero bloccata sulla soglia della loro camera non appena avevo scorto le pile di vestiti sul letto. La spiegazione che seguì, quando lei si accorse di me, era in netto contrasto con la rassegnazione che traboccava dai suoi occhi rossi e, in breve, mi ritrovai a preparare le mie cose per andarmene da lì. Scendevo le scale del palazzo, lo zaino di scuola da una parte e una borsa di vestiti dall’altra, e continuavo a pensare che stavo lasciando la mia casa, stavo lasciando mio padre. Mentre raggiungevamo nonno Joe, il padre di mia madre, lei disse che in seguito avremmo chiamato papà, ma io non riuscivo a capacitarmi che stesse accadendo davvero. La città che scorreva fuori dal finestrino, le luci, i colori, le vetrine e tutta la normalità che fino a quel momento mi avevano accompagnato, parvero rimanere indietro, allontanandosi sempre più. Eppure quella sera mi ritrovai a dormire per la prima volta in questo letto, un letto che non era il mio, con gli occhi gonfi di pianto, ad alcuni chilometri dalla mia casa, da mio padre, con la speranza che quell’incubo finisse.

    Il mio cellulare vibrò due volte riportandomi alla realtà. Lo afferrai e lessi il messaggio di Sally.

    RITROVO TATTICO DAVANTI ALLA SCUOLA: DEVO ASSOLUTAMENTE PARLARTI!

    Gettai un’occhiata fuori dalla finestra dopo averla spalancata: il cielo era terso, di uno splendido azzurro, solo un accenno di luna ancora visibile si distaccava dalla tela perfetta. Inspirai a fondo, diverse volte, per riempirmi i polmoni di quella nuova giornata di metà primavera, pronta a partire.

    Mi vestii e raggiunsi in fretta il piano di sotto dove il rumore di stoviglie confermò che non ero l’unica ad avere impegni mattutini quel giorno.

    «Oh, buongiorno. Ti sei alzata presto oggi» disse nonno Joe, affabile come sempre, mentre allacciava la giacca verde da giardinaggio.

    «Ho appuntamento con Sally all’entrata della scuola, quindi devo prendere l’autobus che passa prima. E tu, che ci fai già in piedi?»

    «Vado con Arnold» e prese i guanti da lavoro.

    Da quando Joe era rimasto vedovo, si era ritrovato con un sacco di tempo per pensare ai ricordi; poi era intervenuto il suo più grande amico. Arnold nella vita faceva il giardiniere e con la scusa di un aiuto per qualche lavoretto, aveva coinvolto il nonno senza particolari difficoltà.

    «Ci aspetta parecchio da fare sulla collina, a villa Volta. I nuovi proprietari stanno facendo molti interventi per rimetterla in sesto. Ricordi com’era ridotta?» e si infilò il cappellino con la visiera.

    «Quel giardino era diventato una giungla» ridacchiai, poi la curiosità si fece largo. «Ma… che tipi sono? Non si vedono mai».

    La villa era rimasta vuota per parecchio tempo dopo la morte della signora Figg, poiché i parenti lontani l’avevano messa in vendita a una cifra improponibile e, siccome la casa richiedeva una ristrutturazione importante, nessuno si era voluto accollare tante spese. Poi, due anni prima, una famiglia di forestieri era sbucata dal nulla e, da un giorno all’altro, vi si era trasferita. Qualche volta li avevo intravisti nei corridoi della scuola, ma fuori era difficile incontrarli, così la gente del luogo li guardava con diffidenza. Davano l’impressione di essere snob e tra i giovani si vociferava che i figli dei Volta frequentassero solo persone e locali di un certo livello, giù in città, a Norville.

    «È gente benestante, su questo non ci sono dubbi: stanno rinnovando tutto e hanno la servitù, capisci? Comunque, la signora Volta è una donna bellissima, molto riservata ma cordiale; il signore l’ho incontrato poche volte, è continuamente fuori città per affari. Ho visto anche i due figli, più o meno dovrebbero aver la tua età».

    «Li ho intravisti, ma non si fermano mai a parlare con nessuno» bofonchiai.

    «Sono pronto. Ciao Jess» disse e uscì con la borsa da lavoro.

