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Giovane carina molla tutto e cambia vita
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Giovane carina molla tutto e cambia vita
E-book276 pagine3 ore

Giovane carina molla tutto e cambia vita

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Info su questo ebook

N°1 in Inghilterra
Uno straordinario successo internazionale 
Tradotto in 13 Paesi 
È arrivata la nuova Bridget Jones

A volte bisogna fare un salto nel buio, mollare tutto e seguire i propri sogni. Claire Flannery ha trovato il coraggio di farlo. E adesso? Claire ha lasciato il lavoro per scoprire la sua vera vocazione, ma non sa da che parte cominciare. Correre la maratona di New York? Finire di leggere tutti i classici lasciati a metà? Di fronte a lei ci sono tantissime possibilità, forse troppe. E intanto le giornate passano tra un giro su internet, un bicchiere di vino di troppo a pranzo e gli incoraggiamenti della nonna («Ricordo cosa significa avere la tua età. Certo, io avevo già quattro figli…»). Gli altri intorno a lei sembrano avere tutto sotto controllo, a Claire invece sta sfuggendo tutto di mano. Intenso, tenero e divertente, il brillante esordio di Lisa Owens è la storia di una donna in un delicato momento di cambiamento, il diario di una trentenne confusa e (in)felice: la voce fresca e profonda della nuova generazione è arrivata.

«Un esordio intenso, assolutamente coinvolgente.» 
Vogue

«Un romanzo che affronta in modo profondo i dilemmi con cui si confrontano i giovani professionisti di oggi: acuto, incisivo e incredibilmente divertente.» 
The Observer

«Un romanzo ricco di riflessioni scoppiettanti, la vera e propria voce di una generazione.» 
Glamour 

«Piacevole esordio della simpatica Claire Flannery... la Owens riesce a trovare il lato comico nei dettagli della vita quotidiana e il suo romanzo è pieno di osservazioni acute sull’importanza del lavoro nelle nostre vite.» 
Bookseller
Lisa Owens
È nata nel 1985 e vive a Londra. Ha lavorato nel campo dell’editoria per sei anni e ha conseguito un Master in scrittura creativa presso l’Università di East Anglia. Giovane carina molla tutto e cambia vita è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2016
ISBN9788854196025
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    Anteprima del libro

    Giovane carina molla tutto e cambia vita - Lisa Owens

    1

    Timida

    Fuori dalla porta del mio appartamento c’è un uomo con un paio di pantaloni di cotone, verde militare, e un’enorme spilla su cui c’è scritto Palestina libera.

    «È la proprietaria?», chiede. Mi volto per vedere con chi sta parlando, ma dietro di me non c’è nessuno. Cerco di ricordarmi da che parte sto nel conflitto israelo-palestinese.

    «Sì, credo di sì», rispondo; poi, con più impeto, una volta che ho preso sicurezza: «Sì, sono io la proprietaria».

    Lui si gratta il collo, che è nero di sporco. Anche le orecchie hanno una sfumatura cinerea.

    «Deve togliere la buddleia. È pericolosa».

    «Ah, certo», esclamo, guardando nel punto che sta indicando: una colonna di gesso sulla facciata con una decorazione in cima. Non l’avevo mai notato, ma adesso mi accorgo che l’intonaco è crepato e lercio. Se mi avessero chiesto come si chiamava, e se ci fosse stato in palio un milione di sterline, avrei risposto balaustra. «Non ha una funzione portante?», domando.

    L’uomo mi fissa lisciandosi la barba, che termina in una treccina sottile.

    «È erbaccia. Non dovrebbe stare lì», spiega, e finalmente capisco. Dalla parte superiore della colonna spunta una pianta, uno zampillo di fiori viola: è molto carina.

    «E… scusi, lei chi è?». Mi chiedo se questo tizio lavori per il Comune, se sia un vicino o solo un passante ficcanaso.

