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Il piano cartesiano dell'amore
Il piano cartesiano dell'amore
Il piano cartesiano dell'amore
E-book182 pagine2 ore

Il piano cartesiano dell'amore

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Info su questo ebook

Secondogenito non voluto, il protagonista vive un rapporto difficile con la famiglia anche a causa della sua passione per la matematica. Abbandonata la casa paterna, trova l’affetto familiare che gli è mancato nei suoi nuovi vicini e nella loro figlia. La prima volta che la vede, Anna ha solo quattro anni e l’amore che nasce, e cresce nel tempo, è caratterizzato dallo sforzo doloroso del protagonista di non lasciarsi sopraffare dall’istinto bestiale.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2020
ISBN9788835807247
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    Anteprima del libro

    Il piano cartesiano dell'amore - Ester Arena

    Ringraziamenti

    I

    La mia, era la vita grigia di un eterno fuoricorso universitario senza problemi economici. Non so se mio nonno mi avesse assicurato un vitalizio perché temeva che non sarei riuscito a concludere nulla o se io non fossi andato avanti perché tanto a me ci aveva già pensato lui. In realtà, credo che l’avesse fatto semplicemente perché potessi avere, un giorno, il coraggio di sciogliermi dalle catene che erano la mia famiglia. Perché poi è stato proprio così.

    Quando sono andato via dalla casa dei miei, non avevo nulla se non il suo lascito, ma è stato quello che mi ha permesso di non voltarmi indietro e io non smetterò mai di ringraziarlo.

    Le pareti del nostro attico, dalla meravigliosa vista sul fiume e sulla città, mi sembrava che mangiassero, giorno dopo giorno, il mio spazio vitale. Se non avessi preso una decisione, una qualsiasi, fosse anche un volo d’angelo giù dal balcone, mi avrebbero schiacciato e stritolato del tutto, insieme ai discorsi di mio padre e alle lamentele piagnucolose di mia madre.

    Non c’era più un posto dove riuscissi a sentirmi a mio agio. Nemmeno in camera mia, tra i ricordi di mio nonno. Avevo trentadue anni e, rimanendo lì, rischiavo di soffocare nel nulla.

    Non so cosa mi abbia dato la spinta, forse la mancanza d’aria, forse l’istinto di sopravvivenza o forse, finalmente, mi ero reso conto che nessuno, tranne me, avrebbe potuto rendere differente la mia vita. Comunicare ai miei che avevo deciso di andare a vivere per conto mio, non era stato troppo difficile. Non c’era stata nessuna resistenza. L’avevo fatto una di quelle sere come tante, nel salone, davanti alla foto di mio fratello che troneggiava fiera sul pianoforte a coda.

    «Sei un adulto, puoi permetterti di vivere senza fare nulla grazie a tuo nonno. Ti auguro di riuscire a fare qualcosa di più».

    Quelle le parole di mio padre, che era rimasto in piedi, girato verso la finestra. Nessun abbraccio, nessuna stretta di mano. Non era riuscito nemmeno a dire che ormai ero un uomo. Mi aveva solo definito, su base anagrafica, un adulto. Mia madre, abbandonata sulla sua poltrona di pelle bianca in una posa da eroina dell’Opera, aveva pianto un poco come fosse il lamento di un gatto. Senza lacrime, per non rovinarsi il trucco, ma non si era mossa nemmeno lei.

    La casa, dove abitavo ormai da qualche mese, l’avevo scelta perché era vicina all’università e al mercato. Era un piccolo seminterrato in un condominio popolare costruito durante il Ventennio. Il giardino del complesso era ben curato, sui piccoli balconi c’erano vasi di fiori e sulle terrazze dei tetti sventolavano bandiere di lenzuola bianche. C’era anche il servizio di portierato che si tramandava di padre in figlio.