    Terminai la colazione e andai di corsa al piano superiore per finire di prepararmi. Mentre lavavo i denti, immaginai i Volta, vestiti firmati da capo a piedi, con aria di sufficienza passarmi accanto su una macchina extralusso. Scossi il capo riluttante, raccolsi i capelli ribelli in una coda, recuperai lo zaino, quindi scesi rapida le scale e uscii, chiudendomi la porta alle spalle.

    Il nonno abitava in periferia, in una zona di campagna non molto distante da Norville, piccola cittadina a sudovest di Memphis, al confine con l’Arkansas. Era in parte territorio collinare, ricco di campi coltivati e piccoli boschi e, se non fosse stato per i fulmini, nessuno se ne sarebbe mai ricordato. La località era infatti conosciuta come Thunder-town, a causa dell’elevata percentuale di saette che ogni anno toccavano il suolo; nonostante ciò, la vita da quelle parti era piuttosto tranquilla, priva di svaghi o attrattive.

    La casa di Joe si trovava in un bel posto, con tanto verde attorno e un modesto frutteto. Il cottage, costruito interamente in sasso, su due piani, non aveva balconi, ma uno splendido portico sull’entrata. A fianco c’era l’autorimessa, dove il nonno custodiva il suo vecchio pick-up, gli attrezzi per il giardino e la bicicletta della nonna. Sin da bambina, mi ero recata abbastanza spesso a casa dei nonni e ogni volta vi avevo ritrovato la stessa calda atmosfera fatta di naturalezza e semplicità. Dopo la morte di nonna Sue, Joe non aveva voluto sentire ragioni e, all’offerta di trasferirsi da noi in città, aveva opposto un irremovibile rifiuto. Nessuno, nemmeno l’opprimente solitudine di una casa vuota, lo avrebbe allontanato da quel luogo, dai suoi fiori e dal suo frutteto, dalle sue abitudini. Poi, però, ero stata io a trasferirmi da lui e da due anni la mia residenza si era ufficialmente spostata in quella casa. All’inizio era stata molto dura. Non volevo credere che la mia famiglia si sarebbe davvero disgregata, tuttavia i miei genitori sembravano più felici da quando si erano allontanati. Inoltre, a mio padre si era presentata una grossa opportunità di lavoro, che però implicava il trasferimento immediato in California, nella Silicon Valley. Non fu una decisione facile, da una parte c’era papà a migliaia di chilometri da Norville; dall’altra la mia vita, le mie abitudini, la mamma e il nonno. Alla fine, decidemmo insieme che la soluzione migliore per me fosse di rimanere definitivamente da Joe. Dovetti crescere, e in fretta, diventando indipendente e responsabile, ma a sostenermi c’era la presenza costante del nonno, con il suo inestimabile aiuto e sostegno, un punto fisso nella mia vita scombussolata.

    Ero giunta al crocevia. Istintivamente buttai l’occhio a destra, lungo la strada che costeggiava i poderi e si insinuava tra le curve sino alla collina, ai Volta. Poco più giù, c’era la casa di Danny, ultimogenito della famiglia Garret e, di un anno più grande di me, che frequentava l’ultimo delle superiori. I suoi erano coltivatori e possedevano tutte le terre che si estendevano dal bivio fin quasi alla collina. Danny era un ragazzo spontaneo, sincero e maturo per la sua età. Quante volte mi aveva consolato portandomi a passeggiare in mezzo al grano, ascoltando in silenzio, lasciando che mi sfogassi, durante le mie crisi di solitudine perché privata di una vera famiglia. Con il tempo, era diventato una persona importante per me, uno dei miei più cari amici e se avevo superato il divorzio dei miei, lo dovevo certamente anche a lui.

    Svoltai a sinistra e con passo spedito oltrepassai le abitazioni, fino a costeggiare la villa dei Muller. Era un edificio signorile, alquanto importante, con uno splendido giardino e un parco macchine da far invidia a una concessionaria. Anche l’erba era talmente verde che veniva da chiedersi se fosse vera. Ogni cosa in quel posto, ogni particolare di quella casa trasudava agiatezza.

    L’enorme cancellata di ferro battuto con incastonati i blasoni leonini si aprì automaticamente, e un’elegante Mercedes grigio metallizzato uscì silenziosa a passo d’uomo. Alla guida c’era il signor Muller, un uomo di mezza età e di bell’aspetto, sempre in giacca e cravatta, dall’aria molto impegnata.