    «Colin Mason, lavoratore certificato MBE¹: appartengo a una minoranza etnica», risponde, porgendomi la mano polverosa.

    Esito per una frazione di secondo, poi prevalgono le buone maniere e così gliela stringo.

    «Claire», esclamo.

    «Me ne occupo io, allora?», mi propone, indicando con un cenno la pianta. «Do anche una mano di pittura, già che ci sono».

    «Mmm, solo che… prima voglio consultare il mio ragazzo, la casa è di entrambi. Come faccio a contattarla?»

    «Sono da queste parti», risponde. «Mi vedrà in giro».

    Vado dentro per lavarmi la mano e chiamare Luke. Risponde la sua collega, Fiona.

    «Si sta preparando per un’operazione», spiega lei. «Posso farti richiamare?»

    «Se non ti scoccia, potresti tenere tu il telefono, così gli dico una cosa? Due secondi, giuro».

    Si ode un fruscio, poi la voce di Luke.

    «Che succede?»

    «Un problema con l’appartamento. C’è da togliere una buddleia».

    «Una che?».

    Sospiro. «È un’erbaccia. Una pianta con i fiori viola. Fuori c’è un tizio che sostiene che dobbiamo eliminarla».

    «Che tizio?»

    «Colin Mason».

    «Chi è?»

    «È un MBE. È stato irremovibile».

    «Be’, cosa vuoi fare? Devi chiamare qualcuno? Te ne occupi tu? Claire», esclama brusco, «io devo andare».

    «Sì, me ne occupo io. Progetti per cena?»

    «Non torna a casa per cena», risponde Fiona. «Lavora fino a tardi».

    «Ah», mormoro. Penso che sulla faccenda della pianta terrò duro per adesso; vediamo che piega prende.

    Metro

    Tre donne davanti a me parlano del tempo, come se fosse un amico che non apprezzano granché.

    «E poi un’altra cosa», aggiunge una, sporgendosi in avanti. «La mia regola di non portare le calze fino a ottobre è già bella e dimenticata».

    Le compagne fanno su e giù con la testa, scavallano e riaccavallano le gambe fasciate di nylon.

    L’altra

    Durante la sua pausa pranzo, mi telefona mia madre. Dai rumori di sottofondo capisco che è al bar.

    «Dove sei?», mi domanda, come se cogliesse una cacofonia insolita, invece del silenzio della mia cucina.

    «A casa».

    «Capito. Come va tu-sai-cosa?».

    Intende la ricerca del lavoro: incredibile, il fatto che la chiami tu-sai-cosa è meno irritante della domanda in sé.

    «Bene, sì. Ci sto dando dentro».

    «Senti, prima che attacchi, dimmi cosa ne pensi. Stanotte ho fatto un sogno orribile in cui vedevo Diane, la… Diane del lavoro. Era sicuramente Diane, ma nel sogno pensavo che fosse qualcun’altra, una sconosciuta».

    Finora, l’ho sempre sentita descrivere da mia madre come Diane, la signora nera che sta alla reception. Ho la sensazione che non sia finita qui.

    «La cosa divertente», lo dice come se ci avesse pensato solo adesso, «è che ieri in città ho visto davvero una donna che ho scambiato per Diane, mi sono avvicinata per salutarla e infine mi sono accorta che non era lei». Ride. «Claire, che ne pensi? Secondo te, si è offesa?»

    «Chi?», chiedo, inevitabilmente. «Diane, o la persona che hai scambiato per Diane?»

    «L’altra signora. Non Diane. Credi che abbia capito che l’ho confusa con un’altra? Con un’altra…».

    «Un’altra donna di colore?», la aiuto.

    «Oh», esclama mia madre, «non credo che sia molto politically correct. Al giorno d’oggi, forse non si può dire di colore».

