La lealtà dell'amore
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Diverso è l’approccio al sentimento, sia da parte dei due condottieri che delle protagoniste femminili. Tuttavia, le due giovani hanno molto in comune: lo stesso profondo e irremovibile senso di lealtà, che le porterà ad affrontare numerose difficili prove, vissute da entrambe con fermezza di carattere e ferrea determinazione.
Sullo sfondo i principali momenti del conflitto nel loro esatto svolgersi, cruento e feroce.
Il romanzo mira a mettere in luce la personalità dei personaggi, esaminandone i caratteri e le reazioni agli eventi che li coinvolgono, superando così la mera narrazione storica per offrire un affresco più ampio e dalle tante sfaccettature.
Non mancano anche episodi enigmatici, permeati di mistero, che, alla fine, troveranno una riso-luzione.
Il tema dell’amore permea invece, con tutta la sua magnetica attrattiva, l’intero corso della narra-zione, sino al suo…
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Anteprima del libro
La lealtà dell'amore - Enrico Rigamonti
XLV
I
Tenda di Annibale, dintorni di Sagunto, mese di settembre dell’anno 219 a.C.
«Roma! Tu vieni a promettermi Roma!», Annibale puntò la spada alla gola dell’interlocutore. La sua risata sarcastica saturò l’aria. Poi la voce si fece grave e carica di minaccia.
«E chi mi dice che il tuo non sia un inganno? Forse dovrei affondarti la lama della mia spada nella gola? A Segunto siete allo stremo, l’assedio vi ha piegati. Potresti aver agito per disperazione, magari su mandato di altri! Dovrei ucciderti subito, come si fa con le spie».
«Se tu, Annibale, mi avessi considerato tale, non mi avresti rivolto tutte queste domande, mi avresti trafitto e basta. Tu sai bene che non sono una spia e che la promessa che ti ho fatto non è lontana dalle tue inclinazioni».
«Mostri di avere coraggio».
«Ne ho da vendere!».
«Cosa ti ha spinto fin qui, per assumere un impegno tanto gravoso, persino azzardato?».
«L’odio, lo stesso che nutri tu per Roma. Anzi, più del tuo».
«Cosa ti spinge a parlare così?».
«La mia storia, ciò che ho visto e che so…».
Annibale lo interruppe e continuò a premere la lama alla gola. L’ospite sudava, ma la voce era salda nella sua determinazione.
«Cosa ti fa nutrire certezza che io voglia attaccare Roma?».
«Se così non fosse, non avresti cinto d’assedio Sagunto, alleata di Roma: è evidente che tu stia cercando lo scontro con l’Urbe».
«Possiedi ingegno, non c’è che dire».
«Allora, vuoi sentire la mia storia?».
«Racconta».
«Se vuoi che io parli, riponi la spada, perché comincia a farmi male».
«Che impudenza!», sbottò, a quel punto, il vecchio consigliere di Annibale, Armonide, che si era mantenuto in un angolo, guardingo con un’espressione ostile, di totale diffidenza.
Annibale lo zittì, con un imperioso cenno della mano e ripose la spada.
«Parla!».
«Nacqui a Taranto, mio padre era un conciatore di pelli, viaggiava spesso: i suoi prodotti erano molto ricercati. Un giorno giunse a casa nostra Lucio Cecilio Quieto, che Giove lo fulmini, se è ancora vivo, oppure che resti sprofondato nell’Ade tra atroci tormenti, se è morto!».
«E dunque?».
«Distrusse la vita mia e della mia famiglia!».
«Come?».
«Quieto, chiamato così per i suoi modi gentili, educati, ha un’anima di serpe, infida e velenosa! Commerciava in pelli e conosceva mio padre. Arrivò all’imbrunire, accompagnato da quattro uomini, di cui non ricordo il volto. Mio padre lo accolse, con cordialità, lo fece accomodare e fece imbandire, per loro, un ricco banchetto. La sera stessa dovette però partire, a causa di certi affari. Volle tuttavia che Quieto e il suo seguito si fermassero per la notte. All’ora tarda mi svegliai di soprassalto, sentendo le urla disperate di mia madre. Vidi nella penombra uno degli accompagnatori di Quieto sgozzare Aurelio, il capo dei nostri schiavi. Avrei voluto gridare, ma mi trattenni. Corsi verso la stanza di mia madre: la porta era aperta. Quieto le stava sopra, tu comprendi…».