    A differenza dei Volta, tutti conoscevano i Muller, che abitavano lì da sempre. Era una famiglia di avvocati da generazioni, e avevano due figli: Lilian, che aveva la mia età e che incontravo spesso nei corridoi della scuola, e Alan, di un anno più grande. Lilian era una ragazza eccentrica, sempre vestita di tutto punto, con la quale si riusciva a chiacchierare, purché la conversazione non andasse troppo a fondo e rimanesse sul generico. Adorava lo shopping. Alan, il primogenito, era un gran bel ragazzo, di quelli che non passano inosservati. Tutte le ragazze della zona lo conoscevano, di nome o di fatto, il che lo rendeva appetibile o, come diceva Sally, un ottimo partito. A me non piaceva granché: egocentrico e superficiale, molto pieno di sé, arrogante e presuntuoso. Avevo una sorta di avversione per i ragazzi di questo tipo. Preferivo di gran lunga le persone più alla mano, sensibili e attente, intelligenti e divertenti, anche se, lo dovevo ammettere, l’occhio voleva la sua parte. E Alan di sguardi ne attirava parecchi. La signora Muller era una donna molto raffinata e attraente. La tipica persona dall’andatura lenta ed elegante, che non alza mai la voce, che non si abbassa a raccogliere qualcosa che le è appena caduto, ma rimane in attesa che qualcuno lo faccia per lei.

    La cancellata si richiuse e mi avvicinai incuriosita per una rapida sbirciatina. C’erano magnifiche siepi armoniosamente modellate a forma di animale, panchine di ferro battuto, che di tanto in tanto interrompevano i piccoli sentieri di sassolini bianchi serpeggianti tra le aiuole fiorite e gli alberi curati: un giardino bellissimo.

    Il cancello automatico si aprì di nuovo, cogliendomi di sorpresa e facendomi arretrare con un balzo. Un SUV nero pronto a uscire giunse dall’altra parte, in attesa che i due battenti si spalancassero, poi avanzò di qualche metro e si fermò.

    «Stai cercando qualcuno?» disse una voce maschile proveniente dal finestrino elettrico che si abbassava. Era Alan.

    «Ehm… no, no. Stavo solo guardando le siepi».

    «Belle vero?» sogghignò compiaciuto. «Abbiamo un giardiniere che si occupa di loro».

    Feci un sorriso di circostanza, decisa a riprendere la mia strada. La sua aria strafottente mi stava già dando sui nervi.

    «Non ci conosciamo, vero? Sei nuova di queste parti?» attaccò.

    Solita tattica, pensai, e cominciai a camminare.

    «No, è evidente che non mi conosci» continuò tracotante, fiancheggiandomi con la macchina.

    Non accennai minimamente a rallentare, anzi accelerai il passo.

    «Ehi! Che fai, scappi? Non è quello che di solito fanno le ragazze con me. Proprio non sai chi sono» se ne uscì.

    «Sì che lo so» replicai aspra.

    «Però io non mi ricordo di te. Dovrei?» mi sbeffeggiò.

    Alzai gli occhi al cielo. Non sono certo una delle tue gattine, sempre pronte a fare le fusa, pensai.

    «Immagino di no. Comunque, sono Jessica, la nipote di Joe. Abitiamo in fondo alla strada, ti dice niente?»

    «Joe… chi?»

    «Jenkins. Joseph Jenkins. Hai presente Arnold, il giardiniere? Mio nonno gli dà una mano» ribadii alterata.

    «Aaah… l’aiutante del giardiniere» sottolineò divertito.

    Lo fulminai con lo sguardo. L’idea che mi ero fatta di Alan Muller diventava vera ogni secondo di più. Ripresi a camminare svelta, decisa ad allontanarmi il più velocemente possibile da quell’essere spocchioso.

    «Ehi, aspetta!» esclamò, poi tirò il freno a mano e scese dalla macchina in un lampo.

    «Senti… non volevo offenderti, ok?» Sembrava imbarazzato. Oppure continuava a fare il cicisbeo?

    «Ok» borbottai indecisa.

    Un cellulare dentro la macchina squillò. Con scioltezza, Alan infilò la mano attraverso il finestrino e lo prese dal cruscotto, scambiò due battute veloci, poi tornò a guardarmi.

    «Scusami… ehm, come hai detto che ti chiami?»