    Metro

    Qualche posto più in là, c’è un anziano che fa la maglia, calvo e avvolto in un enorme pullover di lana bianca. Gli sorrido e inarco le sopracciglia in segno di simpatia, ma proprio in quel momento noto gli orecchini, lunghi e viola, e capisco che non si tratta affatto di un signore, bensì di una donna, e non così vecchia: ha l’età di mia madre, forse, e ha perso tutti i capelli. Mi sorride, sferruzzando, e io resto con le sopracciglia alzate e il sorriso stampato sulla faccia, a fissarmi le mani, che tengo immobili in grembo.

    Dopo il funerale

    Una volta portati via i piatti, i camerieri – che sono a malapena adolescenti – ci servono il dolce: coppette di gelato sul punto di sciogliersi e frutta che nuota nello sciroppo. Sono seduta al tavolo dei piccoli insieme agli altri bambini. (Siamo tutti sopra i venticinque anni). Mio cugino Stuart, che sotto la giacca indossa una maglietta con su scritto No Fear, mi chiede cosa faccio ultimamente.

    «Sto cercando di capirlo», rispondo. Ho bevuto un sacco di vino: continua ad arrivare, e io continuo a bere. «Ho lasciato il lavoro da due settimane, voglio prendermi un po’ di tempo per trovare la mia strada. Non in senso religioso, ma credo che tutti abbiamo uno scopo. Per esempio, tu eri fatto per lavorare con i computer. Ha senso, tutto torna». Mi azzittisco, per l’improvvisa paura che non sia un ingegnere informatico. Lui, però, annuisce.

    «Il marketing non era la tua vocazione, quindi».

    «Comunicazione creativa», lo correggo.

    «Confesso, non ho mai capito esattamente di cosa si trattasse».

    «È…». Mi preparo a lanciarmi in una lunga spiegazione, poi mi rendo conto di non esserne più obbligata. «Ormai non importa».

    «Non ci sono cucchiai», annuncia Stuart, allora faccio cenno a uno degli adolescenti di avvicinarsi.

    «Puoi portarci dei cucchiai, per favore?». Il solo fatto di averlo dovuto chiedere mi indigna, e il mio tono è freddo al punto giusto. Il cameriere fa un sorrisetto. Quando torna, stringe fra le mani un mazzo di coltelli, che lascia cadere davanti a me in una cascata d’argento.

    «Sono finiti i cucchiai», risponde. «Anche le forchette. Oggi è molto affollato».

    Scrollo la testa. «Incredibile», mormoro a Stuart mentre distribuiamo le posate. Stacco una porzione dalla collinetta tremula del gelato e me la porto con cautela alla bocca. Guardo il tavolo a cui è seduta la mia povera nonna. Ha appena seppellito quello che è stato suo marito per sessant’anni e sta mangiando mezza pesca infilzata sul coltello: sembra un lecca-lecca.

    Al caffè, il padre di Stuart, lo zio Richard, fa un discorso su Gum. Accenna in tono scherzoso all’orgoglio che nutriva Gum per le sue ferite di guerra, le cicatrici delle tante operazioni.

    «È vero che amava mostrare le sue ferite di guerra», spiego io al nostro tavolo. Mio cugino annuisce e sorride, mormorando qualcosa a conferma. «E anche qualcos’altro», esclamo, indicandomi il ventre e ridendo. «Persino dopo l’operazione al cuore».

    «Che schifo», esclama mia cugina Faye. «Cosa? Gum ti faceva vedere il suo…?»

    «Oh, no. No! Se dico mostrare sembra che… non era… non credo che lo facesse di proposito», spiego. Mi stanno guardando tutti. Nessuno parla. «A dire la verità, non era niente di speciale. Per niente. Ho sempre pensato che fosse… insomma, nessuno di voi ha mai notato… che a volte gli scappava?».