Annibale annuì.
«Mia madre si dibatteva, tentava di divincolarsi dalla presa bestiale, quello la percuoteva. Sentii una morsa improvvisa alle spalle: era uno dei suoi complici. Mi sollevò da terra: a quel punto urlai. Quieto corse verso di noi, seminudo. Ordinò di rinchiudermi nella mia stanza. Non riuscii a riprendere sonno e a smettere di tremare: piansi tutta la notte. Avevo di fronte la scena, gli occhi di mia madre, la sua disperazione. La mattina dopo mi liberarono e mi portarono al cospetto di Quieto».
«Ti parlò?».
«Sì, mi parlò quel vile, con un ghigno. Disse che mi avrebbe risparmiato la vita, anche se avrebbe potuto farmi scannare. Poi ripartì a cavallo, insieme ai suoi. In casa aveva seminato dolore e morte: aveva sgozzato molti dei nostri schiavi, altri li aveva rapiti. O forse avevano approfittato della violenza, per fuggire».
«E tua madre?».
«Era nella sua camera, quando mi vide mi sorrise, ma il suo volto era spento e assente. Mi ordinò di rimanere lì, di non muovermi per nessun motivo al mondo. Poi si allontanò, con passo incerto andò in giardino. La seguii, di nascosto. Mi misi dietro un grosso albero, perché non si accorgesse di me. La vidi sfilarsi da sotto la tunica un pugnale e vibrarsi un colpo al ventre. Non potei fare nulla per lei».
«Tuo padre?».
«Ritornò a casa quella sera: gli raccontai tutto. Era un uomo buono, onesto, ma debole. Non reagì. Se ne andò, senza dirmi nulla, quasi volesse allontanare da sé il dolore e la tragedia. Lo trovarono impiccato il mattino dopo».
«Cosa facesti in seguito?».
«Mi accolse uno zio che conosceva l’arte medica, era di origini iberiche e, due anni fa, volle tornare a Sagunto, la sua città».
«È ancora vivo?».
«No, lui e sua moglie sono morti: non avevano figli. L’eredità è stata incamerata dall’erario cittadino».
«Così sei senza un soldo…».
«Non mi importa delle ricchezze, vivo per la vendetta e per distruggere Roma!».
«Perché distruggerla? In fondo è stato un solo uomo a recarti oltraggio».
«Tutti i Romani sono come Quieto: infidi, prepotenti, irriguardosi verso ogni legge umana e divina. È giusto che questa città infetta sparisca!».
«Non comprendo però come potresti aiutarmi in questa impresa, ammesso che io intenda compierla».
«Con l’astuzia e l’inganno, cioè con le doti di questi vermi!».
«Spiegati».
«Se me ne darai la possibilità, mi recherò a Roma. Sarò una spia e, al momento opportuno, credimi, Annibale, troverò il modo di aprire le porte al tuo esercito».
«Una grande ambizione».
«Dammi questa opportunità».
«E… se fallissi?».
«Mi presenterò al tuo cospetto, la mia vita sarà tua: se vorrai uccidermi, non opporrò alcuna resistenza».
«Annibale, lascia che ti parli in privato», intervenne Armonide, in preda ad ansia e persino a sgomento.
⚜
«E allora?», gli chiese Annibale, con fastidio, non appena furono sullo spiazzo esterno alla tenda, nel buio della sera.
«Annibale sai quanto ti sia fedele…».
«Sì, sì, ma alle corte: cosa mi vuoi dire?».
«Non fidarti! Si tratta del parto di una mente forsennata, se non di un tradimento! Aprirti le porte di Roma: che sciocchezza, che delirio! Annibale, diffida, te ne prego!».
«Va bene, va bene, ho inteso il tuo consiglio», troncò Annibale, rientrando poi a passo svelto nella tenda. Armonide lo seguiva dubbioso e anche un po’ offeso, per quell’atteggiamento sbrigativo.
«Voglio darti credito: domani mattina ti farò condurre da un mio manipolo, sino al mare. Di lì partirà una nave olearia fenicia che sbarcherà in Sicilia. Dovrai recarti a Roma con le tue forze».
«Ti ringrazio Annibale: raggiungerò quella città invisa agli Dei!».
«Bada bene, ricorderò la tua promessa».