    «J-E-S-S-I-C-A» scandii, irritata.

    «Jessica, sì. Devo passare dall’ufficio di mio padre prima della scuola e sono quasi le sette e trenta. Ci si rivede, eh?» mi strizzò l’occhio e scattò verso la portiera.

    Guardai l’orologio e spalancai gli occhi.

    «Cosa? Le sette e trenta?» balbettai. «Cavolo, perderò l’autobus!» e iniziai a correre.

    Lui salì in macchina e mi raggiunse.

    «Dai, salta su!» gridò, abbassando il vetro elettrico.

    Scossi l’indice della mano sinistra. Non avevo nessuna voglia di farlo.

    «Eh dai! Ti do uno strappo» insistette, seguendomi con la macchina.

    «Non… credo… sia… una… buona… idea».

    «Prometto che farò il bravo». Aveva un tono canzonatorio.

    Mi fermai a riprendere fiato, piegandomi in avanti boccheggiante.

    «Tra quanto passa l’autobus?»

     Guardai di nuovo l’orologio e alzai tre dita.

    «Tre minuti? Fra due siamo lì, salta su».

    «Ok» ansimai mentre salivo ma, appena la portiera si chiuse, me ne pentii.

    «Vedi, non era poi così difficile» sentenziò, affondando il piede sull’acceleratore e facendo stridere le gomme sull’asfalto.

    Mi aggrappai al sedile e in un attimo arrivammo all’incrocio con la provinciale: sulla sinistra il Gipsy Bar, la gelateria e il negozio di generi alimentari del signor Gross; a destra la fermata dell’autobus.

    «Siamo arrivati!» esultò, inchiodando a pochi metri dalla pensilina. Ovviamente, tutti i presenti si girarono.

    «Sì… ehm, grazie» mormorai, scendendo svelta dalla macchina.

    «Alla prossima!» e partì a razzo suonando il clacson, attirando ancor più l’attenzione, semmai ce ne fosse stato bisogno.

    I giovani in attesa dell’autobus salutarono calorosamente, poi si volsero verso di me. Imbarazzatissima, raggiunsi la fermata a capo chino. Alcuni dei ragazzi che incontravo lì ogni giorno fecero un cenno, altri invece sogghignarono. Nel mucchio c’era anche Megan, una ragazza del quarto anno, che continuava a fissarmi con aria interrogativa e insistente.

    Dopo neanche un minuto, per fortuna, l’autobus sbucò da dietro una curva, distraendo il mio pubblico e liberandomi dai riflettori. Accostò, aprendo le porte con il caratteristico sbuffo pneumatico, e la ciurma vociante salì scomposta, sotto lo sguardo divertito dell’autista che ogni dì doveva sentirne delle belle durante quel tragitto. Mi accomodai verso il fondo, evitando però le ultime file. Quei posti erano riservati ai senior, i ragazzi del quarto anno. Il seggiolino accanto a me era rimasto libero e vi sistemai lo zaino, poi una voce mi distrasse.

    «Posso?» chiese Megan, indicando il sedile vuoto.

    «Oh… ma certo, accomodati pure» risposi sorpresa.

    Ci vedevamo tutti i giorni, anche se in realtà non ci conoscevamo granché. Era una bella ragazza, con i capelli corti spettinati e un sorriso affascinante. Non mi aveva mai rivolto più di un ciao e ora si era seduta accanto a me. La cosa mi suonò strana, ma cercai di darmi un’aria rilassata.

    «Fai il terzo anno, vero?» chiese.

    «Esatto, tu invece sei al quarto?»

    «Sì, proprio così». Aveva rotto il ghiaccio. «Non abbiamo occasione di parlare spesso, ma…» abbassò lo sguardo, «a costo di passare per impicciona, volevo chiederti… per caso esci con Alan Muller?»

    Ah, ecco. Ora la cosa aveva un senso.

    «Chi? Io? No, assolutamente! Perché… lo chiedi?» Ero di tutti i colori.

    Sorrise nervosa e imbarazzata a sua volta.

    «Ecco… niente. È solo che… Alan e io siamo amici e… non lo avevo mai visto accompagnare nessuna alla fermata dell’autobus. Mi è sembrato… insolito».

    «Ah… beh, ero in ritardo e… comunque mi ha solo dato uno strappo» riuscii ad argomentare, sempre più a disagio.