    Faye sta scuotendo la testa. Le orecchie, che fanno capolino dai capelli biondi e sottili, sono diventate paonazze. Mi guardo intorno, osservo le facce degli altri cugini: per lo più fissano la tazzina del caffè. Rovescio una bustina di zucchero nella mia e giro con il coltello del dolce, che ho conservato.

    Sogno

    È notte, guido sull’autostrada, i fari non si accendono, ma tutte le auto che passano hanno gli abbaglianti: lampi, intervallati da tratti di buio inquieto.

    Il contesto è tutto

    «La buddleia (o buddleja)», secondo un sito, «può essere, a seconda dei casi, un bel cespuglio fiorito che attira le farfalle o un’erba infestante, distruttiva e dannosa».

    Autobus

    Prendo l’autobus per andare in palestra, un hobby che in realtà non posso più permettermi. Scelgo un sedile accanto al finestrino e provo ad andare avanti con il libro. (Sto leggendo Ulisse da quasi nove mesi). Dopo essere tornata sullo stesso paragrafo per cinque o sei volte, alzo lo sguardo, alla disperata ricerca di un attimo di tregua dalle parole. Un vecchio con una giacca celeste e lunghi capelli radi avanza lentamente nel corridoio. Si guarda intorno in cerca di un sedile, ma sono tutti occupati e nessuno si alza; con piglio stoico serra la bocca e afferra la maniglia. Per un attimo penso di lasciargli il posto, ma dovrei chiedere alla donna seduta accanto a me di alzarsi per farmi passare: ha l’aria importante ed è vestita di tutto punto, come se andasse a una riunione. Sta leggendo degli appunti e non voglio disturbarla, né farla sentire in colpa per non aver offerto il sedile all’anziano. Torno a concentrarmi sull’Ulisse e, fingendo disperatamente di non aver notato il vecchio, riesco infine ad arrivare alla fine della pagina. Quando la donna accanto a me scende, il signore rimane dov’è. Lo vedo ondeggiare e fare passettini di lato a ogni movimento dell’autobus: sta ballando con le scarpe ortopediche.

    Palestra

    In palestra, tento di disdire l’abbonamento.

    «Devi aspettare il tredici per presentare la richiesta, e il contratto decadrà dopo due mesi», spiega la donna di nome Frankie, come dice il cartellino. È Halloween, ed è vestita da strega, con tanto di cappello, manto e unghie laccate di nero. Sotto il mantello, indossa una tutina nera lucida.

    «Ma manca un mese al tredici», rispondo. «Non possiamo far finta che sia oggi?»

    «Si potesse!», esclama lei, facendo frusciare una latta di caramelle vintage come consolazione. Afferro un pacchetto di violette di Parma e le sgranocchio due alla volta.

    Lei guarda nell’archivio. «Vedo che non ti sei ancora sottoposta al check-up completo. Lo facciamo adesso, visto che sei qui?». L’ho rimandato per tanto tempo nell’attesa di rimettermi in forma, perché volevo un punteggio più alto di Luke, ma sono passati due anni. Be’, considerato che sto per smettere, posso anche togliermi il pensiero. Frankie esce dal banco della reception e mi conduce a un tavolo, portandosi dietro la scopa di plastica.

    In risposta al questionario, dico a Frankie che non bevo caffè, né alcol, e che dormo nove ore per notte. La pressione è buona, e anche la frequenza a riposo; tuttavia, quando testa la mia capacità aerobica sul tapis roulant, voglio fare una buona impressione, allora esagero e per poco non cado: vedo tutto nero e rimango senza fiato.

    «Quante volte alla settimana vieni qui, hai detto?», domanda Frankie, guardando la cartellina. «Hai mai pensato a un personal trainer?». Quando me ne vado, ho acquistato un pacchetto di tre lezioni individuali con un tizio di nome Gavin, a uno speciale prezzo iniziale di 99.99 sterline.

    Riuscirci

    Forse mia madre ha accumulato materiale per le nostre conversazioni, o forse il suo comportamento rientra nell’elaborazione del lutto del padre, ma in questi giorni, quando telefona, ha sempre un milione di storie da raccontare.

