Città: Luoghi, persone, dialoghi e immagini
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Anteprima del libro
Città - Gian Guido Folloni
Collana Sentieri
CITTÀ
Luoghi, persone, dialoghi e immagini
di Gian Guido Folloni
Proprietà letteraria riservata
©2022 Edizioni DrawUp
www.edizionidrawup.it
redazione@edizionidrawup.it
Progetto editoriale: Edizioni DrawUp
Direttore editoriale: Alessandro Vizzino
Grafica di copertina: Adriana Giulia Vertucci
I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.
Nessuna parte di questo eBook può essere utilizzata, riprodotta o diffusa, con qualsiasi mezzo, senza alcuna autorizzazione scritta.
I nomi delle persone e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtà.
ISBN 978-88-9369-325-7
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Prefazione
V’è chi sogna spazi vuoti e chi rincorre luoghi d’incontro, le città. Nelle pagine che seguono, l’autore ci accompagna con tocco lieve e garbato in un virtuale giro del mondo per catturare le rughe delle città visitate, com’egli chiama questi avvallamenti di vita vissuta, contagiandoci con atmosfere e umori, ambienti e persone in una giostra di percorsi solo apparentemente dispersivi.
Come lampi che squarciano il cielo dell’immaginazione, questi spicchi narrativi si dipanano da un continente all’altro, portando alla luce momenti di interazione, argute osservazioni sui luoghi visitati, curiosità inattese. Si tratta di granelli di pensiero nascosti che vengono così disseppelliti, talvolta con ironia e colta indiscrezione, in una raccolta d’immagini che costituisce un vero e proprio periplo del pianeta.
Possiamo perderci nella folla immensa che invade il lungofiume di Shanghai o nell’incanto d’antan dell’antico Egitto, ammirare ammutoliti le distese infinite delle Ande o la magnitudine della muraglia cinese edificata a protezione del nulla, interrogarci sul mistero struggente delle calli veneziane, sulla malinconia delle pietre di Gerusalemme o sul fascino morboso dei grattacieli di New York; ovunque ci conduca la sete insaziabile di decifrare nuovi mondi, saranno sempre le nostre trepidazioni profonde, dove l’inconscio si sottrae alla guida della coscienza, a dare significato agli incontri con luoghi e persone che incrociamo sul cammino dell’esistenza, poiché è lo sguardo dell’uomo che dà senso al mondo.
I viaggi iniziano ben prima della partenza. Intrecciando conoscenza, letture, immagini oniriche, la mente costruisce in anticipo cornice e contenuti di quel che ci attende, cercando di superare la barriera dell’ignoto, di figurarsi persone, lingue e contesti che incontreremo. Con la prefigurazione onirica di questi spazi cerchiamo di sfuggire a quell’ansia sotterranea che sempre accompagna l’attesa dell’ignoto.
Arrivati alla meta e scostata la polvere, finiamo per intravedere tra le rughe delle scoperte una parte di noi, e finanche quella che sfugge solitamente alla coscienza. Talora vediamo quel che siamo, non quel che c’è, e siamo confrontati con un altrove diverso da quello pensato, con screpolature che erano rimaste sinora sepolte in profondità. A casa, nell’attesa, il sogno non aveva sembianze, perché gli è precluso di figurarsi in forma precisa, nemmeno nella fantasia. Quell’altrove, tuttavia, era diverso dal qui e ora. La magia sotterranea di ogni viaggiare è infatti la scoperta, e la sorpresa. La vocazione biologica dell’uomo al nomadismo è un’eredità essenziale. Nemmeno l’incanto di un luogo abbagliante riesce a frenare, sul filo del tempo, l’istinto umano di sciogliere gli ormeggi. Nelle angolature di tali pulsioni trovano insieme rifugio il desiderio di fuga, la voglia d’avventura, l’eccitazione di perdersi o il desiderio di conoscere. E così che nasce la voglia di partire verso Sud, un Sud non geografico ma onirico, avvolto in un sapore insieme intuito e misterioso, dove possiamo trovare rifugio, almeno per un po’, dal mondo in cui viviamo.
Nello sforzo di anticipare l’incognito, veniamo talvolta confermati nelle nostre pre-visioni: New York è proprio come l’avevamo in mente, film e immagini l’avevano dipinta esattamente com’è. Altre volte l’immaginazione anticipatoria non coglie nel segno: la Persia, Pechino o il Perù emergono dall’oscurità, non peggiori, né migliori, solo diversi, attraverso percorsi che si costruiscono strada facendo, lasciandoci un bottino di ricordi da rivivere una volta tornati a casa.
Non solo nei luoghi esotici (ma ci sono ancora posti così?), veniamo catturati da una ruga, una persona o una scena di vita, che rimarranno per sempre nella memoria, mentre su tutto domina il fascino della sorpresa che dipinge di effervescenza il nostro tragitto di vita.
Eppoi, nel traversare altri mondi e culture, pacifici o turbolenti, si diventa più indulgenti, tocchiamo con mano che siamo nati e moriremo sotto lo stesso sole. Nessuno è più un nemico quando ne conosciamo la storia.
Talvolta scatta l’innamoramento o la passione per un luogo, una cultura, un popolo, e allora l’avventura, cominciata come un gioco, non ha più fine. Se invece il viaggio è breve, il cerchio a un certo punto sembra chiudersi e la voglia di nomadismo cedere alla nostalgia. Ma poi, di nuovo, nell’inquietudine dell’eterno alternarsi di fuga e riappacificazione, l’instabile essenzialità dell’uomo riemerge, e torniamo al desiderio insopprimibile di partire.
Il fascino del viaggio, come affermava l’inquieto Bruce Chatwin, è nel durante: eccitazione della partenza, riposo e riflessione, e poi riprendere il cammino. È solo nello spazio della transizione che il nostro io sembra acquietarsi. Lontano dai due poli, può finalmente fantasticare sull’ignoto. Il viaggio vive di se stesso, nella caducità della transizione, specchio ontologico della fugacità dell’esistenza umana. Se l’indulgenza dell’autore-viaggiatore dà l’impressione di scivolare di lato su questi temi, essi emergono tuttavia con levità nelle rughe delle pagine.
Chi ha trascorso lunghi anni della sua vita in altri luoghi fa fatica a mantenere distinti i tanti ricordi che si sovrappongono in un intreccio inestricabile di luoghi e persone. Il viaggiatore breve, invece, tende a separarli dalla vita ordinaria, con un focus nitido e distinto, e solo in apparenza meno esposti all’oblio. Eppure, tutto cede all’usura del tempo. Ma in fondo poco importa che restino o meno impressi per sempre, perché impronte, incontri e immagini hanno già colpito nel segno. Esse sono ormai parte di noi. Lo sguardo del prima non è più quello del dopo. La metamorfosi si è compiuta, il confronto ha sfidato le certezze, che sono ora divenute mobili. I pensieri sono più incerti, la patologia della fissazione è stata scalfita. Quei luoghi sono diventati le nostre pupille, e le parole che li evocano sono ora una marcatura incerta, esprimono dubbio e mobilità. Il pensiero classico cinese (il Tao) ci ricorda che se abbiamo qualcosa da dire e lo diciamo, questo è il più grande dei peccati, perché così facendo, l’uomo, con la sua presunzione di sapere, offende l’armonia dell’universo, ontologicamente silenziosa: quel che abbiamo da dire, dunque, resti sepolto in noi. Questa norma, tuttavia, può essere infranta - e anche i taoisti potrebbero concordare - quando la levità della penna, come