    Mi dava fastidio, però, vedere la gente o forse mi dava più fastidio che la gente vedesse me. Per questo uscivo poco. Un po’ al mattino presto per una spesa veloce. La sera, invece, un po’ di più, perché la strada era affollata solo delle luci accese nelle case. Mi fermavo a guardarle. Cercavo di capire dalla loro intensità se in quelle case abitasse la gioia o solo la noia della routine, come quella, falsamente sfarzosa, della casa dei miei.

    Vivevo del vociare che dalla strada filtrava in casa attraverso la finestra. Mi permetteva di immaginare frammenti di vita colorata, senza dovermi impegnare, senza sentire il bisogno di altro, diverso da ciò che passava il convento della mia vita grigia. La colpa ora era solo mia, lo sapevo, ma per il momento avevo scelto di non voler cercare o scegliere. Era più semplice. Per darmi un senso, avevo bisogno di tempo.

    Ero ancora intrappolato nella raffigurazione della mia vita come quella linea sostanzialmente piatta che avevo tracciato sul piano cartesiano dopo aver finito il liceo.

    Andavo male a scuola, ma non così male da farmi bocciare, non ero stupido e in questo mio padre aveva ragione. Comportarmi così, era stato, in un certo senso, lo scopo della mia vita di ragazzo. Creare qualche problema era l’unico modo per far sentire che in quella casa c’ero anch’io. Era stata una sorta di sfida per avere un po’ dell’attenzione di mio padre e di mia madre. Non ci provavo gusto e sapevo bene che, in realtà, aggravavo da solo la mia posizione nella scala di gradimento di mio padre.

    Alla maturità ero riuscito a strappare un trentasette. Ok, solo un pelo più della sufficienza, ma, insomma, era comunque un po’ di più. Ero rientrato a casa e, con un sorriso strafottente stampato sulla faccia, avevo provato a dire: «Non è andata troppo male, no?».

    La battuta non era piaciuta, avevo rimediato un ceffone e, ovviamente, detto addio alla vacanza con gli amici.

    Quella volta non mi era importato. Volevo pensare. Ragionare su di me. Chiedermi che cosa volessi fare veramente da grande. Non sarei mai stato all’altezza di mio fratello nella loro considerazione, di questo ormai ero certo. Avrebbero fatto continui paragoni in cui sarei stato sempre il termine peggiore. Perché dovevo, allora, uniformarmi alla volontà degli altri, nella speranza di un’accettazione che comunque sapevo già che non sarebbe mai arrivata? Avrei dovuto fare altro. Ma altro cosa?

    Quella domanda era diventata un tormento. Passavo il tempo chiuso in camera a guardare la mia immagine riflessa nello specchio, come se, quell’altro me, potesse darmi la risposta che cercavo. Quello, però, rimaneva muto, come se stesse, lui stesso, aspettando una risposta da me.

    Una notte, una delle tante in cui non riuscivo a prendere sonno, ero seduto alla scrivania. Il computer era acceso e accanto c’erano i miei libri. Avrei potuto leggere, oppure distrarmi con qualche solitario, invece nulla. Il mio sguardo si perdeva nel bianco di un foglio da disegno. Mi dava l’idea di un vuoto che andava riempito, un po’ come la mia vita. Così, senza pensare e senza una ragione, avevo cominciato a disegnarci sopra due rette perpendicolari. Frazionare quel vuoto era già qualcosa, lo rendeva meno assoluto.

    Che senso potevano avere, però, quei segni che avevo tracciato? Non ci avevo messo molto a capirlo. Ciò che avevo davanti era semplicemente un piano cartesiano. Era stato così che mi era venuto in mente, poi, di provare a descrivere la mia vita, mettendo insieme le mie emozioni e il mio tempo proprio su quel piano cartesiano. Speravo di potermi raffigurare come una curva, sarebbe andata bene anche una sinusoide con il suo andamento morbido, elegante, di respiro, per descrivere eventi belli o deludenti. Invece, ero riuscito a disegnare solo una linea sostanzialmente piatta, perché nella mia vita non c’era stato nulla di importante che mi avesse emozionato davvero.