    «Pippa della chiesa, è nel coro. La conosci. Il marito, un ateo; forse non l’hai mai visto. È scivolato ed è caduto nella doccia: non si sa se tornerà a camminare. Ho mandato papà da John Lewis a comprare uno di quei tappetini. Meglio non rischiare».

    E poi: «Gordon, due case più su; be’, suo genero, il poliziotto… Te l’ho raccontato, ricordi? Depresso. Vari tentativi nel corso degli anni, ma ormai pensavano che l’avesse superata. Invece», sospira, «a quanto pare stavolta c’è riuscito».

    La prossima mossa

    Vado al bar, per uscire un po’ di casa, e porto con me il computer per continuare la ricerca del lavoro. A un tavolo ci sono circa otto donne, tutte con figli, e un paio stanno allattando. Parlano di quanto siano collaborativi i mariti e, sebbene quella gara al rialzo mi renda un po’ diffidente, non posso negare che abbiano un aspetto fantastico. Hanno una pelle meravigliosa e i bambini sono tutti dolcissimi: minuscoli, tranquilli e felici.

    Sto navigando su siti d’arte a caccia di offerte di lavoro, ma non so cosa cercare e ogni volta spuntano solo ruoli commerciali o dirigenziali ben al di sopra del salario desiderato che ho indicato. Entra una donna che pare più o meno della mia età, con una bimba in equilibrio sul fianco. Indossano entrambe una maglietta a righe e un paio di jeans, e quando ordina un caffè, ha davvero l’accento francese. Si siede al tavolo accanto al mio e la bambina parte: va dietro al banco, sotto il tavolo, si arrampica sui gradini con il cartello Vietato l’ingresso. È deliziosa; i baristi la lasciano fare.

    Clicco sulla descrizione di un incarico per i Beni culturali, che consiste nello scrivere i testi delle targhe blu attaccate agli edifici in cui hanno vissuto i personaggi illustri. Sarei in grado, credo, di riassumere la vita di qualcuno in un paio di parole. Immagino come descriverei le persone che conosco: Luke = eminente medico, Paul = artista pioneristico, Sarah = educatrice innovativa. Incontro maggiori difficoltà con chi lavora nelle pubbliche relazioni o come consulente aziendale, ma concludo che in ogni caso non meriterebbero una targa blu.

    La bambina viene al mio tavolo, stende le braccia e mi fa ciao con le manine, sorridendo. Faccio lo stesso, allora lei ride, corre via e nasconde il viso sulle gambe della madre dicendo maman, maman; la mamma, che potrebbe essere persino più giovane di me, si china e mormora qualche frase in francese al caschetto biondo della figlia.

    «Forse dovrei fare un figlio». Sto caricando la lavastoviglie dopo cena, e Luke scoppia a ridere.

    «Con chi?»

    «Giusto, volevo dire dovremmo fare un figlio. Ma sarò io a partorirlo, no? Potrei fare la mamma a tempo pieno».

    «Pensavo che stessi cercando il tuo scopo nella vita», puntualizza Luke. «Pensavo che si trattasse di questo». Mentre pronuncia l’ultima parola fa un gesto ampio, come se la cucina facesse parte in qualche modo del piano, come se questo fosse il luogo dove passo tutto il tempo.

    «Forse il mio scopo è diventare mamma?».

    Luke annuisce, con gli occhi sgranati e il labbro all’infuori, pensieroso ma poco convinto. Mi fa cenno di raggiungerlo, allora mi siedo sulle sue ginocchia, gli circondo il collo con le braccia e gli appoggio il mento sulla spalla.

    «Penso che mi iscriverò a un corso di francese», annunciò. «Per consolidare ciò che ho imparato a scuola. È una vergogna permettere che tutta quella conoscenza vada sprecata».

