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L'età delle madri
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L'età delle madri
E-book190 pagine2 ore

L'età delle madri

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Info su questo ebook

Domenico ha sedici anni e un padre che passa gran parte del tempo a dormire in poltrona. Non ha più intenzione di avere a che fare con la scuola, aspira a diventare un artista di collage e, sopra ogni altra cosa, vuole dimostrare al mondo di non essere più un ragazzino. Ha anche una fidanzata di ventun anni, Maria Vittoria, che ama molto, almeno fino a quando si mette in testa di conoscere sua madre. E da lì partono i guai. La madre di Maria Vittoria, Anna, lo accoglie subito in modo insolito, proseguendo poi tra perenni bevute, litigi assurdi e robot puliscipavimenti. E man mano che la loro conoscenza si intensifica - e si complica -, un passato di traumi irrisolti e un presente enigmatico, che riguarda tanto la madre che la figlia, vengono sempre più a galla. Mentre consueto e straordinario si ingarbugliano e intrecciano, così come le coordinate dei pensieri, Domenico conta i giorni che passano dentro e attorno alla casa di Maria Vittoria e Anna, che sembra prenderli come ostaggi e separarli dal resto del mondo. Fino a quando, invischiato in un triangolo periglioso e a dir poco singolare, Domenico si chiederà: "Posso tornare indietro?".
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2022
ISBN9788893332316
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    Anteprima del libro

    L'età delle madri - Punzo Vittorio

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    – specchi –

    Alter Ego

    © Vittorio Punzo, 2022

    © Utterson s.r.l., Viterbo, 2022

    Pubblicato in accordo con Otago Literary Agency

    Alter Ego Edizioni

    Collana: Specchi

    I edizione digitale: giugno 2022

    ISBN: 978-88-9333-231-6

    Copertina di Luca Verduchi

    Progetto grafico: Luca Verduchi e Stefano Frateiacci

    www.alteregoedizioni.it

    A mia sorella Erika

    "Possibile che tutto avviene come in un film,

    che tu lo vedi e pare che sta succedendo

    qualche cosa proprio in quel momento,

    e invece il film è stato già girato

    in un ordine diverso,

    e tutto è fermo nel rotolo del tempo?

    Sì, è possibile, è possibile".

    (Raffaele La Capria, Ferito a morte)

    Voluttà infantile

    Giorno 153.

    Io mi chiamo Domenico, ho sedici anni e dimostrerò che non sono un ragazzino.

    Lei è Mari V e non si tocca. Siamo nel borgo medievale, lì su c’è il castello normanno dove di notte, risalendo i vicoli che portano alle torri, è possibile incontrare lo spirito del conte D’Avalos, che nel quindicesimo secolo si preoccupò di rimettere in sesto quello che era ormai abbandonato e lasciato alla morsa corrosiva del tempo. Ora più o meno la situazione è al punto di partenza, le crepe risalgono le mura e le abitazioni sono pericolanti come i pochi vecchi rimasti a occuparle. Nessuno passerà ad aggiustare niente, nessuno se ne frega, le edere hanno mangiato tutto e le piante crescono a partire dagli scarichi delle docce. Siamo seduti con i piedi a penzoloni e da qua gli uomini di Pacifica sembrano formiche. Ombre, pure.

    Vorrei stringerle la mano. Lo faccio. Vorrei abbracciarla, faccio anche questo, ma per un attimo, non posso esagerare. L’ho già abbracciata, poco fa.

    Me la sto godendo appieno la storia con Maria Vittoria, lo capisco benissimo da questi momenti, non ho più niente che mi impedisca di starci bene, non ci sono più quelle persone che mi dicono lasciala stare, lei non fa per te. E anche Maria Vittoria non ha più freni, non c’è più chi le dice che è un rischio stare con me, che si sta confondendo, che sono troppo piccolo per lei che ha ventun anni e io sedici; i più simpatici dicevano occhio che ti arrestano. Vorrei dirle io per cosa è fatta, le direi ecco tesoro mio, questa è la vita, puoi stare tranquilla, non sei una che approfitta. Penso che se due vogliono stare insieme, all’inizio devono dimenticare ogni cosa, deve essere naturale, non bisogna neanche pensare di non pensare.

    Io mi chiamo Domenico, lei è la mia ragazza, Maria Vittoria. Sono innamorato. Posso dirlo, parlo con me stesso, non c’è il rischio di sembrare smielato.