    Davanti a quella rappresentazione di me, mi ero sentito ribollire il sangue. Ero stufo di essere un senza senso, volevo dimostrare che potevo fare anch’io qualcosa, anche se differente da tutto ciò che per mio padre, mia madre, mio fratello, era normale, ovvio, atteso e avrei voluto che ci credessero anche loro.

    Così, avevo deciso di scegliere la facoltà di matematica. Le urla e le minacce iniziali di mio padre erano cessate presto. Contavo così poco per lui che il fatto che non ci sarebbe stata un’altra pergamena da appendere al muro con scritto Dottore in Giurisprudenza, come per tutti i maschi della nostra famiglia, non era un problema da perderci troppo tempo e pazienza.

    «Il vecchio deve averti riempito la testa con le sue cazzate sulla vita. Realizza il tuo sogno, ragazzo!. Scommetto che è così che ti ha detto. Fai come vuoi, ormai con te è inutile tentare di ragionare. Tanto, non combineresti niente, neanche con una laurea giusta. Ammesso che tu ce la faccia ad arrivare alla fine».

    Avevo lasciato che finisse di parlare, senza dire nulla. Le sue parole, quel giorno, mi erano scivolate addosso, perché ero certo della mia scelta, a prescindere dal risultato che avrei o non avrei potuto raggiungere. Mi piaceva giocare con i numeri e rompermi la testa con i problemi che sembravano difficili da risolvere. Alla fine, riuscivo sempre a trovare la soluzione e ciò che avrei voluto di più al mondo era mettere alla prova mio padre e mio fratello.

    Non l’ho mai fatto, ovviamente, ma so che avrei vinto. Sì, per una volta avrei vinto io e la figura dell’incapace l’avrebbe fatta mio fratello. Mio padre si sarebbe ritirato prima dal gioco, dicendo che aveva altro da fare.

    Aver scelto una strada differente, che mi avrebbe distinto da tutti, era stato come prendere la scossa. Il primo anno avevo dato tutti gli esami riportando il massimo dei voti. Tornavo a casa entusiasta, ma ogni volta avevano tutti troppo da fare per ascoltare e partecipare, mentre mio padre, nonostante quei miei successi, conservava l’inflessione ironica e nauseata nella sua voce da vecchio trombone.

    «Eccolo qua il genio di famiglia. Si è rivelato al mondo all’improvviso. Ti chiameremo Einstein».

    Poi si faceva una bella risata. Mio fratello e mia madre ridevano con lui, mentre io mi sentivo ancora il birillo da buttare giù e non mi divertivo affatto. Ma anche questo sembrava fosse una colpa. Finivo di cenare in silenzio e poi andavo in camera mia. Era tutto inutile. Qualsiasi cosa facessi, non aveva importanza.

    Avevo su di me il marchio del senza senso fin dalla nascita, e così, un po’ per volta, ero tornato a essere per loro l’inconcludente di sempre. Non era più per sfida, però. Studiavo solo per me, per soddisfare la mia sete di conoscenza e divertirmi con la matematica, senza sentire il bisogno di aggiungere le firme dei professori sul libretto universitario.

    «Come vedi, avevo ragione io», diceva mio padre.

    Le sue parole ormai scivolavano via senza lasciare traccia apparente.

    II

    Per tutta l’estate, le finestre dell’appartamento al terzo piano della palazzina di fronte al mio seminterrato erano rimaste chiuse. Poi, all’improvviso, una mattina di settembre la vita era tornata ad animare quella casa.

    La famiglia che vi abitava era composta da mamma, papà e una bambina con la voce squillante e che non stava mai ferma.