    «Oh, ma certo… va bene. Ora raggiungo gli altri. Scusa se… beh, hai capito, vero?» mi salutò.

    Feci un sorriso tirato e mi voltai a guardare fuori dal finestrino, sempre più sbalordita. Il solo fatto di essere vista in compagnia di Alan era sufficiente a dare adito a pettegolezzi?

    Anche se mi sembrava assurdo, evidentemente le cose stavano così.

    Alle otto meno dieci, il pullman si fermò alla pensilina adiacente alle scuole. Scesi accodandomi alla marmaglia di giovani che in breve raggiunse il cortile dell’edificio. Vagai con lo sguardo in cerca della lunga chioma bruna di Sally, senza riuscire a scorgerla, per cui mi intrufolai in quella giungla di corpi per cercarla. Passando tra i ragazzi percepivo stralci di conversazioni e odori. Alcuni studenti stavano sperimentando gli effetti della tempesta ormonale e, in preda a slanci romantici, si sbaciucchiavano stretti stretti. C’era chi chiacchierava e rideva sguaiatamente, chi ascoltava l’MP3 in solitudine e chi si radunava per fumare una sigaretta in compagnia.

    «Finalmente!» mi raggiunse Sally eccitata.

    «Allora, cosa c’è di così importante da non potermi dire per telefono?»

    «Oh, Jess! Non sto nella pelle!» disse con aria sognante, le mani al petto.

    «C’è di mezzo un ragazzo» esclamai a colpo sicuro.

    «Oh, sì!» e mi abbracciò eccitata. «Questa volta sono davvero partita. Non riesco più a mangiare, non riesco più a dormire. Penso solo a lui».

    «Chi è il fortunato?» sogghignai.

    «Alan!»

    «Alan… Muller?»

    Sally annuì, elettrizzata.

    «Beh… racconta» suggerii, mentre un campanello d’allarme mi suonò nella testa.

    «Dunque, sabato scorso ho accompagnato mio fratello Mike al centro commerciale: doveva comprare un regalo alla sua ragazza. Appena siamo usciti dal negozio, chi troviamo al bar? Oh, Alan è troppo fico! E mio fratello per una volta ne ha fatta una giusta. Sai, giocano nella squadra di football della scuola e siccome si conoscono… me l’ha presentato!» Sally, al culmine dell’esaltazione, si era alzata in piedi e parlava con un tono di voce a dir poco squillante.

    «Ok, ok, ma non ti sembra di correre troppo? L’hai visto solo una volta».

    «Due» precisò, alzando indice e medio della mano destra. «Ieri, casualmente, sono andata a vedere un allenamento, perché mio fratello aveva promesso di accompagnarmi di nuovo al centro commerciale e… ci siamo visti ancora». L’espressione birichina sul suo viso la diceva lunga.

    «Casualmente, vero?» sottolineai.

    «Fa il quarterback e gioca da dio. Oh, avresti dovuto vederlo! E poi, quando se n’è andato, mi ha fatto l’occhiolino!»

    Sorrisi incerta. Sally era una brava ragazza, ma perdeva facilmente la testa quando c’era un ragazzo di mezzo. Dovevo al più presto raccontarle ciò che era successo, prima che le chiacchiere montate ad arte dal passaparola potessero creare fraintendimenti tra noi.

    «Pensa, l’ho incontrato proprio stamattina: stavo per perdere l’autobus, ma per fortuna mi ha accompagnato alla fermata» dissi con estrema tranquillità.

    «Cosa? Com’è successo?» e mi prese per le spalle, scuotendomi.

    «Calmati, ti racconto tutto!» risi, ma in quel momento la campanella suonò, richiamando tutti all’ordine.

    «Accidenti» sbuffò lei, gettandosi i lunghi capelli bruni dietro le spalle. «Ok, niente panico! Alla ricreazione mi racconti tutto, d’accordo?»

    «Certo, stai tranquilla. Altrimenti so benissimo che mi darai il tormento». I suoi atteggiamenti mi divertivano sempre.

    Sally sospirò sorridendo e mi prese a braccetto. Seguimmo il fiume ciarlante di studenti che si insinuò disarticolato su per le scale, fino a raggiungere le aule, sigillate poco dopo dagli insegnanti.

    Le prime due ore di inglese scivolarono via abbastanza velocemente e, quando il suono della campanella annunciò la fine dell’ora di storia e l’inizio dell’intervallo, Sally era già in pole position.