«Se non dovessi riuscire nella mia impresa, manterrò fede alla mia parola. Però ti prego: sbarca al più presto in Sicilia, risali l’Italia e piomba su Roma, così potrò vedere la sua distruzione. Attendo con brama quel giorno, anche se dovesse essere l’ultimo della mia vita».
Annibale non replicò, limitandosi a un sorriso enigmatico.
II
Rimasti soli, Annibale gettò una rapida occhiata a Armonide, e poi uscì dalla tenda.
Guardò verso valle, in direzione delle mura di Sagunto, che svettavano verso il cielo, terso e stellato, illuminate dalla luna piena.
«Gente tenace, coraggiosa», pensò, con ammirazione.
Avvertì però all’improvviso una fitta alla coscia, per una ferita subita nel marzo precedente, durante uno degli assalti alla città. Fu preso, allora, da ira e rancore.
«Maledetta falarica!», imprecò, ricordando che a colpirlo era stato uno di quei temibili giavellotti lanciati dalle mura.
Il medico gli aveva applicato un ferro rovente, per arrestare la fuoriuscita di sangue.
Quel giorno i Cartaginesi avevano fallito, ma lui non aveva voluto abbandonare l’assedio, convinto che alla fine Sagunto sarebbe caduta.
«Ti dovrai arrendere, città testarda e superba!», pensava ora «I romani non verranno in tuo aiuto, la storia dirà: mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata. Quei senatori, vecchi e inetti si perderanno in discussioni senza fine e, nel frattempo, il mio esercito piegherà le tue difese, farà strage dei tuoi soldati! Non ti serviranno a nulla le falariche o l’ardore dei giovani. Sarà dunque guerra con Roma. Si aspetteranno che io attacchi dalla Sicilia: illusi! Piomberò invece alle loro spalle, attraverso le Alpi. Vendicherò gli affronti e le offese: di Roma resterà solo un cumulo di rovine fumanti!».
Un fruscio alle spalle lo risvegliò dalle sue meditazioni.
«Sono io, Annibale», gridò Armonide, preoccupato al vederlo con la spada sguainata.
«Tu disapprovi ciò che ho fatto prima, vero?».
«Mio Signore, penso che avresti dovuto…».
Annibale non lo lasciò terminare, ma lo agguantò al petto, con volto stravolto dalla collera.
«Non dirmi cosa debba o non debba fare, vecchio stupido! Non permetterti mai più una simile libertà, oppure ti ammazzerò. Vattene ora!».
L’altro si sistemò la tunica, e si avviò, con passo incerto, verso il proprio alloggiamento.
⚜
Mentre camminava lungo un sentiero tortuoso, Armonide sentiva una gran rabbia per l’umiliazione subita.
«Giovane arrogante!», pensava. «Mi tratti così? Io sono stato consigliere di tuo padre, prima che tu nascessi! Gli ho dato pareri che hanno fatto grande Cartagine. Lui me n’è sempre stato grato! Ho accettato di accompagnarti in questa folle avventura, benché sia vecchio e debole, per amore della città e della tua famiglia e tu, tu …».
Gli mancò il respiro, mentre il suo cuore batteva violentemente.
Si appoggiò a un costone, incerto sul da farsi: temeva di non riuscire a raggiungere la propria tenda, ma non voleva ritornare da Annibale, convinto com’era che quello l’avrebbe deriso e umiliato ancora una volta. No, meglio morire solo, su quel sentiero brullo, di notte, lontano da Cartagine.
Il ricordo della sua città gli provocò un’intensa commozione, non riuscì a trattenere le lacrime.
Vide, in quel mentre, avanzare, dalla direzione opposta alla sua, la luce di una fiaccola che pareva sul punto di essere spenta dal vento impetuoso.
Si ricompose, incuriosito e spaventato da quello sconosciuto che veniva verso di lui.
Decise di andargli incontro, con passo quanto più deciso possibile, in modo che l’altro non si accorgesse del suo turbamento.
Quando giunse a pochi passi da lui, protese in avanti la fiaccola e gli illuminò il viso.
«Dove vai, Postronio?», gli chiese, rasserenato, dopo averlo riconosciuto.
Si trattava di un funzionario di casa Barca.
«Oh, Armonide, questo vento mi impedisce di prendere sonno e allora mi sto dirigendo verso la cima del promontorio, per meditare …».
«Ah, comprendo».
«Ma tu come mai, sei qui, a quest’ora e con un tempo