    Mi sistemo sul cemento scomodo. Le chiedo come stai lei mi risponde bene. Le propongo di andare lassù. Risaliamo il dedalo di stradine verso le torri, questo posto non è morto, sta morendo. Una vecchia ci spia dalla finestra da una colonna di cemento, sarà casa sua. Signo’, le dico. Ridiamo, non sappiamo niente di quella vecchia e ci pare che la vecchiaia è anche dar fastidio a chi è giovane e in forze. Capita che se passi per di qua, di notte, la vecchia si affaccia e ti lancia un secchio d’acqua o una bestemmia. Acqua e pipì o acqua e farina, dipende. Le bestemmie non mancano. Comunque è un modo che hanno per insegnarti a campare, dice Maria Vittoria. Io non so quanto sia giusto tenere conto del tempo che passa. Però mi sembra utile pensare che anche io sarò lassù un giorno, a pretendere rispetto a suon di secchi d’acqua. Lo chiedo a Maria Vittoria e mi risponde che secondo lei no, non è giusto, noi non saremo come loro. Allora non pensiamo a quando saremo vecchi, però pensiamo ai vecchi. E quindi formichiamo tra le mura pericolanti, passiamo sotto i sostegni di legno chiaro che sono per noi come i torii giapponesi sul sentiero dell’amore eterno. Getto un occhio alle case con le finestre aperte, lei ai ragni nelle fessure, io alla catasta di lumini scarichi, lei a un albero caduto ora utile al sostegno di una parete, io il cielo, lei la terra, io inciampo lei mi afferra. E poi dico, una casa senza porta là, mi avvicino e tasto il pavimento con un piede, è pieno dico, la guardo e le dico entra prima tu. Lei entra, mi allunga le mani, i suoi occhi mi guidano e iniziamo a ballare, là dove le persone hanno dimenticato che c’era vita, ci siamo noi.

    La polvere pizzica nel naso e io e Mari V danziamo e ci strusciamo e ci confondiamo nei passi perché non so ballare e ci perdiamo in un bacio quasi triste perché qualcosa sta crescendo nel nostro scarico di doccia segreto oppure perché la noia sta arrivando tra di noi, ma non credo. Comunque prima di uscire mi stringe la stoffa della giacca, se fosse pelle l’avrebbe già strappata. Corriamo verso il basso, non ci interessano più le torri. Vogliamo vedere la vegetazione dove si tuffano le case vuote. Arriviamo in un punto morto, nessuna pietra, solo terra e bosco e spine.

    Restiamo impalati a guardare il muro di piante, penso che non è il momento di toccarle la mano. Torniamo indietro e discendiamo la collina verso la macchina. Mentre camminiamo, io e Maria Vittoria ora al centro della strada, cerchiamo di tenerci e non tenerci. Già dopo due mesi, lei mi ha detto sembri un polpo. Io da quel momento ho iniziato a fare attenzione e ora, dopo cinque mesi, so bene dove e quando essere un polpo.

    Per strada le chiedo a te piace sognare. Lei mi risponde sì, per quello che è possibile oh sì. Allora, qual è il tuo sogno. Ora sta zitta. Vivere a Bruxelles, dice. Ah possibile le dico. Mi dice che intorno alla capitale, verso le periferie, i paesi diventano strani e in un quartiere a est per esempio girano quasi tutti con delle Mercedes vecchie anni Ottanta, le ragazze con gli scaldamuscoli e gli uomini con la brillantina, nei locali c’è la musica dal vivo e tutto, nel tempo, è confuso. Ne parla come se oggi fosse domenica, come se stessimo per mangiare il gelato. Io le dico perché non fare un viaggio. Lei mi risponde perché no. Io le dico che ho i soldi, lei mi dice io no. Ma riusciremo lo stesso le dico.

    Penso che un giorno o l’altro, lei potrebbe fuggire in Belgio.

    Non lo farà.

    Ha stretto nel pugno il mio indice e medio, nel mentre percorriamo la vecchia tranvia ora strada aperta al traffico, qua vicino c’è un amico che fa il macellaio. Ci avviciniamo al cancello di casa sua e guardiamo la testa di un cinghiale impagliato che tiene là sulla parete, delle api hanno riempito le narici e la bocca. Okay Domenico, il braccio. Non la mano, troppo invadente. Il braccio. Ecco, così, come per giocarci. Camminiamo ancora al centro della strada, hai già pensato a un lavoro da fare in Belgio le chiedo. Mi dice che non è il momento di andare via, ma nel caso farebbe la panettiera di notte e la poetessa di giorno. Mi sembra una buona idea, poi però dovresti mettere degli gnomi a guardia della casa le dico. Perché mi chiede. Stimolano l’immaginazione. Sì esatto, ridi, brava.

    Comunque, sapevi che mangiano cozze e patatine loro, in Belgio, le dico.

    Cozze e patatine.

    No non fare quella faccia.

    No, no.

    Cambierai idea le dico.

    Questo voglio essere, esploratore, scopritore, inventore per lei. Cucinerò io le cozze, una marea di cozze e patatine fritte. Le dirò ecco questo è il sapore del Belgio. E dopo aver assaggiato il mio sauté chiederà il bis e di stare insieme, con me, per sempre. Le lascio del tempo per immaginare la sensazione. Si perde nell’idea delle cozze e in un lungo silenzio. Ora le dico sai che sto pensando a un collage con il tuo viso, già lo vedo, tutto scomposto, sì Maria Vittoria.

    Sono centocinquantatré giorni, quasi ventidue settimane, cinque mesi, e se ho capito qualcosa è che devo farla ridere quando è triste e, a volte, piangere quando è felice. È impegnativo, ci vuole costanza e dedizione. Tra l’altro mi sto accorgendo che è tutto una promessa prima con me stesso e poi con lei.