    «Allora, com’è che ti ha dato un passaggio?»

    «Sai che Alan abita poco lontano da nonno Joe, no? Beh, come ogni mattina, stavo passando davanti alla villa dei Muller e mi ero fermata a guardare le siepi, quando lui è sbucato fuori dal cancello sul suo macchinone e mi ha vista».

    «E allora? Cos’è successo?»

    «Ci siamo messi a parlare… delle siepi animalesche e, mentre lui mi prendeva in giro, mi sono accorta che ero in ritardo pauroso e ho cominciato a correre!»

    Ah… e lui?»

    «Siccome era stato parecchio sbruffone con me, forse si è sentito in colpa e si è offerto di accompagnarmi alla fermata».

    «Ah… e tu?»

    «Non volevo salire in macchina, sai come la penso, ma era talmente tardi… se non avessi accettato non sarei arrivata in tempo».

    Lei mi fissò con aria cupa.

    «Dimmi la verità, piace anche a te?»

    «No, assolutamente!» dichiarai, alzando le mani. Non potevo crederci: quel giorno era la seconda volta che me lo chiedevano. «È stata una semplice coincidenza, tranquilla». Le misi una mano sulla gamba per rassicurarla.

    «Ah, meno male!» sospirò, appoggiando la testa sulla mia spalla. «Però, che carino, vero? Fermarsi per darti uno strappo. Magari fosse capitato a me!»

    Scoppiai a ridere insieme a lei. Non c’era niente da fare: Sally era così, incorreggibile.

    NEW ENTRY

    «Oh, eccoti qui» mi accolse nonno Joe sulla soglia di casa. «Com’è andata oggi?»

    «Abbastanza bene, se non fosse che, all’ultima ora, alla prof di matematica è venuto in mente di rifilarci una verifica per la prossima settimana» e crollai sul divano.

    «Hai mangiato a scuola?»

    «Sì, lo stomaco è a posto» e mi diedi due colpetti sulla pancia. «E tu?»

    «Oggi mi sono fatto gli spaghetti col sugo» gongolò il nonno.

    «Nooo, lo sai che li adoro!» mi lamentai.

    «Infatti ne ho preparati un po’ di più, così stasera puoi riscaldarli» commentò Joe soddisfatto.

    «Grazie nonno!» e lo abbracciai. Rinvigorita portai lo zaino di sopra, mi sciacquai il viso, indossai le pantofole, quindi tornai di sotto. «E voi, come procedono i lavori a villa Volta?» chiesi, avvicinandomi a Joe mentre lavava i piatti.

    «Oggi pomeriggio ci aspetta una bella sfacchinata, e pure disgustosa. Non hai idea di quello che abbiamo trovato scavando per togliere le erbacce».

    «Cioè?»

    «Ricordi che la signora Figg aveva una vera ossessione per tutti i suoi gatti?» disse, porgendomi un bicchiere da asciugare.

    «Certo. Un giorno con Danny ne avevamo contati almeno una ventina» risposi, riponendo le stoviglie nel mobile.

    «Evidentemente, ogni volta che uno dei suoi tesori ci lasciava le penne, non voleva separarsene, così… li aveva nascosti in giardino».

    Mi bloccai con un piatto a mezz’aria e il ribrezzo che si allargava sul viso. Quella povera donna aveva sotterrato i suoi gatti nel prato di casa, trasformandolo in un cimitero felino.

    «Il lavoro è più lungo del previsto e solo per ripulire ci vorrà tutto il pomeriggio. Perciò pensavo, visto che tu devi studiare, che ne dici se per cena prendiamo una pizza?»

    Sorrisi entusiasta. «Nonno, sei un grande!» e alzai il pollice.

    Con Joe era così, spesso non era necessario parlare, e anche per questo trasferirmi da lui era stata la scelta migliore. Mia madre non rientrava tanto spesso dalle trasvolate, per cui il nonno e io c’eravamo a poco a poco integrati nella gestione della casa e ce la cavavamo piuttosto bene.

    Quando terminai di asciugare le stoviglie, Joe se n’era già andato. Sistemai la cucina, dopodiché salii al piano di sopra, pronta a darmi da fare per la verifica di matematica del lunedì seguente: non avevo certo intenzione di passare tutto il fine settimana a studiare.