    È stata quella, la prima volta che ho visto Anna. Aveva quattro anni. Sembrava una scimmietta aggrappata alla ringhiera del terrazzo che circonda il semiperimetro di tutto l’appartamento.

    Sbirciando tra i teli delle tende della mia finestra, incuriosito all’inizio non sapevo nemmeno io da cosa, avevo cominciato a seguire giorno dopo giorno momenti della vita in esterno di Anna e della sua famiglia, mentre l’eco delle loro voci arrivava fino a me. Mi sedevo sulla poltrona e mi godevo la loro vita così diversa da quella che ricordavo fosse stata la mia da bambino.

    Col passare dei giorni, avevo preso confidenza con le loro abitudini e avrei potuto dire, sicuro di non sbagliare, ora fanno questo, tra un po’ arriva quello, ora Anna annaffia il suo vaso di fiori, soffia le bolle di sapone, oppure stasera hanno ospiti quindi preparano la griglia e accendono le lanterne.

    Avevo cominciato a immaginarmi invitato alle loro cene in terrazza, agli aperitivi nell’arancio dei tramonti o a inventare giochi per Anna e i suoi amici. Sembrava semplice, innocuo, come un gioco o come seguire una serie TV che ti appassiona così tanto che ti sembra di essere parte del cast, anche se non sei uno dei personaggi principali.

    E così era stato, finché non avevo visto il padre di Anna insegnarle ad andare in bicicletta senza le rotelle, Anna piangere a ogni caduta, lui ogni volta tirarla su, abbracciarla e poi rimetterla in sella. Senza stancarsi. Senza arrendersi. Né l’uno né l’altra. Tanti tentativi, fatti insieme loro due, mentre io li seguivo col fiato sospeso. Poi, quando Anna era riuscita a pedalare da sola lungo tutto il terrazzo, era scrosciato l’applauso. Anche il mio, ma non l’avevano sentito.

    Ecco, quella volta lo spettacolo era stato diverso da tutte le altre volte. L’avevo vista saltellare intorno a suo padre, stringerlo come mai prima e riempirlo di baci. E lui fare lo stesso con lei, poi prenderla su, facendola girare come stessero disegnando un cerchio col compasso. Ridevano. Ridevano insieme. Ridevano insieme felici. Mentre io ero lì, a guardare, ipnotizzato da quelle immagini che erano rimaste impresse nei miei occhi anche dopo che loro non c’erano più.

    Nella mia vita non c’era stato e non c’era niente che avesse i sapori dell’emozione di ciò che avevo visto in quel momento e che in fondo vedevo ogni giorno osservando quel po’ della vita di Anna e della sua famiglia che mi era concesso.

    Avevo sentito smuoversi non so cosa dentro di me e mi era rimasta addosso una smania che ero riuscito a controllare a malapena. Avrei voluto urlare, forse per sputare, come fosse l’eruzione di un vulcano svegliato all’improvviso, tutta la solitudine che mi portavo dentro.

    Avrei voluto un po’ di quella vita. Avrei voluto ridere così. Avrei voluto farlo insieme, così come facevano loro. Avrei voluto quei baci. Avrei voluto sentire quelle piccole mani stringere il mio viso. Provare l’emozione di quell’abbraccio reciproco senza pretese, senza aspettative e che voleva dire ‘grazie di esistere’ e basta.

    Avrei voluto tutto quello anch’io. Non era invidia ciò che provavo, ma il desiderio di poter essere almeno qualcosa di simile a quell’uomo. Avrei voluto per me la meraviglia di quell’amore. Assoluto, innocente. Avrei voluto provarlo. Almeno per un momento.

    Sul piano cartesiano, il valore della mia emozione si era impennato nella sciocca illusione che potesse congiungersi al mio tempo per trasformare quella voglia in qualcosa di reale. Ma, per quanto lo desiderassi, ciò non sarebbe potuto mai accadere. Quella vita che avrei voluto non avrebbe mai potuto essere la mia. Io potevo solo

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