    Il tempo passerà, vorrei poterle assicurare, vivrò dei miei collage e verrò con te in quel paese che hai detto. Certo che verrò.

    Amiamo la vecchia tranvia, ci sembra di calpestare un reperto archeologico. Maria Vittoria ha parcheggiato proprio là, ai piedi della collina.

    Guida lei, io faccio da passeggero. Il suo smalto è color carne un po’ lucido, praticamente un tono distante dal suo colore naturale, un piccolo cambiamento e un piccolo estraniarsi dal suo corpo originale, un tentativo ben riuscito, brava Maria Vittoria, sai essere anche chi non sei. Il giusto però.

    Siamo davanti casa sua. Scende, gesticola un po’, cerca nella borsa e mi si smuove qualcosa nel petto, come il conte D’Avalos mi scuoto, mi ammuino, scrollo le spalle e realizzo. Se è il momento di entrare, sia. La guardo, fisso negli occhi. Guardo casa sua.

    Mi dà i soldi e mi chiede un piacere proprio fondamentale.

    Le ho comprato le sigarette alla fine della strada e ora ci siamo nascosti per fumare. Mi dice che non ha il coraggio di dirlo alla mamma, ha vergogna e non le va di spiegare perché lo fa. Hai ventun anni penso, dovrai farlo.

    Avrai il tuo motivo, le dico, cerca di spiegarlo.

    Ci vediamo stasera mi dice.

    Potrebbe, quindi, invitarmi a cena penso.

    Scusa se non ti invito a cena mi dice.

    Tranquilla, non ci stavo neanche pensando, ho da fare fra l’altro.

    Dopo quanto tempo uno può entrare in casa della sua donna. Guardo il cielo e mi pare proprio un bel colore, la gente inizia a uscire, tutti escono il venerdì sera e vanno al bar. Faccio la scorciatoia tra i palazzi e piano mi avvio verso la parte alta di Pacifica, dove c’è il mio letto, la mia stanza, insomma dove c’è il posto che chiamo casa.

    154, è sabato. Vediamo. La nostra fortuna è che le persone sono sempre tutte in piazza, belle dritte e ferme al loro posto. Non passeggiano, perché secondo loro vedersi spesso in passeggiata allontana dal sentirsi o dall’essere speciali di quella specialità che solo loro capiscono.

    Ieri sera, dopo la cena nelle rispettive case, io e Maria Vittoria abbiamo diviso un cognac, giusto un goccio, da trattenere sulle labbra per farle addormentare. Mentre fumavamo un sacco di sigarette seduti a un tavolino, un tizio guardava Maria Vittoria con degli occhi che non mi piacevano proprio per niente. Le ho chiesto chi è, lei mi ha fatto una carezza sulla guancia e poi mi ha guardato i capelli. Mi sono incazzato e ho tirato un pugno sul tavolo.

    Andiamo al fiume domenica mi dice.

    Dimmi chi è non distrarmi apposta.

    Ma che ne so io Dome’.

    Non fare la finta ingenua le dico.

    Allora è successo proprio che lei ha aperto la bocca e mi ha risucchiato come uno spaghetto via dal capanno del bar, mi ha portato lontano, con un bacio proprio buono.

    Il resto della serata, nel buio tra i palazzi di Pacifica, ci siamo messi a fare delle cose spogliati nudi solo con le mutande. I baci all’inizio erano strani, ma poi ci siamo accarezzati, senza dire una parola abbiamo infilato le mani uno nella mutanda dell’altra, tutto il resto è musica che le persone sui balconi hanno ascoltato con piacere come no.

    155.

    Oggi invece è domenica, ho qualche idea per il mio futuro.

    È il giorno del fiume.

    La sto aspettando in piazza mentre fumo e che bello fumare la domenica. C’è un vecchio seduto al tavolino di un bar chiuso. Stringe un pomodoro e un tozzo di pane nella mano sinistra. Mi guarda e io lo guardo. Dà un morso al pomodoro, io do un tiro alla sigaretta. Morso al tozzo di pane e alza la mano verso di me, io do un tiro alla sigaretta mentre il vecchio mi chiede qualcosa con la mano. Tipo la sventola, l’avvicina alla bocca e che fa mi manda un bacio. Cammino verso di lui perché mi stanno simpatici i vecchi così.

    Vuole una sigaretta.

    Ho una sigaretta, gli dico. Non capisce, fa niente. Ecco la sigaretta e dico che anche io mangio sempre il pane con il pomodoro. Lui fa sì con la testa e mi dice tu chi sei. Domenico, il nipote di tizio e cugino a sempronio. Il vecchio ha tante rughe impressionanti.

    Zitti tutti, basta, fermatevi, fa lui in preda a una visione.

    Voi vivete qui, gli chiedo. Lui guarda dietro.

    Voi, indico con il dito lui.

    No, abito là.

    Va bene.

    Prova ad alzarsi ma non ci riesce. Ride e mi chiede una sigaretta. Ma sì, un’altra. Gliela appoggio sul tavolo ma lui sbraita.

    Togli là, no la voglio, dice.

    Hai ragione, nella vita vedici i colori che ti pare vecchio caro. Qualsiasi

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