    Perciò quel pomeriggio, mentre fuori si scatenava un temporale, mi propinai un bel ripasso delle regole sulle derivate, e a seguire un’abbondante batteria di esercizi. Dopo diversi successi e qualche esclamazione colorita, mi accorsi che erano quasi le sei: richiusi libro e quaderno, ciò che avevo fatto poteva bastare. Mentre sistemavo la scrivania, il telefono squillò.

    «Ciao Jess. Mi spiace interromperti, ma Arnold e io avremmo bisogno del tuo aiuto. Eravamo venuti in bicicletta, ma qui continua a diluviare... ci verresti a prendere con Barney

    «Cosa?» esclamai esterrefatta.

    Nonno Joe possedeva un vecchio pick-up verde, un Ford F-250 degli anni ‘80, ormai un pezzo d’epoca, dove solitamente caricava gli attrezzi più grossi o la spesa. Da sempre lo chiamava Barney, perché diceva che aveva la stessa voce di un suo lontano prozio, piuttosto brontolone.

    «Ehm… nonno, nell’abitacolo non ci stanno più di due persone, anche a stringersi. Il terzo dove lo mettiamo?»

    «Nel cassone, ovviamente, insieme alle biciclette» e rise con Arnold a spalleggiarlo. «Allora, vieni?»

    «E va bene, arrivo».

    Avevo guidato diverse volte quell’aggeggio dal rombo imbarazzante, sotto lo sguardo divertito di Danny che, destreggiandosi sul trattore grosso tre volte tanto, mi sfotteva a causa della mia scarsa scioltezza, soprattutto in curva.

    Mi buttai addosso una giacca e corsi alla rimessa. Entrai nell’abitacolo e girai la chiave d’accensione: il motore si accese scoppiettante strappandomi un sorriso. Goffamente, ingranai la marcia e, poco a poco, lasciai il pedale della frizione. Appena fuori dal garage, lo scroscio d’acqua mi investì e non vidi più nulla: avevo dimenticato di accendere fari e tergicristalli, ma reagii subito evitando di combinare guai.

    La villa non era molto lontana, ma il percorso si srotolava in salita con curve semicoperte, fino alla sommità della collina.

    La tempesta imperversava, senza alcun accenno a calmarsi. Diversi lampi illuminavano la via, mentre i tuoni facevano tremare l’aria. E poi, avevo timore che qualcuno mi vedesse e potesse riconoscermi.

    Avanzai senza eccedere con la velocità, non volevo rischiare di perdere il controllo sul fondo bagnato. Vidi due fari venirmi incontro e trattenni il fiato fino a che riconobbi l’auto dei Bert, che lampeggiarono scambiandomi per Joe; poco più su, oltrepassai una berlina blu che non riconobbi, ferma sul ciglio della strada. La situazione era sotto controllo.

    Avevo quasi raggiunto la cima e, mentre costeggiavo uno dei campi di grano dei Garret, colsi con la coda dell’occhio qualcosa che sfrecciava lungo il boschetto, sul lato opposto. Doveva trattarsi di qualche animale selvatico, un procione o una volpe: era una zona di collina e non era difficile incontrarne alcuni. Incuriosita, accostai per un attimo e, dopo aver pulito alla meglio il finestrino coperto di condensa, vi appoggiai la fronte e rimasi in attesa.

    Per la seconda volta vidi passare qualcosa nel bosco, ma ero quasi certa che non si trattasse di un animale. C’era qualcuno che correva tra le piante. Forse un escursionista che raccoglieva funghi era stato sorpreso dalla tempesta. O da un istrice.

    Sorrisi all’idea del povero malcapitato di fronte alla corona minacciosa di aculei, poi ripartii. Fatte altre due curve finalmente arrivai a casa Volta. Il cancello automatico era aperto, lo oltrepassai e adocchiai due uomini in verde che da sotto la tettoia cercavano di attirare la mia attenzione agitando le mani.

    «Meno male! Il signor Volta è appena partito per andare in città e non c’è più nessuno in casa» disse Arnold.

    «Era per caso una berlina blu? Ne ho incontrata una poco fa» scesi dal pick-up.

    «Esatto. Si era offerto di darci un passaggio, ma ho detto che stavi arrivando con Barney» replicò nonno Joe, orgoglioso, mentre caricavamo le

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