    «Mais oui», concorda Luke, muovendo la spalla e facendomi girare. Mi bacia alla francese, e questo significa che finiremo a letto.

    Competizione

    Sono le sei di sera, è un giovedì, forse non avrò mandato nessuna candidatura, ma in compenso parteciperò all’estrazione di una Mini Cooper, due notti a Parigi e sette a Miami, buoni acquisto per una marca di vestiti scandinava del valore di cinquecento sterline, una tivù enorme (che progetto di vendere), una macchina del caffè (che invece terrò), biglietti per tre mostre, una cassa di prosecco, uno spremiagrumi, una borsa di marca, un cappotto di marca, un pranzo per due in un ristorante nella City compreso l’aperitivo all’arrivo ma escluso il vino, la tessera di una catena di cinema indipendenti e un pacchetto VIP per due in un centro benessere solo per donne; quindi nessuno può venire a dirmi che è stata una giornata buttata.

    Lavoro

    Paul, il mio amico dell’università, è appena tornato da un periodo all’estero trascorso fra Berlino, Tokyo, Vienna e Johannesburg. È un artista concettuale e si sta facendo un nome: ho iniziato a trovare il suo lavoro citato nei blog (perché lui pubblica i link nel proprio). Ci mettiamo d’accordo per incontrarci in una bettola che frequentavamo ai vecchi tempi, dopo la laurea. Partivo da casa dei miei genitori, in periferia, e mi trascinavo per Londra facendo colloqui ma il mio curriculum di lavori saltuari, come cameriera e babysitter, si rivelava sempre inadeguato. Dopodiché, ci scolavamo bottiglie di vino e ci lagnavamo della giovinezza perduta (avevamo ventun anni), maledicendo le ingiustizie della vita: cosa dovevamo fare? Perché nessuno ci dava mai tregua? In realtà, mentre io spammavo con il mio CV ogni singola organizzazione artistica, pubblicitaria e dei media mi venisse in mente – a prescindere dal fatto che pubblicassero o meno offerte di lavoro – Paul in segreto riceveva proposte di borse di studio da prestigiose scuole d’arte sparse in tutto il mondo. Quando l’ho scoperto, due settimane prima che partisse per New York, mi sono sentita profondamente offesa, e a ragione. Come osava coltivare certi sogni? Chi gli aveva dato il permesso di puntare così in alto? Chi si credeva di essere?

    Arriva con un paio di grossi stivali, i lacci sciolti, la barba incolta e i capelli, che ora sono lunghi, fermati in una piccola crocchia.

    «Congratulazioni per esserti sottratta alla corsa all’oro, piccola», esclama. Mi dà un buffetto sulla testa, un gesto paternalistico che fa sempre: è ironico, ma fa così ogni volta che mi vede. «Dopo tutti quegli anni di minacce inutili! Cosa ti ha spinto a farla finita?».

    Gli racconto del giorno in cui mi è preso l’impulso irresistibile di ingoiare tutti gli oggetti sulla mia scrivania: puntine, pezzi di gomma adesiva, tutto quello che mi entrava in bocca.

    «Mi sono persino messa una graffetta sulla lingua, poi ho capito che c’era un’altra strada. L’ho sputata e sono andata nell’ufficio del capo a dare le dimissioni».

    «E lui, come l’ha presa?»

    «Lei era in ferie, quindi ho dovuto aspettare altre due settimane. Ma non appena ho preso la decisione, è stato come se… come se avessi trattenuto il fiato per tanti anni senza saperlo, e finalmente potessi respirare. E non ho dovuto nemmeno mangiare i punti della spillatrice».

    «Suicidio per burocrazia: mi piace», commenta lui, annuendo lentamente.

    «È un omaggio. Conserva l’idea per la prossima mostra».

    «Mmm, non è nel mio stile. Grazie, comunque», aggiunge, strizzando gli occhi in

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